Abbiamo imparato a conoscere la sua performatività travolgente, sospesa fra risata e concetto. Abbiamo incontrato il suo lavoro raffinato sulle potenzialità della presenza scenica e capito che si possono guardare oggetti e corpi in scena con occhi diversi, sempre in agguato. Abbiamo appreso le linee spezzate in cui sono avvolti i suoi movimenti, che sanno avvicinare alla danza anche lo spettatore più “diffidente”. Un immaginario pop sbozzato con eleganza, di un’efficacia rara, energie purissime che attraversano scena e platea, affastellamenti di senso e poetici coup de théâtre – tutti caratteri di un percorso autoriale assolutamente originale, che ha imposto Ambra Senatore all’attenzione delle scene italiane e internazionali e che si ritrova anche in Passo, la sua ultima creazione, che propone però elementi originali che sembrano aprire a nuove possibilità il suo percorso di ricerca.
Con Passo, l’autrice muove il proprio percorso di creazione secondo itinerari decisamente più legati alle potenzialità del movimento, pur continuando a sviluppare il precedente lavoro di taglio più “teatrale” sull’immaginario pop sull’ironia e la sorpresa, e a indagare una linea autoriale che imprime nel pubblico emozioni e considerazioni poco aderenti al vissuto quotidiano, che possono scrostare la scontatezza posata sui meccanismi percettivi abituali. La realtà – come ricettacolo da cui ritagliare materiali di grande efficacia e insieme di stratificazioni collettive, da incrinare e mettere in crisi – è ancora l’elemento-chiave, l’innesco intorno a cui si muove la creazione di Ambra Senatore e Passo si inserisce a pieno di titolo nel percorso di ricerca iper-realista e allo stesso tempo surreale dell’autrice, pur andando a spostare altrove i limiti della ricerca.
Anche i territori che si aprono all’interno del rapporto fra realtà e finzione continuano qui ad essere esplorati: le linee compositive si collocano con delicatezza e pregnanza negli interstizi fra aspettativa e incedere dell’azione, sbozzando piccole sorprese per gli spettatori in un gioco mai calcato fra autenticità e artificio, di una leggerezza rara, che forse proprio attraverso questa originale vaporosità riesce a incidersi intensamente nel corpo, nella mente, nell’immaginario dello spettatore. Al centro dell’attenzione, slittamenti d’identità e di movimento, in un’acuta riflessione – per altro attualissima – sui preconcetti che si possono creare intorno alla presenza, alla latenza e all’onnipresenza del pregiudizio, che si annida nella conoscenza delle forme così come nell’esperienza emotiva, dentro e fuori dai canoni coreutici, ma anche culturali e sociali che investono di consueto lo sguardo dello spettatore (e forse anche dell’autore e del performer). Passo si distingue dai lavori precedenti anche per la presenza, in scena, di ben cinque interpreti, protagonisti di una coreografia di grande efficacia, scandita da un tessuto espressivo e di movimento fondato sui ritmi e le contraddizioni di différence et répétition. Un assolo intermittente, come di consueto nelle creazioni della Senatore; poi una danzatrice compie un movimento che viene ripetuto dalla compagna, inaugurando un duo di grande energia, subito tradito da una lieve ma decisa trasformazione dell’azione di una delle due; arriva un terzo interprete che comincia a danzare seguendo l’invito originario: la coreografia sembra riprendere per poi nuovamente slabbrarsi nelle singole specificità (fisiche, cinetiche, espressive) di ogni singolo performer e così via in una proliferazione che sembra inafferrabile, fino a generare un ritmo energetico sempre sul punto di spezzarsi e di trasformarsi in altro, in un andamento imprevedibile e rizomatico di grande impatto visivo ed emotivo. Lo stile drammaturgico ed interpretativo con cui si è fatta conoscere Ambra Senatore, con la sua indagine sulla posa e cadenze incisivamente fondate su accelerazioni improvvise e scatti di una fluidità inaspettata, contagia con una certa efficacia l’agire dei cinque interpreti, che sono copie, creature dell’autrice e che, allo stesso tempo, si appropriano degli sviluppi dell’azione secondo andamenti del tutto singolari.
