In occasione del Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta e a maestri che sanno donare esperienza e saperi, TIMEOUT è un cronometro, una corsa alla risposta nel tentativo di sciogliere nodi e questioni del teatro di oggi e (ri)scoprire i punti di riferimento che dal passato ci muovono verso il futuro. Agli artisti che passano da Estate a Radicondoli chiediamo quindi: qual è/quale dovrebbe essere il ruolo della critica oggi? Quali sono stati/sono i tuoi/vostri Maestri? Il tutto in massimo 2 minuti a risposta!
Ecco i Maestri indicati da Alessio Pizzech, Dario Marconcini, Gabriele Di Luca e Roberto Abbiati.
In occasione del Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta e a maestri che sanno donare esperienza e saperi, TIMEOUT è un cronometro, una corsa alla risposta nel tentativo di sciogliere nodi e questioni del teatro di oggi e (ri)scoprire i punti di riferimento che dal passato ci muovono verso il futuro. Agli artisti che passano da Estate a Radicondoli chiediamo quindi: qual è/quale dovrebbe essere il ruolo della critica oggi? Quali sono stati/sono i tuoi/vostri Maestri? Il tutto in massimo 2 minuti a risposta!
Ecco cosa ci hanno detto della critica Alessio Pizzech, Dario Marconcini, Gabriele Di Luca e Roberto Abbiati.
Nella gelida serata di ieri abbiamo preso qualche commento a caldo del pubblico appena uscito dagli spettacoli, qui di seguito gli audio rispettivamente di Una tazza di mare in tempesta, Coco e Gioco di Mano.
29/07/2010 Radicondoli, Festival Estate a Radicondoli
A partire dalla lettera aperta di Anna Giannelli – che invitava tutti gli artisti a nominare i loro Maestri per individuare i candidati al Premio Nico Garrone – la redazione inizia una piccola indagine tra gli artisti e gli operatori presenti al festival, per scoprire come è mutata la figura del Maestro e chi oggi viene riconosciuto come tale.
La drammaturgia – intesa, in senso ampio, come scrittura per la performance – ha vissuto stagioni di declinazione estrema nella seconda metà del secolo scorso: prima rimossa e superata, ma anche discussa, ripercorsa, riproposta, ricontestualizzata, la scrittura per il teatro ha perso autonomia e, da allora, vive sempre aggettivata. Si incontrano infatti, oltre la celeberrima “scrittura scenica” che ha fatto scuola, teorie del testo che si propongono in relazione alla drammaturgia visiva e alla drammaturgia degli oggetti, drammaturgia d’attore, dello spettatore, dello spazio, di scena, e via così, come a comporre un panorama animato da singoli percorsi di scrittura ad hoc, indipendenti e completi. Tanti quanti sono gli elementi immaginabili che compongono uno spettacolo. Nelle sue tante declinazioni possibili, la pratica della scrittura teatrale si è dunque applicata, in modi differenti, alla scena degli ultimi cinquant’anni, mentre l’elemento testuale tout court perdeva progressivamente d’attenzione. A tutt’oggi è difficile saper dire quante versioni, aggettivate o meno, ne esistano e, soprattutto, in che modo coesistano nell’unicum della performance.
Da qualche tempo, invece, si assiste ad accenni di ritorno alla testualità teatrale intesa in senso “convenzionale” (si fa per dire, avendo la drammaturgia, appunto, attraversato e assorbito periodi di molteplice restaurazione e ricreazione). Artisti che si erano distinti per percorsi di negazione della composizione drammatica tout court si rivelano, in tempi recenti, attraverso una riscoperta e un riavvicinamento alla dimensione testuale; mentre le avanguardie della regia (o di quel che ne rimane) instaurano vivaci collaborazioni con autori contemporanei, teatrali e non, le giovani compagnie tentano percorsi di composizione autonoma che certo ha poco a che fare con la testualità tradizionalmente intesa, ma si distingue comunque per un’attenzione particolare ai paradigmi testuali, al discorso e al parlato. Il teatro di fine millennio, in Italia, è popolato dagli anni d’oro di In-Yer-Face-Theatre, dalla nuova scena iberica di Rodrigo Garcìa, Rafael Spregelburd, Juan Mayorga e dalla riscoperta della drammaturgia francese (Koltès e Lagarce, ma anche Camus e Genet). E per quanto riguarda le creazioni strettamente nazionali, è necessario ricordare che alcuni dei percorsi più interessanti e vivaci della scena degli ultimi vent’anni appartengono ad artisti che hanno fatto della ricerca testuale il nucleo del proprio lavoro. Certo i testi di Emma Dante, come quelli di tanti altri nuovi gruppi, incontrano le improvvisazioni degli attori e passano attraverso la centrifuga della messinscena, prima di approdare alla forma compiuta; e quelli di Ascanio Celestini, fra gli altri, rimbalzano nelle parole delle tante persone che l’autore-attore ha incontrato durante il suo percorso creativo. Ma, pur secondo modalità e passaggi differenti e originali, il risultato (sulla scena e sulla pagina) è quello di un ritorno di attenzione per la ricerca drammaturgica, un affondamento deciso nella strutturazione del discorso e nella potenza della parola, per lungo tempo marginalizzata dai palcoscenici d’Europa.
