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Un'”Acqua di colonia” tutta italiana: intorno all’ultimo lavoro di Frosini/Timpano

Acqua di colonia, ultimo lavoro di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, è uno spettacolo sulla storia del colonialismo italiano. Sì, ma quale?, visto che è una vicenda durata pochissimi anni, che risale all’ormai ben superata (?) epoca fascista, e non siamo mica stati grandi imperi come l’Inghilterra o la Francia – questo è il luogo comune condiviso –, e comunque nessuno ce l’ha raccontata a scuola o sui giornali, se ne sa poco o praticamente niente: appunto, solo quel che resta di consolatorio e giustificatorio nell’immaginario collettivo. E invece non è così, lo spettacolo centra l’obiettivo fin dal titolo: è una vicenda rimossa, ben più profonda e radicata di quello che crediamo (risale addirittura alla fine dell’Ottocento, ben prima che Mussolini e i suoi andassero alla ricerca di “un posto al sole”) – proprio come un profumo, quell'”acqua di colonia” che resta sulla pelle a distanza di tempo, nell’aria, tutt’intorno a noi oggi che si dibatte tanto di Medio Oriente, migranti e ius soli.

foto di Ilaria Scarpa

Acqua di colonia si fonda da un lato sul montaggio, in una sorta di blob sempre più dilagante, di documenti che certificano la storia di colonialismo istituita e legittimata dal nostro Paese: dalle guide di viaggio dei primi del Novecento, citate parola per parola, alla testimonianza richiamata di personaggi celebri coinvolti nelle guerre d’Africa come Indro Montanelli; dalla creazione delle prime leggi razziali al razzismo veicolato dal cinema anche d’autore – si va dall’inquietantissimo Topolino in Abissinia a Tognazzi, e aprendo lo sguardo oltreconfine da Stanlio e Ollio alla Mia Africa con Meryl Streep – e ancora perpetrato decenni e decenni dopo dalle pubblicità in TV (dalle caramelle Tabù all’iconografia degli appelli delle ong); dalla passione esotista delle grandi opere della modernità (vedi Aida, scritta per l’inaugurazione del Canale di Suez da un Verdi che come Salgari e altri non aveva mai messo il naso fuori dall’Occidente) alle canzoni fasciste (Faccetta nera su tutte ovviamente) a quelle pop degli anni Settanta (basti pensare ai Watussi).
È una vicenda che comincia almeno nella seconda metà del XIX secolo, attraversa tutta la storia e la cultura del Novecento (siamo noi a sperimentare i primi bombardamenti aerei di sempre, in Libia nel 1911), per arrivare all’oggi in un intreccio di opinioni razziste e coloniali che saltano da Immanuel Kant al barista sotto casa, da Rousseau ai pregiudizi di amici e parenti, da Aristotele a youtube. Sarebbe impossibile riconoscere da chi proviene il commento in questione se gli attori dopo qualche secondo non ne dichiarassero la fonte, disegnando così una storia coloniale radicata e antichissima, e tuttora assolutamente operante, all’interno dell’immaginario e delle consuetudini europee; e però anche dichiaratamente, specificamente italiana, se pensiamo – come ci ricorda lo spettacolo – che pur non avendo una tradizione coloniale del calibro di Gran Bretagna o altri Paesi, l’Italia durante la guerra d’Etiopia – impresa sanzionata dal proto-Onu ma lasciata transitare da Suez – in pochi mesi ha impiegato 500.000 soldati, quanto gli americani in 15 anni di Vietnam.