Recensione a Don Giovanni di W.A. Mozart – I Sacchi di Sabbia
Anche quest’anno il festival di Radicondoli si fa. Come per molte altre realtà del territorio italiano l’inverno è stato duro, i tagli imposti ai comuni hanno reso difficile la sopravvivenza di piccole e grandi manifestazioni che nascevano proprio in seno alle municipalità e alle regioni e che si sono viste dimezzare il budget da un’edizione all’altra.Si fa, si!, questo il titolo per l’anno 2011 – esemplificativo quanto Aspetta e spera... di Kilowatt – perché il programma c’è, nonostante tutto. La direzione artistica – presa in mano dal collettivo dell’associazione Radicondoli Arte – non è stata assegnata quest’anno; certamente non sono mancate polemiche, ma, considerando la situazione di precarietà in cui versa l’intero settore, non c’è da stupirsi che le energie si raccolgano il più possibile. Centrale anche quest’anno la figura di Anna Giannelli, che da dietro la sua scrivania regge le fila del festival, sempre impeccabile e sempre presente; ancora una volta riesce a mettere in piedi un programma interessante, certo non percorso da grandi nomi ma piuttosto da qualche scintilla giovane e intraprendente. Questo piccolo borgo toscano torna a essere punto d’incontro e di scambio, ospitando anche il premio intitolato a colui che per ventitré anni portò a Radicondoli il nuovo del teatro: Nico Garrone. Premiati in questa seconda edizione: i tre giornalisti Renzo Francabandera, Emilio Nigro, Pietro Corvi, e Cesar Brie, segnalato da molte compagnie come Maestro.
Nella serata dedicata al premio, va in scena Don Giovanni di W. A. Mozart, rivisitato dalla compagnia I Sacchi di Sabbia. Sei impeccabili esecutori per un divertimento più unico che raro. Si tratta infatti di una messa in scena assai particolare: l’austera opera dell’autore austriaco perde tutta la sua pesantezza e si alleggerisce incredibilmente grazie a uno slittamento sul piano sonoro e semantico. Se difatti ci si aspetterebbe di ascoltare l’opera lirica dalle soavi voci di cantanti – accompagnati da una nutrita orchestra sinfonica – e di seguire le vicende dal libretto scritto per mano di Da Ponte, si rimane spiazzati quando sul palco appare Giovanni Guerrieri regista del lavoro che, guidato da una meccanica voce off, mima stile hostess aeroportuale le gesta dell’indomito libertino. Condensando in meno di cinque minuti l’intera vicenda e mettendo a disposizione di qualunque pubblico egli si trovi davanti un vero e proprio libretto-d’istruzioni-per-l’uso al quale ricorrere durante l’esecuzione canora. Dopo la breve introduzione di Guerrieri entrano in scena sei attori vestiti in divisa scolaresca si dispongono due a due sulla gradinata sopra la quale troneggia lo schermo su cui compariranno i testi dell’opera. Si tratta di canto, in quanto gli interpreti non posseggono dei veri strumenti musicali ma eseguono l’opera basandosi solo sulle loro capacità mimiche e vocali. Ma non si può definire canto in senso stretto, perché non vi è l’uso della parola: l’intera orchestra con tutti i suoi strumenti (corde, percussioni e fiati) viene riprodotta dai sei attori – perché di attori stiamo parlando – con suoni, rumori, boccacce, pernacchie, ghigni e fischi. Un fiorire di suoni inconsueti, ironici e scherzosi che ben rispecchiano, colorano e alleggeriscono la complessa partitura mozartiana. In poche parole un approccio ironico, divertente e originale a un colosso dell’opera lirica. Questa rilettura teatrale porta in sé una teoria della leggerezza che svela un lavoro davvero duro e approfondito: i sei attori mettono in piedi «un capriccio per “boccacce e rumorini”» interpretando le arie più celebri di una versione dell’opera di Karajan del 1986. Imitare i suoni degli strumenti con il solo apparato vocale non è certo cosa semplice, ma la compagnia mostra una tale precisione, pulizia e maestria che il lavoro risulta efficacissimo e spiazzante. Un successo per il pubblico, formato da adulti e bambini, che risponde e interagisce con piacere e allegria.
02/08/2010 Radicondoli, Festival Estate a Radicondoli. I commenti a caldo dei due spettacoli di ieri sera. FuoriGioco di Rientro di AndreaMitri e L’italia s’è desta del Teatro delle Donne
Anna Giannelli, ufficio stampa di Estate a Radicondoli e anima del Festival fin dall’inizio, racconta immagini e aneddoti, spirito e obiettivi di una iniziativa che, da rassegna musicale si è trasformata in uno dei festival più attenti alle trasformazioni del teatro.
