Recensione a Erodiade – di Giovanni Testori, regia di Pierpaolo Sepe
Usciti da teatro dopo la visione di Erodiade, la prima cosa che viene in mente, a chi non lo possiede già, è di precipitarsi a comprare un libro che racchiuda le opere di Giovanni Testori, autore di questo testo denso e magnetico, scritto prima degli anni ’70 e portato in scena oggi dal regista Pierpaolo Sepe. Lombardo e protagonista del ‘900, questo drammaturgo delle viscere è soprattutto noto ai più per le sue riscritture di tragedie classiche in una lingua “incarnata” che si allontana dal nostro italiano artificiale per approdare più verso un “italiese”, verso una parola riconoscibile e allo stesso tempo caduta in disuso, inventata e scomposta, ma che sembra provenire in qualche modo da una realtà ancestrale; una parola che sprofonda, come delle unghie graffianti nella carne per strapparne e tirarne fuori le viscere. Non è però questo il caso; il regista Sepe sceglie infatti la versione che Testori scrisse tra il ’67 e ’68, un’Erodiade in lingua italiana, ma che possiede tutto il trascinante fascino e la potenza che è propria dei testi dell’autorebrianzolo.
A dare carnalità alle parole testoriane una Maria Paiato furiosa, una sorta di dea pagana che urla il suo dolore, la sua rabbia; in preda al suo ultimo sproloquio prima di togliersi la vita, Erodiade fatica a tenersi in equilibrio su quella scena inclinata di vetro riflettente a forma di croce, proprio il simbolo di quella religione che le ha impedito di conquistare il suo amato Jokanaan, il santo servo di Cristo. Mai nessuno aveva rifiutato il fascino di quella regina che, lasciato il suo concubino Erode, si serve della figlia Salomé per tagliare la testa a colui che ha rifiutato la fusione dei loro corpi, l’armonia creata dall’accostamento dei due battiti cardiaci accelerati, il piacere carnale che tanto si allontana da quello spirituale predicato dal Dio cristiano.
Se nell’innamoramento si è rapiti dalla dolcezza, in questo monologo c’è solo una passione abortita che si trasforma in carezze taglienti, in spasmi lancinanti, in una sofferenza ululante che si riflette nelcorpo della Paiato, in preda a violente contrazioni. Le scene di Francesco Ghisu, le luci di Pasquale Mari e le musiche, che sembrano accompagnare un rito, di Francesco Forni, ben si fondono con l’attrice straziata da una gestualità esasperata.
Erodiade continua a interrogarsi, riferendosi a quella testa mozza di Jokanaan scenicamente assente ma che sembra coincidere con la platea: in fondo le domande che la donna – che rinuncia al suo lato femminile per liberare la potenza e la ferocia maschile del suo essere – rivolge nel suo sproloquio sono interrogativi di ordine Assoluto. Perché il Dio a cui era riferito tutto l’amore del Battista e contro cui lei, di carne e sangue, non poteva competere non si è esplicitato mai, neanche di fronte all’omicidio, a quel martirio? Alla fede assoluta di Jokanaan, Erodiade fa corrispondere l’idiozia del nulla. Ed è di una poesia sublime la frase finale recitata dalla Paiato a vocepiù bassa, più contenuta; nell’ultimo gesto della protagonista il dolore si sta ormai trasformando in unvuoto esistenziale: «Adesso finalmente sono la regina che volevo. Il tuo Dio l’ho bestemmiato; ma se queste sono veramente le ultime parole che posso pronunciare, devono essere la musica delle notti che non abbiamo mai avuto. Ho voluto morire perché tu non c’eri più e perché, per me, senza di te, non c’era più nessun senso, nessuna luce, nessuna speranza. Io non sono più Erodiade e nemmeno la sua parola. Sono adesso, veramente e per sempre l’ombra; anzi per te e con te sono l’umana bestemmia, l’inesistenza, la cenere, il niente».
Visto al Teatro Goldoni, Venezia
Carlotta Tringali