foto di Laura Toro

Però, appunto, se ne sa poco o niente, e il senso primo nella visione di questo spettacolo di Frosini/Timpano è senza dubbio la scoperta e la condivisione fra gli spettatori di un rimosso storico comune e importantissimo, sia per il passato che per il presente: “c’abbiamo messo una bella pietra sopra… una pietra tombale”, ci dicono dal palco, su soprusi, abusi, sopraffazioni, distruzioni e guerre tanto che pochi ancora se ne ricordano e ne parlano, e il ruolo di Acqua di colonia è proprio portare a emergere questo rimosso, attenendosi talvolta ai fatti specifici legati all’Africa Orientale Italiana ma poi esorbitando verso quello che di coloniale permane nella cultura contemporanea del Paese, d’Europa e d’Occidente. Già “soltanto” per questa ragione è a mio avviso uno dei lavori del teatro italiano più importanti degli ultimi mesi: capace di intrecciare, com’è nella cifra della compagnia, informazione storica, analitica e verticale, e traiettorie orizzontali, più sfumate e culturali; comicità e – siccome in questo discorso c’è veramente poco da ridere – critica spietata, che non fa sconti a nessuno, nemmeno agli stessi autori e performer.
Perché dall’altro lato – anche questo è un tratto distintivo del lavoro di Frosini/Timpano – al montaggio di scene, fonti, frammenti storici intorno al tema, spesso citati così come sono, da libri, film o canzoni d’epoca, fa da contrappunto la prospettiva individuale degli artisti, in questo caso localizzata soprattutto nel racconto della modalità in cui si avvicinano all’argomento e provano a portarlo in teatro in forma di spettacolo (tutta la prima parte di Acqua di colonia è un “come se” prima detto e poi anche fatto che ha al centro le potenziali soluzioni sceniche per trattare un tema così atroce, mentre torna in continuazione la parola “immaginate” rivolta al pubblico, a tessere un rimando sempre straniato fra scena e platea). Anche se il rapporto fra l’oggetto in questione e la posizione degli artisti a riguardo viene costruito su un piano di meta-discorso teatrale, mentre solo in piccolissima parte la dialettica storia/persona, teatro/performer riesce a esprimersi su un piano più biografico, fuori dai limiti del palcoscenico.

foto di Ilaria Scarpa

Ma il dispositivo in buona parte riesce a funzionare bene, certificando una tappa di sviluppo importante nella messa a punto di un linguaggio condiviso dal duo Frosini/Timpano (prima con un percorso artistico individuale ben marcato) in uno spettacolo che in fondo è fatto di “niente” (si fa per dire): senza supporti scenografici o effetti scenici, possibilità d’ambientazione o rappresentazione, rimangono soltanto gli attori, i loro corpi, i movimenti stilizzati e le loro parole, sopraffatti da un catalogo sempre inaspettato di elementi che rimandano a un colonialismo che si rivela essere non del tutto “post-“, ma sempre attuale, davanti all’incommensurabilità di una storia non voluta e rimossa che forse proprio perciò continua in sordina fino al giorno d’oggi (anche questo un elemento ricorrente e discriminante nel percorso della compagnia rispetto alla scelta dei temi su cui lavorare). E di fronte, per tutta la prima parte dell’allestimento, a una giovane seduta su una seggiolina, che assiste alla rappresentazione scrutando la platea: una persona di colore, diversa a ogni replica, che – ci informano – viene reclutata sul posto ed è ignara dello svolgimento dello spettacolo. Più di tutto il suo sguardo silenzioso è un ammonimento senza scampo, un innesco di straniamento continuo, a tratti lancinante per la giustapposizione a battute particolarmente feroci, che riporta alla realtà impedendo di lasciarsi andare alla messinscena, alle sue trovate sceniche e alle gag comiche che lo costellano.

foto di Laila Pozzo

Se la possibilità della rappresentazione e della narrazione è continuamente negata – l’una tramite i tentativi di messinscena, sempre interrotti, di fatti e figure del colonialismo storico e culturale, e l’altra per la tipologia di montaggio non lineare dei frammenti performativi –, va anche detto che dal punto di vista strutturale lo spettacolo dimostra una linea ben precisa: oltre il livello informativo e politico, pure importantissimo e primario, l’allestimento condivide anche una sorta di racconto di se stesso, in cui il discorso teatrale si apre al pubblico, tramite la messa in scena di alcuni passaggi del percorso di creazione. L’esito è quello di un meccanismo che rende gradatamente chi guarda partecipe di ciò che sta accadendo in scena, in un itinerario che parte dalle condizioni reali per svolgersi lungo un progressivo, graduale sprofondamento nella dimensione della finzione e dell’astrazione, come ad accompagnare il pubblico man mano al dato di sospensione dell’incredulità alla base del teatro che tante volte in epoca contemporanea è stato discusso e anche negato. L’allestimento parte all’inizio da un realissimo straniamento meta-teatrale (gli attori già sul palco che guardano il pubblico, e parlando di come e perché si potrebbe fare questo spettacolo); procede coi vari tentativi di racconto per frammenti della storia del colonialismo italiano fra passato e presente; per arrivare infine nella seconda parte a svilupparsi tramite la concretizzazione delle immagini/scene prima annunciate solo a parole, culminando in un finale di grande impatto visivo ed emotivo – che qui non sveliamo, ma che ci riporta in immagine il tentativo di rimozione da parte dei colonizzatori, mirato ad occultare le atrocità commesse, il fatto che anche l’Italia ha un suo passato squisitamente imperialista, profondamente coloniale. Che però – almeno con questo spettacolo – torna subdolamente a trafiggere le coscienze, instillando un retro-pensiero a cui poi è difficile non ritornare, appunto come un profumo di colonia troppo intenso rimasto dopo giorni e magari anche lavaggi a infestare menti, corpi e abiti di persone che tante volte non se ne ricordano neanche più.