Com’è stata la prima edizione del Festival Estate a Radicondoli e come esso si è evoluto negli anni?
La prima è stata un’edizione musicale, non era un vero e proprio festival, ma una serie di concerti polifonici che venivano presentati nel Convento di San Bernardino, un edificio bellissimo del ‘400, ora trasformato in un albergo. Sono arrivata qui per caso: avevo dovuto rinunciare ad un lavoro in ufficio stampa a La Versiliana Festival ed ero senza lavoro. Avevo incontrato Giancarlo Calamai, che era stato direttore artistico del Teatro Metastasio di Prato e che organizzava i concerti in questo luogo così bello. Non avevo nulla da fare e allora decisi di dargli una mano. Venni qui in maggio o giugno, il paese era molto bello e mi colpì subito già da lontano. Quando telefonavo alle redazioni dei giornali per promuovere il nuovo festival a Radicondoli, mi rispondevano «Radi…che??»: il paese era sconosciuto e tutti lo scambiavano con Radicofani, rifugio del brigante trecentesco Ghino di Tacco, famoso all’epoca in quanto pseudonimo usato da Bettino Craxi per scrivere sui giornali. Il festival si è svolto per diversi anni negli spazi del Convento, sotto la direzione di Calamai, con concerti, spettacoli, letture. Negli anni abbiamo ospitato diversi artisti: c’era Luciano Berio, che partecipava con l’Accademia Bizantina, o Franca Valeri, con i suoi giovani studenti di lirica; sono venuti i fratelli Canavacciuolo, tutti e due; sono passati il Teatro delle Briciole e il Teatro Nucleo, il cui QUIJOTE! ebbe un certo successo.
Un piccolo successo legato al festival fu un concorso per giovani poeti: li abbiamo accolti qui per due o tre anni, ospitandoli per una settimana in cui si svolgevano incontri con poeti affermati e l’ultimo giorno veniva scelto il premiato.
Abbiamo fatto anche dei libri: uno intitolato Ahi ahi i figliol di troia nonmuoionmai sui comici toscani e poi uno su Ugo Chiti e l’Arca Azzurra, con tutti gli spettacoli e gli attori della compagnia. E poi si organizzavano mostre… Addirittura un anno c’è stata una divertentissima rassegna di progetti per dolci, uno dei quali è stato poi anche realizzato e lo abbiamo mangiato!
Dopo qualche anno iniziarono a mancare i finanziamenti e Giancarlo Calamai non poteva far fronte a tutte le spese. Dopo nove anni circa, fu istituita l’Associazione Radicondoli Arte (Presidente Paolo Radi) con la quale portammo avanti la decima edizione, senza però alcun direttore artistico. Fu grazie al sostegno costante della giunta comunale e dei sindaci Ivo Dei, Ettore Barbucci, Luciano Cillerai che fu possibile portare avanti il Festival. Nel frattempo Nico Garrone, nel 1995, venne a vedere alcuni spettacoli e scoprì Radicondoli – anche se gli spettacoli che vide non gli piacquero molto. Così quando Giancarlo Calamai lasciò la direzione, parlai con Nico e gli chiesi consiglio. Lui mi incoraggiò, fu così che preparammo il programma insieme, con la presenza di Dacia Maraini. L’anno successivo l’Associazione e il Sindaco di allora, chiesero a Nico se voleva far parte di questa avventura e lui accettò molto volentieri: diceva che in Toscana c’era tutto, bastava guardarsi intorno, scegliere le compagnie, raccogliere il meglio della musica, della prosa, della danza. E così fece. Da allora, ogni suo festival ha avuto un titolo: Attori e non attori (2003), con teatranti professionisti e compagnie amatoriali – la toscana è ricca di gruppi di questo tipo, anche molto bravi;Di e Da, che sembrava un po’ una filastrocca, in cui si presentavano adattamenti e allestimenti, appunto, “da e di” un autore; poi c’è stato Iconoclastici Comici Concettuali Poeti, nel 2008, o Bussotti Berio Brecht, nome di una sezione del 2004. Sempre centrando e portando a Radicondoli quello che lo aveva incuriosito durante la stagione invernale. Sempre allacciando dei fili, era tutto sempre molto collegato. Da uno spettacolo si passava ad un altro – poteva non sembrare collegato – però poi si ritrovava sempre un filo conduttore. Insieme a Nico arrivavano anche altre persone e personaggi (c’era un ambiente molto particolare) che giravano intorno a questo festival. Nico cercava anche di focalizzare l’attenzione su alcune compagnie toscane, creando delle specie di monografie. Per esempio l’Arca Azzurra di Ugo Chiti, che ha rimesso in scena per noi i suoi primi spettacoli, come Volta la carta, creazione itinerante particolarmente suggestiva; Micha van Hoecke, coreografo belga, e Barbara Nativi col Teatro della Limonaia.