Gioco di mano
Tracce e Intrecci, titolo di questa edizione di Estate a Radicondoli, può diventare esemplare rispetto alla varietà che popola la scena contemporanea, ma anche delle principali modalità di approccio alla scrittura nel teatro d’oggi. Gli spettacoli in programma si collocano all’interno di questo panorama di “rinascimento testuale”: ogni creazione si caratterizza per un differente approccio alla questione della composizione drammaturgica e può considerarsi rappresentativa di una linea di azione che scuote la teatralità nazionale. Si va – per citare soltanto i lavori che incontrerà Il Tamburo di Kattrin nei suoi giorni di permanenza radicondolese – da progetti che hanno origine da grandi classici della cultura occidentale e ne verificano, sulla scena, l’incontro con l’attore, con l’umano e con l’individuo (come Una tazza di mare in tempesta di Roberto Abbiati che è composto a partire da Moby Dick, Coco di Dario Marconcini dall’ultimo testo, incompiuto, di Koltès, La stanza di Pinter proposto da Teatrino Giullare, il Doctor Frankenstein di Koreja e l’Enrico 4 di Michele di Mauro) a scritture che tentano di dare voce e volto all’Italia in cui si vive oggi, andandone a cercare origini e contesti (Quanto mi piace uccidere… di Virginio Liberti, Gesuino di Simone Nebbia, L’Italia s’è desta di Stefano Massini). Altre sperimentazioni drammaturgiche si sviluppano intorno all’esplorazione dell’elemento autobiografico, come momento sia d’innesco che di verifica della storia: Carrozzeria Orfeo, con Gioco di mano, si impegna nel recupero di piccoli frammenti di vita troppo spesso risucchiati dalla Grande Storia, portando così in luce le
Coco
strategie individuali che hanno costruito materialmente le vicende e i fatti che tutti conoscono soltanto per astrazioni; Alessandro Benvenuti sperimenta possibilità inedite per l’affondo biografico in scena: Me medesimo, in cui il protagonista è sospeso e ripreso nelle trame del se stesso attore, «non è uno spettacolo ma un pezzo di vita da vivere in palcoscenico»; Teatri Divaganti, nell’anno dei Mondiali, indaga l’umano attraverso il gioco del calcio, che è parte della biografia di Andrea Mitri, autore e protagonista dello spettacolo. Infine la presenza, di alcuni dei più interessanti autori teatrali italiani, come il già citato Stefano Massini, ma anche l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro (L’origine del mondo) e Passo di Ambra Senatore, autrice la cui scrittura per la danza si è rivelata uno dei percorsi creativi più interessanti della scena contemporanea. Le diverse strategie messe in atto e i percorsi di sperimentazione esplorati si esprimono in schemi compositivi (ma anche emotivi) differenti, che incarnano angolature personali, approcci, singole esperienze dei tentativi di dare forma al materiale di partenza. Nella varietà di forme, ragioni e impatti, si può accennare a una linea comune, che accoglie anche diversi linguaggi (prosa e narrazione, ma anche danza, musica, romanzo e, perché no, calcio) ed è fortemente rappresentativa di quello che sta accadendo oggi su (e dietro) i palcoscenici italiani: si tratta di esperimenti testuali che rivendicano un pregnante e particolare rapporto con la realtà (artistica e non) da cui provengono, esemplare nei tentativi di incastonare piccolissime biografie nei vortici e nei monumenti del panorama socio-politico contemporaneo. Sono scritture che generano spettacoli in cui il processo di creazione è reso concreto, materiale e percepibile e che trovano il proprio fine nel rapporto col pubblico, nell’esplorazione della comunità e nella costruzione di una prossimità o solidarietà umane. Nuovi percorsi di una scrittura, dunque, che torna alla ribalta, collocandosi con forza fra il mondo che la precede e la origina e la realtà della scena e della platea destinata a seguirla.