Visto e rivisto al Teatro Ca’ Foscari (Venezia) e all’ITC di S. Lazzaro di Savena (BO)

Roberta Ferraresi

 

Zombitudine: dall’India a Romaeuropa

Andatura ciondolante e sguardo perso nel vuoto, la scorsa estate si sono trascinati per le strade di Bassano del Grappa. Prima di allora avevano imboccato i tunnel della metro milanese e attraversato le corsie di supermarket genovesi. In questi giorni, messaggi appesi al collo e morte incollata alle gambe, sono nella capitale, da Piazza Navona a Campo de’ Fiori. Sono gli zombie di Corpo Morto, workshop ospitato dal Teatro di Roma nella Sala Enriquez del Teatro Argentina, progetto (qui un approfondimento) che prende le mosse al Teatro India nel 2012 per ritornare, dopo varie incursioni sul territorio nazionale, a Roma, dove tutto è cominciato.
Un seminario per attori non-risolti che si lega, in questo, come in precedenti casi, allo spettacolo Zombitudine, firmato da Daniele Timpano e Elvira Frosini, in scena al Teatro dell’Orologio dal 2 al 23 novembre, all’interno di Romaeuropa Festival. In questa conversazione di fine agosto a Bassano, durante B.Motion, i due attori romani ci hanno parlato dello spettacolo e del clima di stagnazione che lo ha generato.

Daniele Timpano: Tutto è partito da Perdutamente, che è stato l’occasione di mettere il peso su una bilancia piuttosto che su un’altra. Tra le modalità di stare all’India in quel momento c’era la possibilità di dar vita a dei laboratori, e il filone di morte/resurrezione su cui volevamo proseguire poteva essere indagato anche collettivamente (e quindi nella dimensione che il Teatro di Roma aveva voluto per l’India in quel momento). Il nucleo delle azioni urbane c’era già lì, come alcuni testi. Del lavoro fatto a Perdutamente ci sono degli echi nello spettacolo, a partire dalla sensazione di attesa in apertura. Però mentre là c’era una presenza plurima, nello spettacolo, invece, siamo in due.

Come definireste Zombitudine, quindi? Un progetto?
D. T.: Lo spettacolo senza le azioni urbane ha forse una maggiore linearità, e in ogni caso funziona da sé. Ma ci piace, quando possiamo, legarlo a quest’altra parte, il laboratorio. Perché non si parla solo di comparse, sono qualcosa di più.
Elvira Frosini: E poi funziona bene. A Genova, in primis, si è creata una forte aderenza delle persone al progetto, anche nel tempo. C’è una potenzialità di sviluppo.
D. T.: L’esito del laboratorio è ambientato nel teatro dove si sta, con gli spettatori intervenuti quella sera. Dall’inizio si sa che è un fallimento, ma si tenta di improvvisare una comunità. Il teatro è come la cantina di un film di zombie: quella dove tutti si rifugiano, ma che invece è una trappola.
E. F.: Il plot dello spettacolo è volutamente il cliché di un film di zombie qualsiasi: siamo convinti di essere in salvo, e invece ci siamo messi in trappola da soli. Siamo partiti da una condizione nostra, biografica.