Poi Nico si è ammalato e in breve tempo è morto. Quindi la 23esima edizione l’abbiamo fatta senza di lui. L’ho curata io perché avevamo già parlato di cosa fare: volevamo concentrarci sulle produzioni di Teatro Ragazzi – lui diceva per “adulti accompagnati” – perché era affascinato dal teatro dedicato ai giovani.
Questa diciamo è la storia della direzione artistica, poi ci sarebbero le altre storie del festival. Ad esempio quella della direzione tecnica: all’inizio, quando si trattava di concerti o di piccoli monologhi, c’era l’elettricista del paese che faceva tutto da solo, ma quando le esigenze sono cresciute con il festival, c’è stata la necessità di un’organizzazione più articolata ed è così che Fabio De Pasquale, che era all’Arca Azzurra, se ne occupa ormai da una decina d’anni.
Che rapporto si è instaurato con il paese di Radicondoli, con i suoi abitanti? E come si è trasformato negli anni?
Inizialmente la popolazione era curiosa perché poteva tornare in un luogo – il Convento – legato all’infanzia: un tempo la presenza dei frati e della chiesa era molto sentita mentre poi, non essendoci più nessuno, era rimasto abbandonato. La musica, così, ha fatto rivivere quegli spazi, li ha risvegliati, e le persone venivano volentieri. Quando il Festival è cresciuto, gli spettacoli sono diventati più complessi e ci siamo trasferiti in paese, forse è stata percepita una specie di piccola invasione di campo: arrivava, venendo da fuori, qualcosa che nessuno aveva richiesto. Piano piano abbiamo pensato che era importante stare nel cuore del paese, perché ci conoscessero e apprezzassero, per stare più vicini, perché credo che il teatro debba essere accolto. Per me il teatro è ossigeno, aria che si respira, un’esigenza, una necessità, un bisogno, è una cosa che ti spiega e ti rivela cose private e sociali, cose intime e diffuse. A me personalmente piace davvero per il calore umano, la presenza viva, la vicinanza delle persone, del loro farsi sentire, esserci.
Qual è lo spettacolo che ricorda con più piacere?
È A-Ronne, con i testi di Edoardo Sanguineti, le musiche di Luciano Berio e i pupazzi diAmy Luckenbach.È stato uno spettacolo straordinario, che ricordo con particolare piacere.
Un’immagine-chiave, rappresentativa della storia del Festival?
Per me è la gioia e la curiosità delle persone che vengono da fuori – venire a Radicondoli non è semplicissimo – si presentano al botteghino a comprare i biglietti e ci rimangono male se sono finiti. Questo mi incoraggia ad andare avanti, perché vuol dire che c’è un’attrazione, che quello che facciamo non solo serve nel paese, ma anche al di fuori.
Un aneddoto particolare legato alla storia del Festival... Prova orale per membri esterni aveva destato una certa curiosità. È andato in scena al Ristorante La Pergola: a un certo punto della serata sono state interrotte le cene e Lunetta Savino ha recitato sulla terrazza del ristorante. C’erano moltissime persone del paese che erano venuti, incuriositi, non tanto per Lunetta, ma per via di questo titolo particolare. Si aspettavano chissà cosa, e invece era uno spettacolo, seppur tutto giocato sul doppio senso del titolo, molto equilibrato.
Altri aneddoti sono legati a tutte le persone che, negli anni, sono arrivate fino a qui: Ruggero Orlando venne, una volta, perché il figlio aveva un concerto; mentre Maurizio Grande, che scriveva su «Rinascita» ed era professore in Calabria e poi a Siena, frequentava il Festival nei suoi primi anni. Era venuto anche Cappelletti perI Dialoghi delle Carmelitane, una lettura alla Chiesa della Madonna con Marisa Fabbri, Franca Nuti e Paola Mannoni.
Infine ricordoIo Paola la commediante, testo che Mario Luzi aveva scritto per Paola Borboni e che fu portato in scena da Marisa Fabbri, diretta da Barbara Nativi.