Quale posto può occupare lo sguardo critico, in un mondo in cui il giudizio è spesso evitato, di frequente oggetto di imbarazzo, quasi sempre discusso e discutibile, dalla quotidianità di una politica ad personam che ne tenta sempre declinazioni possibili alle polemiche sui vari televoti e sulle decisioni arbitrali nelle partite di calcio, fino al contesto strettamente giornalistico-teatrale, in cui lo spazio dedicato alla critica si restringe sempre più, fra recensioni minimal ed emblemi grafici, destinati a condensare – come ricordava qualcuno – nei loro pochi segni tutte le linee che compongono l’incontro fra scena e sguardo.
Quando il tempo (lo spazio, l’attenzione, il mondo) stringe, occorre tentare di rigenerarlo, di creare nuovi itinerari e sviluppi, di insinuarsi nelle minuscole crepe dell’informazione. Di qui (o, quantomeno, in prossimità “a qui”) nuovi ruoli per il critico teatrale, profili e attività inediti: si è assistito negli ultimi anni a un progressivo e serrato processo di declinazione della figura del critico, che, di fatto, non esiste più (o solo raramente) come sostantivo (e ruolo) a sé, ma si anima invece nelle sue tante possibili applicazioni. Ormai soprattutto prefisso di miriadi di ruoli composti, la purezza dello sguardo è esplosa in figure come il critico-direttore artistico, il critico-operatore, il critico-artista, il critico-promoter e via così, in un vortice di ibridazioni contigue e successive che ha spostato e continua a traslare i confini del lavoro critico. Ma in un mondo come quello attuale, in cui i telefoni fanno fotografie, la politica è (con)fusa con lo show, la co-autorialità dello spettatore è realtà, non si tratta certo di mantenere o invocare una condizione di purezza: l’ibrido è nei nostri tempi, si scioglie nei nostri rapporti, delinea con movenze tenere i nostri spazi. L’opposizione al mutante, nel nome di una chiarezza di ruolo ormai perduta (e non solo in teatro), non ha speranze, non si dimostra utile, non riesce a tracciare nuovi contesti. La possibilità declinativa ormai insita nella quotidianità, l’essere-in-potenza, inafferrabile, sempre a un passo dal poter diventare altro, ha poco a che fare con confusioni di ruolo o di profilo: è identità. Per questo è importante farsi carico del contesto in cui si opera, per tentare di immaginare traiettorie critiche capaci di fare i conti con la realtà in cui nascono, sono diffuse e sono lette. Il che non significa necessariamente cedere alla deriva dell’ibrido, trasformando il proprio sé nelle sue tante declinazioni possibili.
Inauguriamo allora la nostra piccola frastagliata sfilata di opinioni e desideri intorno alla figura del critico con qualche notazione decisamente personale – pensieri di chi frequenta scena e platea da pochissimo tempo, ma ha deciso comunque di costruire continuità fra queste esperienze attraverso le proprie parole.
Viviamo in una realtà dell’informazione singolarmente espansa: una rete quanto mai trasformabile ed ampliabile ad hoc, che muta al cambiare delle nostre necessità del momento; ogni panorama, oggi più che mai, dipende dalla posizione di chi guarda, sciogliendosi in altri profili secondo gli spostamenti dell’osservatore. All’interno di tali contesti, molteplici e mutanti, come accennavamo prima, lo spazio per la critica e per il giudizio è sempre più ridotto. Quali possibilità, allora, per il pensiero critico? Quali spazi, quali tempi?
Concludiamo indicando una delle tante possibilità percorribili, per ricondurre lo sguardo, oggi più che mai, alla sua indispensabilità. Si può tornare a cercare negli elementi essenziali che costruiscono il fare critico, all’interno di quelle relazioni fra scena e platea in cui questa figura si ritaglia: dalla parte dell’artista (del processo creativo, della ricerca, degli slanci e dei compromessi), dalla parte dello spettatore (dell’immaginazione, dell’interpretazione, dello sguardo). In ogni caso si tratta, in un mondo che subito dimentica e in cui tutto può essere relativizzato secondo una individualità precisa, di ritessere le relazioni fra teatro e mondo; di interrogarle, da un lato all’altro della scena; di andarle a cercare, di riportarle in luce e in superficie, agli occhi di tutti. Il contesto (artistico, ma anche culturale, sociale, politico) in cui germina un oggetto d’arte, in cui è esperito, guardato, ricordato e dimenticato, è parte essenziale di esso: come pensare i lavori della Postavanguardia senza esplorare gli Anni di Piombo? Come parlare della Terza Ondata senza citare la diffusione della tv privata o della club culture o dell’arte visiva degli anni Novanta o, ancora, della storia del Festival di Santarcangelo? E invece si fa, e spesso la critica si plasma sui limiti dell’incontro personale, quasi biografico, fra sguardo e spettacolo. E forse anche qui si possono ricercare le ragioni della sua perdita di necessità. Certo non è possibile includere tutto, intrecciare reti di senso e di rimandi che sappiano accogliere ogni itinerario che ha accompagnato una creazione, dal processo ideativo alla sua materializzazione e diffusione. Ma forse vale la pena tentare di uscire dal progressivo scollamento in atto nel contesto artistico, quella divaricazione fra scena e mondo (che riguarda artisti e pubblico, e, allo stesso tempo, teatro e realtà) che, nel suo svilupparsi, ha stritolato le creature che vi lavoravano in mezzo, come il critico. E allora forse si può provare a ricollocare lo sguardo all’interno del mondo in cui lo spettacolo nasce, si presenta e viene fruito, che è poi il mondo in cui viviamo tutti, per tentare di ritrovare una necessità dello sguardo, del giudizio e, perché no, anche del teatro.