Foto di Donato Aquaro

Foto di Donato Aquaro

Che ha a che vedere con un certo panorama teatrale, e più in generale, con una situazione generazionale?
D. T.: Sì, mi viene da dirlo perché lo vedo anche in altri spettacoli, come in Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, ad esempio (leggi l’intervista o l‘approfondimento).
E. F.: E anche in quello di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, ndr), con modalità differenti certo, ma c’è l’idea di confrontarsi con una difficoltà epocale, ed esistenziale. Oltre a essere un lavoro, il nostro, è anche una modalità di vita. Il teatro per noi è un rifugio e una trappola. Ci sono piccole ritualità quotidiane, un quotidiano che aspetta e spera. Abbiamo paura delle invasioni, dei corpi estranei che entrano nel tuo mondo, ma c’è quasi un anelito disperato alla distruzione di un mondo, che è già in frantumi. E allora che sia.
D. T.: Il senso dominante è quello di stagnazione, di confusione, di impotenza. Già in Aldo Morto (leggi l’approfondimento), con riferimento ai politici di oggi, parlavo di un senso di impotenza. E l’idea del teatro come cantina, come tomba, come chiusura, come autoreclusione, c’era già. Un’impotenza sentita prima in quanto cittadini, e poi in quanto artisti. È un dato se non generazionale, anagrafico, perché siamo in una sorta di limbo. Non più giovani, ma neanche vecchi, “affermati” ma quasi niente. Non abbiamo figli, probabilmente non li avremo, abbiamo un’economia sempre avventurosa. È un humus dal quale non si esce, e se c’è da un lato la potenzialità di empatia con lo spettatore, dall’altro c’è anche un rischio snobistico, davanti a una cosa talmente familiare, che ti fa dire “già lo so, lo vivo tutti i giorni, cosa c’è di nuovo?”. Zombitudine è in bilico fra queste due cose.
E. F.: Dopo aver riaperto questa ferita gigantesca, un trauma delle coscienze che ci ha messo sotto una cappa di immobilità, Aldo Morto chiude con un vuoto, con un’impotenza totale. Apre un baratro, dicendo che c’è impossibilità di reazione alla reazione. Digerseltz vive di questo vuoto, che cerca di riempire con una bulimia di parole. C’è un senso di grande solitudine, e una sorta di cannibalismo sociale. Zombitudine per noi è quasi ripartire da zero, dal vuoto, dal chiacchiericcio che ci infetta, da un’archiviazione. È uno spettacolo quasi aristotelico, ha un inizio, una fine, c’è unità di tempo e di luogo, ha quasi una circolarità.
D.T.: E non è un caso che sia ambientato in un teatro. Ma è un’idea quasi stereotipata di teatro, con un sipario un po’ retrò, con vestiti anni Cinquanta; anche le battute e il ritmo sembrano anni Cinquanta, non dico che sembra Beckett o Ionesco ma quasi.

Quindi, è un’idea di teatro con un’accezione negativa?
E. F.: Sì, è l’idea di teatro che potrebbe avere un italiano medio. Nel nostro Paese è come se il Novecento non fosse mai passato, come se non si potesse leggere altro. Non c’è stata una crescita, uno scoprire altro.
D. T.: I testi teatrali più recenti che vedo in casa di chi non fa teatro sono quelli di Brecht. È come se nessuno di noi fosse passato alla storia del teatro. Nell’idea comune del teatro – nonostante il palcoscenico, nonostante Rai 5, nonostante Radio 3 – è come se tutto quello che stimi e ami da quando fai teatro, non esistesse.

Non c’è nessuna possibilità di salvezza? Non scorgete una via di fuga?
E. F.: Sì, resistere. Non c’è una forma di nichilismo azzerante. Credo che il teatro italiano oggi abbia forza, capacità, ma è come se non riuscisse ad arrivare alla coscienza nazionale, al dibattito allargato. Le grandi riflessioni, sui giornali, sui media, oggi, quelle che ci riguardano tutti, partono da un evento spettacolare, da un film, mai da un pezzo teatrale.
D. T.: Quando sono stato invitato a Parigi per il convegno L’Histoire derrière le rideau. Ecritures scéniques du Risorgimento, con lo spettacolo Risorgimento Pop, c’era grande attenzione per il film di Martone e grande snobismo per gli autori contemporanei viventi. Sembrava che dovessimo motivare costantemente il nostro lavoro. La letteratura teatrale tardo-settecentesca e ottocentesca non aveva nessun limite di questo tipo, era ampiamente legittimata. Basti pensare che solo quando sono stato chiuso 54 giorni dentro il Teatro dell’Orologio sono stato citato all’Accademia Aldo Moro durante un convegno di studi. Lo spettacolo che ha girato due anni e mezzo, che è stato visto, pubblicato, recensito, da solo non bastava. C’è voluto l’evento per farlo uscire fuori.