Perché continuare e tornare ogni anno a lavorare qui?
Me lo chiedo anch’io, perché in realtà questo Festival è faticoso, bisogna mettere insieme troppe cose e non ci sono molti aiuti, è una gran responsabilità e una bella fatica.
L’annoscorso ero ben decisa a chiudere, perché poteva rinnovarsi tutta la struttura – come la direzione artistica anche l’ufficio stampa. Ero decisa. Mi ero comunque riservata un “angolo”: l’idea di creare un Premio intitolato a Nico Garrone mi piaceva, lo volevo fare. Poi serviva un nuovo ufficio stampa e ci vuole tempo prima che una persona nuova possa entrare appieno nei meccanismi del Festival, così, come una madre un po’ preoccupata di lasciare il proprio figlio nelle mani di qualcun altro, ho ripreso in mano la situazione.
È stato il Premio a farmi rimanere. Forse è una scusa, non so. Mi sono resa conto che l’idea del Premio è appagante e spero che diventi un punto di riferimento, un aiuto, un sostegno per i giovani e per la critica. Per capire, per parlarci di più fra gente di teatro, per cercare di sostenersi a vicenda invece che tentare di emergere singolarmente.
E oggi, dove sta andando e dove potrebbe andare il Festival?
Come tutti, ora qui occorre trovare finanziamenti e i modi attraverso cui ottenerli. Finora il Festival ha chiesto aiuto alle compagnie, abbassando i cachet ma garantendo l’ospitalità. Gli artisti vengono comunque volentieri, ma non è giusto. Questo sistema non funziona: le compagnie non guadagnano, arrivano semmai a pareggiare, mentre noi, che dovremmo risparmiare, comunque investiamo molti soldi. Quindi questo non è il sistema giusto, occorre trovare un altro modo. Credo che ci debba essere un sostegno prima di tutto proprio nel paese: penso che anche le persone si debbano chiedere se questo Festival debba continuare, occorre prendere questa decisione e poi provare a costruirlo insieme, anche trovando il modo per ottenere i fondi, guardandosi intorno, vedendo se le aziende del territorio rispondono, se sono interessate alla cultura. Si può fare, ci si prova.
ratelli Canavacciuolo, li abbiamo avuti tutti e due, hanno fatto alcune cose interessanti come una commedia o dramma di Sinisterra, Carmela e Paolino, che ha debuttato qui. Si abbinavano anche mostre d’arte, c’è stata una bellissima e divertentissima giornata di progetti per dolci, uno è stato realizzato e assagiato.
Lontano da qui, in un campetto di periferia, Andrea Mitri apre squarci su altri modi di vivere (il gioco e la vita), così prossimi ad ognuno eppure dal sapore antico, inarrivabile ormai. Fuorigioco di rientro, di cui Mitri è autore e interprete, è un viaggio in parte autobiografico nel mondo del calcio amatoriale – quello “vero”, così distante dagli scandali e dalla spettacolarità della Serie A – che attraversa, tramite le diverse declinazioni linguistiche, tutta l’Italia. Fra personaggi veri, se stesso, e altri ancora inventati, Mitri racconta di ragazzini alle prese coi propri sogni, che «vanno avanti a oltranza, fino a rimanere uno contro uno» e si dedicano anima e corpo al gioco scoprendo poi l’umano; di allenatori che insegnano il rispetto e di giovani che crescono; di giocatori, procuratori, ma anche di vari tipi di tifosi e gli amici di sempre; di partite, di ferite, di solidarietà e di quotidianità, in un percorso che vede il calcio penetrare tutti i momenti dell’esistenza e, viceversa, che mostra la vita impregnare le varie dimensioni del gioco, fuori e dentro il campo, anche oltre la tribuna, per riversarsi nel mondo di ognuno, anche di chi non ha esperienza e dimestichezza col mondo del pallone. La fusione fra sport e vita è forse l’innesco di questo spettacolo (lo stesso Mitri ha un passato calcistico di una certa rilevanza) e si propone come sua capitale strategia comunicativa, a tratti efficace e in certi momenti più intricata, forse difficile da intercettare per chi non gode di un passato calcistico.
Fuorigioco di rientro è uno spettacolo di grande semplicità, che cerca un impatto emotivo e che va segnalato per la scelta del contesto, in cui si possono ritrovare tanti momenti della propria giovinezza.
