«In tanti ambiti della vita umana ci sono discorsi pubblici attraverso i quali un individuo si rivolge a un gruppo sociale e questo dispositivo lega per un attimo i suoi protagonisti». Fanny & Alexander si interroga sull’ordigno retorico-letterario e lo lascia approdare in teatro con il progetto Discorsi (2011/2014); questa forma viene indagata in tutte le sue declinazioni per riflettere sul senso della comunità in teatro, oggi. Ne abbiamo parlato con Chiara Lagani – fondatrice della compagnia ravennate assieme a Luigi De Angelis – che abbiamo incontrato a Vicenza, in occasione della presentazione di Discorso Giallo al Teatro Astra. Da questa sera, 28 febbraio, e fino a sabato 1 marzo in scena al Teatro Studio di Scandicci.
Discorso Giallo è il secondo spettacolo del progetto Discorsi. È già stato presentato Discorso Grigio con Marco Cavalcoli, mentre le future declinazioni riguarderanno l’ambito religioso, sindacale, militare e giuridico. Come nasce questo progetto?
Il progetto nasce per indagare il tema specifico del rapporto tra un individuo e una comunità, parola residuale e quasi difficile da pronunciare oggi e della quale non si riesce a ricostruire più il senso possibile. Forse, nell’ipotesi di questo percorso di ricerca, il teatro è uno dei luoghi in cui è ancora pronunciabile perché in teatro c’è sempre un gruppo di persone che si riunisce in quanto comunità – anche solo provvisoria – alla ricerca di un senso comune. Abbiamo quindi deciso di portare in teatro questa indagine e lo abbiamo fatto attraverso una forma retorica e pubblica: il discorso. In tanti ambiti della vita umana ci sono discorsi pubblici – nella politica, nella giustizia, nell’educazione – attraverso i quali un individuo si rivolge a un gruppo sociale e questo ordigno retorico-letterario lega per un attimo i suoi protagonisti. Ci siamo domandati: come si crea questo legame? Che tipo di questione comunitaria si crea? E questa questione può essere rilanciata come nuova domanda sul senso della comunità, del senso comune, in teatro, oggi?
I Discorsi, distribuiti in più anni e in diverse tappe, sono associati a sei colori diversi…
Sei più uno, si è infatti aggiunta la declinazione economica di Discorso Verde. Ogni Discorso è associato a un colore, e questa associazione, da un lato simbolica, dall’altro emotiva e connotativa, ha a che fare con una sfera tematica della quale cerchiamo di carpire il bagliore. In Discorso Giallo il colore sembra associato alla coercizione – il giallo dell’arbitro, le righe gialle della strada che non possono essere superate – ma è anche il colore della luce e del sole, così come si lega a cose acide, al bagliore che fa stringere gli occhi, alla malattia. È quindi un colore che è sia portatore di vita che del suo opposto.
E in che relazione sono le tematiche affrontate rispetto agli artisti coinvolti nel progetto?
Gli attori sono stati scelti per intuizione: a volte ci sono dei motivi specifici che ci legano a determinate persone che lavoreranno con noi a questi temi, motivi legati a predisposizioni e qualità; altre volte si sono presentate associazioni in maniera molto più empatica.
Soffermandoci su Discorso Giallo e sulla televisione come strumento pedagogico, se il maestro Alberto Manzi – che è il primo personaggio televisivo che incontriamo – ci racconta una possibilità di alfabetizzazione che passa attraverso il piccolo schermo, Maria De Filippi ci racconta tutta un’altra storia. Viene quindi da chiedersi, con le parole di David Foster Wallace che ripresentate anche nel progetto: “Cos’è esattamente che odiamo così tanto nella cultura televisiva? Perché ci siamo così immersi se la odiamo tanto?”
La tv è un medium che ha un potere assoluto. Non c’è nessun mezzo che di per sé sia malvagio, in questo lavoro non vuole esserci giudizio morale e non si tratta nemmeno di una parabola degenerativa; siamo davanti a delle questioni che sono avvenute nella nostra storia, dagli anni ’60 ad oggi.
C’è una frase di Manzi che mi torna sempre in mente, è tratta da un’intervista curata da Roberto Farnè, il quale constatava quanto fosse stata straordinaria l’azione compiuta dal maestro, rendendo possibile a milioni di italiani di imparare a leggere e scrivere. Manzi rispondeva: «Il merito non è stato soltanto mio, sono stato il pupazzo televisivo, quello che stuzzicava la gente».
C’è una grande umiltà nella dichiarazione del maestro, però vi è anche la consapevolezza che questo medium, con tutto il bene e il male che può portare ogni cosa, ha un potere che va al di là del singolo individuo, anche se quel singolo sa magnetizzare l’attenzione di così tante persone con la sua qualità etica e umana.
Fanny & Alexander sta da tempo indagando e sperimentando il dispositivo drammaturgico dell’eterodirezione. Di cosa si tratta?
È un dispositivo di ricerca nato a partire dallo spettacolo West che indagava il tema della persuasione occulta. L’attrice in scena (Francesca Mazza, ndr) pronunciava parole e compiva gesti senza sapere prima quali sarebbero stati, aveva due auricolari attraverso i quali riceveva ordini gestuali e testuali da due attori fuori scena, da me e Marco Cavalcoli.
Da un punto di vista prettamente teatrale e interpretativo questa tecnica può apparire come una gabbia feroce, in realtà vi è una libertà immensa: l’attore è innanzitutto liberato improvvisamente e violentemente da tutta la questione che ha a che vedere con la memoria di quello che si deve dire e fare. Questo meccanismo alleggerisce il performer che deve (pre)occuparsi esclusivamente della qualità sentimentale della sua azione. Se qualcuno mi dice “alza un braccio”, posso fare questo gesto in un milione di modi, la mia scelta in quel momento sta nel decidere che colore dare al movimento in relazione a una partitura che si va componendo. C’è una percentuale di improvvisazione molto forte, sia da parte di chi dà l’ordine, sia di chi lo riceve, è un meccanismo di condizionamenti reciproci.