Avete citato i lavori di entrambi. Come si riflette il percorso del singolo sul lavoro comune?
E. F.: Digerseltz e Aldo Morto nascono nel periodo in cui nasce la nostra collaborazione. Nel nostro primo lavoro insieme, Sì l’ammore No, del 2009, forse si distinguono ancora le differenze.
D. T.: La struttura dello spettacolo era più “frosiniana” che “timpaniana”, perché partiva dalla scrittura scenica, dall’uso dello spazio, dal creare relazioni tra stati, collegamenti tra cose. Spettacoli come Dux in scatolaAldo Morto hanno una struttura differente perché in mezzo c’è questa collaborazione. Dux in scatola ha un’idea di struttura chiara e un’idea scenica semplice, scarna, che tutto sommato non cambia mai: è un’idea lineare che va dall’inizio, allo svolgimento, alla fine. In Aldo Morto i collegamenti logici coi materiali si realizzano per attività tematica e per ragionamenti, ma sono anche discorsi di scrittura scenica, di immagini, di spazialità, per una modifica progressiva della modalità del pensiero dovuta al lavoro comune. Zombitudine può essere il preludio a direzioni future, ancora da scrivere.

Avete nominato il nordest dei Fratelli Dalla Via, la provincia, il lavoro, la ditta. Nella vostra situazione di stallo quanto influisce il territorio romano?
E. F.:
 Tanto, consciamente e inconsciamente. La situazione di stallo è fortemente legata a Roma. Tutti i giorni ci confrontiamo con l’idea di stagnazione.
D. T.: Un senso di oscuramento è nell’aria della città, e noi siamo spugne di questa stagnazione.

Pensate mai di spostarvi?
D. T.: Io continuamente!
E. F.: È vero che a Roma abbiamo uno spazio, dove facciamo laboratori, dove teniamo tutte le nostre cose. Ma è vero anche ci sono regioni che proteggono i loro artisti. In Lazio siamo orfani.

Il debutto a Genova, poi Rieti e Bassano. Nel 2015 Milano, Napoli e Palermo. Avete girato e girerete parecchio con questo lavoro. E adesso Romaeuropa.
D.T. Dopo Corpo Morto, il laboratorio, e Walking Zombi, le incursioni urbane, andiamo in scena all’Orologio. Con una lunga tenitura, tre settimane. Romaeuropa vuole recuperare, in parte e con alcuni spettacoli, ciò che non può più fare al Palladium, ovvero un festival che fosse anche una stagione.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

Dai laboratori B.Motion 2014

Durante il festival B.Motion Teatro sono stati offerti al pubblico due laboratori: For ever, a cura di Ilaria Dalle Donne – a B.Motion con lo spettacolo Alice disambientata – e Alessandro Pezzali di Teatro Magro,e Walking Zombi, parte di un progetto a cura di Daniele Timpano ed Elvira Frosini.
I curatori dei laboratori ci hanno permesso delle brevi e discrete incursioni nei loro luoghi di lavoro, dandoci modo di chiacchierare con loro e con i laboratorandi.
Dall’osservazione, dal dialogo e dalla visione delle presentazioni finali, nascono queste due estemporanee dei progetti svolti.

ILARIA DALLE DONNE/TEATRO MAGRO, For Ever

Il laboratorio
L’idea di partenza del progetto nasce dalla passione per il disegno e per il segno che nel tatuaggio «si modificano alla ricerca di una sintesi» poiché la pelle necessita di un tratto, di un colore, di una composizione. Il tema del tatuaggio, inoltre, si presenta come assolutamente universalizzabile: ognuno ha un’opinione sulla cosa, alcune persone non se lo farebbero mai, altre lo fanno per dare un segno forte di appartenenza a un gruppo, altre ancora devono maturarne a lungo il concepimento. Ci si tatua «per ri-appartenere, appartenere a qualcosa, ricordarsi, ricordare».
Solo recentemente, sostengono i curatori, il segno impresso sulla pelle si è contaminato divenendo moda, modificando la sua sostanza rituale, ma conservando un’idea fondante di permanenza.