Il protagonista è Mirko Botteghi. E ovviamente il suo pallone, «pieno d’aria, ma per i ragazzini di tutto il mondo è pieno di sogni». Prima bambino nel campetto della chiesa, poi giovane promessa delle categorie di periferia e in seguito approdato al professionismo, il giocatore-interprete, infortunato e costretto ad abbandonare il calcio, ricorda i diversi momenti della (sua) vita, fra crescite e fallimenti, desideri e delusioni. La storia, costruita per scene successive che mostrano sfaccettature differenti dello sport (dall’allenamento al gol), di un sogno sempre più vicino e poi improvvisamente crollato per via dell’infortunio, arriva alla platea solo per momenti: essendo i vari frammenti decisamente contestualizzati al loro interno, la linea drammaturgica principale è a volte – forse volutamente – dispersa nell’affondamento nei dettagli di ogni singola vicenda.
La sfilata di ritratti di marcata impronta regionale – in cui si trovano veneti, pugliesi, napoletani, romagnoli, toscani e così via –, pur necessaria ad indicare l’universalità e l’intensità della vocazione localistica nostrana, è a momenti troppo calcata, diventando infine prevedibile: caratterizzazioni stilizzate così diverse, poste l’una accanto all’altra, rischiano di perdere la loro intensità specifica in una omogeneità diffusa.
Intervista a Fabio De Pasquale
Fabio de Pasquale, direttore tecnico del festival Estate a Radicondoli, ha dato una panoramica di come è stato il festival da quando lui ha iniziato, circa undici anni fa. Molti i cambiamenti negli anni, dagli spazi allo staff, dagli spettacoli alla popolazione del paese.
Com’era il festival alla sua prima edizione?
Difficilissimo, perché ero l’unico tecnico di tutto il festival e mi ritrovavo di fronte ad una situazione vergine. Negli anni precedenti era tutto demandato ai tecnici di ogni singola compagnia e a qualcuno volenteroso del paese che – cominciando a fare teatro a livello amatoriale − dava un mano per il montaggio degli spettacoli. Quindi le difficoltà, all’inizio, erano molte.
Come si è trasformato il festival?
Per me è cambiato “dal giorno alla notte”: ho cominciato da solo e ora siamo in cinque. Ovvio che tutto è proporzionato all’attività del festival, a com’è cresciuto negli anni: oggi siamo in cinque perché si programmano anche quattro spettacoli al giorno, e occorre una copertura totale di tutti gli spazi. La nostra presenza è già indicativa di come si sia trasformato il festival.
A livello strutturale, poi, abbiamo fatto passi da gigante: l’impianto della Piazza della Collegiata, ad esempio, è una struttura importante.
E, a livello umano, come è cambiato?
C’è stata una trasformazione notevole: i primi anni la popolazione di Radicondoli partecipava molto di più. Andavo a chiedere gli oggetti per lo spettacolo porta a porta agli abitanti. Oggi sono un po’ più distaccati.
Anche in rapporto agli spazi?
All’epoca il festival era particolare perché gli spettacoli venivano riallestiti per Radicondoli. Quindi si adattavano agli spazi in cui Nico Garrone li pensava. Lui andava a Teatro durante l’inverno, aveva delle visioni per Radicondoli e decideva dove si sarebbe fatto un certo spettacolo. Quindi, insieme alla compagnia, ripensavamo la scena per il posto in cui volevamo farla.
Quale è stato lo spazio più strano dove hai allestito uno spettacolo?
Ce ne sono stati tanti, dal Cappuccetto Rosso di Virgilio Sieni in Piazza San Girolamo per cui si trasformò tutta la piazza e si utilizzarono balconi privati, vi partecipava la banda del paese e un’attrice danzava sopra un’Ape. Gli operai del Comune ci aiutarono con una ruspa – Virgilio mise una danzatrice su una pala meccanica! Ecco come partecipava la gente di Radicondoli.
Un altro luogo strano è stato usato per l’Amleto di Ugo Chiti, che è stato fatto al cimitero. È stato riallestito completamente lo spettacolo e, ripensandolo per lo spazio, è nato qualcosa di completamente diverso. Si è montato un teatro all’aperto con tanto di gradinata e il fantasma del padre di Amleto usciva dalla porta del cimitero, sopra la testa del pubblico, alle sue spalle.
Perché continuare e tornare a lavorare qui?