Nei Discorsi l’eterodirezione indaga un’altra questione, quella che noi chiamiamo la tossicità del contemporaneo. C’è un elemento tossico nella cultura televisiva, che non ha a che fare unicamente con la tv ed è dentro di noi ormai, anche quando la nostra coscienza critica lo rifiuta. Non esiste nessuno che in questa società e in questo contesto storico sia immune dalla televisione. Il progetto indaga proprio questa forma di sottile inavvertita contaminazione, perché solo riconoscendola si potrà forse ricominciare a costruire qualcosa.
Qualunque discorso che proviene da questo meccanismo televisivo ci pone di fronte a uno strano specchio anamorfico che in qualche modo ci raffigura, e più ci disgusta più ci raffigura.
Colpisce l’attenzione al dettaglio che caratterizza i personaggi di Discorso Giallo: dai baffetti ai tacchi e alle paillettes… E poi c’è il personaggio storico che ha un’immagine molto forte e più grande rispetto al resto. C’è una volontà di sottolineare la diversità tra il personaggio televisivo e Maria Montessori?
C’è innanzitutto un personaggio che lega tutti questi: è una strana bambina-adulta, inguardabile perché è una bambina in tutto e per tutto, con i suoi fiocchetti e il suo grembiulino, ma ha un volto da adulta. Questa società-bambina che se da un lato è incapace di crescere, dall’altro impedisce all’infanzia di essere infanzia e quindi la rende mostruosa, come hanno fatto negli anni ’80 i programmi per bambini che dovevano trovarsi di fronte a un pubblico adulto incapace di accettare questo essere bambino del bambino.
Dall’altro lato vi è Maria Montessori che nello spettacolo è un emblema, una maschera. È molto difficile trovare oggi qualcuno che sappia veramente, nonostante la diffusione della metodologia montessoriana, chi sia la Montessori e che cosa abbia fatto davvero con la sua rivoluzione pedagogica. È molto difficile trovare cioè riscontro concreto di quella notorietà anche simbolica di cui questa figura della nostra storia è certo portatrice: non a caso è la sola donna a campeggiare sulle mille lire italiane. Ma al di là dell’identificazione con l’immagine di quella signora che campeggia sulla nostra moneta fuori corso – e anche questo a suo modo è un fatto simbolico, poiché si tratta di una moneta che oggi non serve più a nulla – poco sembra restare. E quel che resta è per così dire impigliato nella cultura o nella memoria dei più, quasi il residuo evanescente di un ritratto d’epoca, quello famoso della signora dell’educazione che da personaggio pare esser diventata prima simbolo e poi soltanto immagine. Esce dalla tv allora, e dalla tv per come è ritratta in Discorso Giallo, questo strano fantasma disossato che ci ricorda – forse – un pezzo del nostro passato, di quello che è stato.
La progettualità di Fanny & Alexander si sviluppa attraverso una molteplicità di forme che non riguardano unicamente la produzione di uno spettacolo. A Discorso Giallo si è affiancato Giallo_Radiodramma dal vivo e anche dei progetti laboratoriali realizzati al Teatro delle Briciole di Parma e all’Ardis Hall di Ravenna con bambini tra i 5 e i 10 anni. Come si sono sviluppati i laboratori e come è stato utilizzato il materiale nel progetto sonoro che avete realizzato?
Ad un certo punto, dopo aver letto molti i classici della pedagogia, l’incontro con i bambini, soggetti privilegiati dell’educazione, si è reso necessario. La forma di questo incontro è stata il laboratorio: abbiamo deciso di incontrare alcuni bambini tentando di trovare la maniera per rivolgere loro le questioni legate all’educazione che noi per primi ci stavamo ponendo.
Abbiamo fatto questo attraverso piccoli moduli narrativi, anche per presentare loro la componente del gioco propria del teatro. Erano moduli molto semplici, un esempio: «Qualche giorno fa in un bosco ho incontrato una creatura, malata e ferita. L’ho curata e portata qui, in questo teatro ma c’è un problema perché lei non vuole stare con me e non riusciamo a comunicare. Quando entro nella stanza lei si rifugia in un angolo. Ho pensato allora di chiamare dei bambini perché loro hanno delle idee più belle, vanno a scuola e forse sanno insegnare a leggere e scrivere. Potete aiutarmi?». Superata la paura e lo stupore, i bambini accettavano di incontrare la creatura e entravano nella stanza buia in cui c’era un gorilla enorme, che ero io naturalmente, travestita. A poco a poco il panico si trasformava in amicizia e amore verso questa creatura; le insegnavano a parlare e contare; condividevano la loro idea di comunicazione e di conoscenza.
All’interno dei laboratori nascevano inoltre dei momenti di incontro. La domanda più ricorrente era come io facessi a essere Chiara e il gorilla, nello stesso tempo. Evitavo tutte le risposte legate alla finzione e rispondevo loro che era una questione molto difficile e misteriosa, anche per me, che in teatro chiamiamo interpretazione. Accettavano sempre con rispetto questa definizione, e una volta una bambina mi ha detto che avrebbe pensato ancora a questa parola.
Tutto ciò che accadeva in questi incontri è stato registrato, dopo mesi ci siamo trovati con ore e ore di materiale dal quale abbiamo tratto una partitura testuale utilizzata in seguito nel radiodramma “Giallo”.
Intervista a cura di Elena Conti e Rossella Porcheddu