Perché tatuarsi? Che cosa? Seguendo quale traiettoria di pensiero e di azione? A chi permettere di compiere il gesto del segno sul nostro corpo?
Queste, le domande di partenza poste ai partecipanti al laboratorio, con il fine di indagare le tracce espresse e quelle inespresse sulla pelle, quelle che si è scelto di far affiorare e quelle che si rifiuta di marcare ma esistono all’interno. L’indagine, di una certa complessità, è solo il punto d’origine di un progetto più ampio che porterà con ogni probabilità a una realizzazione spettacolare tutta centrata sul tema del tatoo, delll’appartenenza a un gruppo, del marchio, della permanenza, del segno indelebile che cresce, invecchia, si modifica, in parte con noi, in parte prendendo direzioni autonome e impreviste – un tatuaggio può spostarsi, cambiare colore, sbiadirre.

Gli incontri laboratoriali con i partecipanti – tra i quali, la giovane mamma di una bambina di tre mesi, i cui ritmi vitali hanno sostanzialmente influito sull’evoluzione del lavoro (qui, le impressioni di Lara sul laboratorio) – si sono articolati a partire da alcuni esercizi teatrali che Ilaria Dalle Donne ha definito «di composizione scenica» di movimenti, parole, azioni, oggetti, scrittura. Alessandro Magro ha guidato nella sintesi, nella semplificazione, mai banalizzante e spesso articolata in musica, delle azioni e reazioni, rifletttendo, smussando, calibrando. Tanto la prima curatrice, quanto il secondo si sono messi in ascolto degli allievi, delle loro storie, delle loro necessità, più vitali che teatrali, modificando, di volta in volta, la  pedagogia e il consiglio, la guida e la ripresa.

Gli esiti
Una presentazione essenziale. Ilaria Dalle Donne è al centro della scena, pronuncia le parole di un esorcismo e diventa feroce nel suo pallido candore. Una luce stroboscopica aggredisce il pubblico, musica metal. La prima si spegne, la seconda si tronca, etrambe sembrano sfumare in un rumore metallico, aggressivo, il rantolo lancinante di un insetto in agonia: la macchinetta ad aghi, lo strumento dell’esorcista, colui che mette in atto una pratica per scacciare il demone, far apparire il segno, portare l’invisibile a manifestarsi.
Uno ad uno entrano, quindi, i tatuati, o potenziali tali, laboratorandi che, nelle loro lingue – con i loro segni – descrivono la ferita, il momento dell’iniziazione, la traccia che resterà, si trasformerà, vivrà con il suo ospite for ever. Il primo, giovanissimo, parla in albanese e inglese, porta a galla la figura di sua madre, il marchio della scomparsa. La seconda, con in braccio la piccola Maya, entra disinvolta, di spalle, su una musica dolcissima, ondeggia, culla, si volta: mostra il segno più indelebile.
In una maniera delicata e forte allo stesso tempo, Ilaria Dalle Donne e Alessandro Pezzali portano in scena il risultato di un laboratorio intimo, che agisce sulle soggettività e si modula in base alle fisicità e alle personalità: iniezioni di inchiosto della dolcezza di una madre e del dolore di un figlio orfano.