Perché quando credi in un progetto lo sposi a pieno, lo porti avanti a denti stretti anche se ti mettono i bastoni tra le ruote. Il progetto era iniziato con Nico e l’anno scorso, quando è scomparso, ci siamo sentiti obbligati a continuare. Negli anni i risultati li abbiamo avuti quindi perché non continuare…
Prospettive per il futuro…
Tristi, sarà difficile il futuro. Se cambiano un po’ le cose potrebbe anche essere facile, deve cambiare la volontà che sta a capo di questo progetto. Sopratutto economica, perché un festival del genere costa poco in proporzione a quello che si fa, però c’è bisogno di finanziamenti. Nonostante la crisi italiana, questa è una realtà forte e visibile, efficace, quindi sarebbe un peccato perderla. Si spera di far continuare questo progetto nella direzione che aveva preso con Nico.
Recensione a L’origine del Mondo. Parte prima La menzogna – Lucia Calamaro
È piccola, è una taglio sulla tela, una spina conficcata sotto l’unghia. Una strana sensazione quella di riconoscersi davanti ad una pièce teatrale. Eppure coinvolgente e dilaniante. Ci riesce Lucia Calamaro, regista e autrice, che ha colpito l’attenzione delle platee con i suoi spettacoli così intimi e universali. A Radicondoli porta un testo, breve quanto toccante: L’origine del Mondo. Parte prima La menzogna è uno spaccato di vita quotidiana, un frammento che racchiude in sé l’intero rapporto madre-figlia, vita-morte. Una donna depressa, che passa le sue notti (se non le sue giornate) davanti al frigo di casa, cercando di decidere che cosa mangiare, assaggiando un po’ di tutto ma non trovando mai niente. Trovare qualcosa che ti riempia il petto e non lo stomaco è davvero impossibile. Una donna ansiosa, ma consapevole, che non riesce a svoltare e allora si aggira per casa, anima in pena perpetua. Al suo fianco la figlia, altrettanto apatica ma più reattiva: non rinuncia alla madre, nel tentativo di salvare “l’origine” dalla quale proviene, un istinto primordiale che non fa altro che provocare dolore. La paranoia dell’una sovrasta l’altra, in un meccanismo perverso che spinge alla menzogna, mentire/mentirsi per sopravvivere. «Sempre meglio far vivere gli altri nella TUA di menzogna che TU sprofondare in quelle degli altri. No?», scrive la Calamaro,talmente sottili le sue parole che è difficile comprendere chi fosse a mentire dei suoi personaggi. Forse proprio il dottore — interpretato dalla figlia con un gioco di trucco e voce — unico fantoccio in una drammatica realtà? O forse è tutto una menzogna e il “fondo depressivo” a cui è soggetta la donna è solo un sintomo di una epidemia che colpisce la società contemporanea.
Colpisce il testo dell’autrice per la sua intimità universale: chi non ha provato l’ansia da inazione che sovrasta la povera donna, chi non si è mai sentito impotente di fronte al dolore…
Un linguaggio quotidiano, leggero e poetico accompagna una scrittura esile e dirompente e dipinge personaggi veri che stupiscono e commuovono. Confessioni che arrivano dal profondo, che accerchiano lo spettatore e lo costringono ad un confronto diretto e spietato con se stesso. Bravissime le due attrici. A sostenere personaggi che sconfinano nella realtà, a passare da un registro all’altro tenendo un ritmo modulato e costante. Un’interpretazione sensibile per uno studio che merita di essere portato avanti, con la passione e la precisione di cui sa essere capace questa autrice.
Per la seconda puntata di TIMEOUT – I Maestri, ecco cosa ci hanno detto Tommaso Taddei, Simone Nebbia, Alessandro Benvenuti, Fabio Biondi, Valentina Grazzini, Claudia Gelmi, Marianna Sassano, Michele di Mauro e Salvatore Tramacere.
Se vi siete persi la prima puntata, ricordiamo che TIMEOUT nasce in occasione del Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta e a maestri che sanno donare esperienza e saperi. TIMEOUTè un cronometro, una corsa alla risposta nel tentativo di sciogliere nodi e questioni del teatro di oggi e (ri)scoprire i punti di riferimento che dal passato ci muovono verso il futuro. Agli artisti che passano da Estate a Radicondoli chiediamo quindi: qual è/quale dovrebbe essere il ruolo della critica oggi? Quali sono stati/sono i tuoi/vostri Maestri? Il tutto in massimo 2 minuti a risposta!