DANIELE TIMPANO & ELVIRA FROSINI, Walking Zombi

Il laboratorio
Corpo morto
è un progetto che ha avuto origine nel dicembre 2012 durante il cantiere di Perdutamente al Teatro India di Roma ed è stato riproposto, nel corso dell’ultimo biennio, a La Spezia, Genova, Milano, Asti, Rieti e, ora, Bassano. L’esito di ognuno di questi laboratori prende il titolo di Walking Zombi: ciclo di avvistamenti e apparizioni zombi negli spazi urbani, presentato sempre in dittico con lo spettacolo – e la condizione esistenziale – Zombitudine.
Ogni tappa, ci raccontano i curatori, è una ri-lavorazione di una progettualità che ha una componente fissa, reiterata di città in città, e una componente variabile, di ricerca, che si sviluppa in relazione alla singola popolazione non più viva e non ancora morta dei partecipanti: al numero, alla formazione, alla predisposizione, all’iniziativa dei gruppi e delle strutture che ospitano il laboratorio. Il progetto nasce dall’esigenza di uscire dai teatri e dal teatro, «questo illusorio spazio dove succede qualcosa, questo luogo in cui siamo rimasti incagliati», sottolinea Timpano, per dare un segno di vitalità, creare piccole comunità e, allo stesso tempo, legare questa speciale esperienza allo spettacolo.
Il lavoro svolto con gli apprendisti-zombi bassanesi, proseguono Daniele Timpano ed Elvira Frosini, parte da esercizi fisici, di rilassamento e contatto con il corpo, il proprio e quello degli altri, per acquisire una tensione vigile, non-morta né rigida, ma attenta alla reazione del pubblico sorpreso dalle incursioni in strada. Un altro obiettivo esplicito è cercare di ripulire l’azione e la parola dagli elementi grotteschi che naturalmente possono emergere, alla ricerca di un’essenzialità che oscilli costantemente «tra l’inquietante e il ridicolo», senza mai sconfinare nell’esagerazione, nella pantomima, nel grottesco più spinto. Uno degli esercizi più interessanti, che si fa sintesi dell’idea stessa del laboratorio, prevede che, uno alla volta, i partecipanti si estraneino dal gruppo-zombi per interpretare lo spettatore vivo, forse violato, forse divertito, forse provocatore, forse indifferente.

20140828_165649_LLSIntervistata, la comunità-zombi bassanese ci ha raccontato della consapevolezza maturata nel corso del lavoro: del proprio corpo, dei propri movimenti, ma anche del mondo in cui, come zombi, gli uomini si muovono tutti i giorni. Su quello stesso mondo, dopo Walking Zombi, i laborantorandi si dicono in grado di esercitare uno sguardo più vigile, più lento, più attento.

 

 

Gli esiti
Un’incursione vitale, sul Ponte vecchio di Bassano, nelle strade e nelle piazze, articolata in due movimenti. Il primo – con Daniele Timpano in testa, insieme a uno zombi-ospite, incontrato durante altre tappe e ora promosso a capo-zombi, entrambi vestiti da preti – prevede l’avanzata faticosamente lenta della processione, un megafono amplifica l’Inno di Mameli, un altro un monologo che chiama i vivi e i morti a raccolta, invita i «compagni dai campi e dai crematori» a uscire dal loro torpore, a una «dittatura funeraria», a «marciare, marciare e non marcire», a un «lutto continuo», perché «el zombi unido jamás será vencido». Il secondo movimento sostituisce alla forza della parola quella dell’immagine silenziosa, invadente, disorientante. A fare da guida-zombi, in questo caso, troviamo Elvira Frosini. Incedono, si fermano, indicano, riprendono a camminare, tutti illuminati dalla luce asettica e omologante del cellulare. Si fermano di nuovo. Si dispongono ordinatamente e cantano‚ muti.

Il risultato del laboratorio è di una grande forza teatrale, nella provocazione dell’incursione, ma anche nella precisa presenza fisica dei laboratorandi. Il pubblico segue divertito l’avanzata dell’orda che lo rapppresenta ironicamente, gli insinua dubbi e, in definitiva, lo spinge a prendere una posizione attiva.

 

Daniele Timpano & Elvira Frosini “Zombitudine”

Esplorando B.Motion Teatro > Daniele Timpano & Elvira Frosini Zombitudine

Un tentativo di attraversare gli spettacoli di B.Motion Teatro 2014: una rete di questioni, temi, rimandi e pensieri intorno ai lavori in programma al festival. Con la collaborazione di artisti, ospiti, operatori e spettatori.

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plot
[cosa succede in scena in un tweet di 140 caratteri]

 

citazione
[una frase tratta dallo spettacolo]

«La morte è una cosa meravigliosa», Richard Matheson, 1954 (dalla presentazione dello spettacolo).

consigli
[a partire da alcune suggestioni tratte dallo spettacolo]

George A. Romero, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi), 1968. È il primo film della tetralogia di Romero dedicata agli zombie.

 

extra
[a partire da alcune suggestioni tratte dallo spettacolo]

zombidating

> Uno dei migliori siti di dating solo per zombie. Visita il sito…

> Chris Meyer, Walking Zombie, un’animazione su come essere zombie oggi dal sito di «Internazionale». Guarda il video…

Per ulteriori approfondimenti raccomandiamo i post sulla pagina Facebook di Zombitudine (e magari anche un like)