Il festival Estate a Radicondoli giunge alla sua ventiquattresima edizione, quest’anno con un programma dedicato alla figura di Nico Garrone, direttore storico della rassegna, scomparso l’anno passato. Il nuovo direttore artistico Gabriele Rizza e i suoi collaboratori, hanno intitolato il programma Tracce & intrecci due percorsi che si sviluppano intorno alle linee gettate in tanti anni dal critico militante e fuori dai canoni che era Garrone. Tracce sono quelle che ritroviamo in alcune compagnie che hanno incrociato il suo percorso e ora affermate, intrecci sono invece quegli incontri che si fanno con le nuove generazioni, percorso da sempre stato a cuore del grande intellettuale e scopritore di talenti che era Nico.
La nostra redazione assisterà all’avvio della rassegna e ne seguirà il percorso da uno spettacolo all’altro, andando a sondare quel territorio fertile che è la sperimentazione e la contaminazione tra le arti sceniche. È infatti molto vario il programma proposto da Rizza, a partire dalla serata d’apertura con il concerto Trails for celtic harpdi Stefano Corsi, musicista ed esperto di arpa celtica che propone brani di autori del ‘700 come Turlough O’ Carolan e di metà del ‘900 come Sean O’Riada che ha dato suono a Barry Lindon di Stanley Kubrick. La musica accompagna un altro spettacolo, Gesuino,un cabaret esistenziale di Simone Nebbia. Artista e critico teatrale, Nebbia racconta cantando, attraverso il personaggio di Gesuino, la vita politica, le rivoluzioni, gli anni in cui appartenere a un partito era una scelta di vita. Di intrecci di vite e personaggi al limite tra la morte e la vita parla Gioco di Mano, del giovane gruppo Carrozzeria Orfeo formatosi all’Accademia “Nico Pepe” di Udine solo tre anni fa e ora presente in molte rassegne estive e invernali.
Un programma fitto per queste prime sei giornate che vedranno sul palcoscenico del Teatro dei Risorti o in piazza della Collegiata sfilare molti testi: alcuni completamente inediti, altri frutto delle nuove drammaturgie che irrompono sulla scena contemporanea. Breve performance-spettacolo che si ripeterà tutto il pomeriggio di giovedì saràUna tazza di mare in tempestadi Roberto Abbiati, tratto dal capolavoro di Melville, gli straordinari racconti di Moby Dick: lo spettacolo trascina il pubblico in un’esperienza sensoriale oltre che visiva calandolo nella stiva di una piccola nave. Tratti da altri testi importanti sono Doctor Frankenstein dei Cantieri Teatrali Koreja, Enrico 4di Michele di Mauro, Coco di Alessio Pizzech. Sempre da un grande drammaturgo è tratto La Stanzadi Harold Pinter, messo in scena da Teatrino Giullare, gli attori costretti a recitare nello spazio di una finestra, si alternano nell’interpretazione di personaggi quotidiani ma straniati dall’uso di maschere iperrealistiche einnaturali. Tra le nuove drammaturgie spiccano invece L’Italia s’è desta di Stefano Massini, Quanto mi piace uccidere di Virginio Liberti, Me medesimodi Alessandro Benvenuti, I° studio per l’origine del mondodi Lucia Calamaro e Fuori gioco di rientrodi Andrea Mitri.
Un vero tour de force per questi primi giorni di spettacolo che la redazione si appresta a seguire con grande entusiasmo, il programma prosegue fino a metà agosto con molti altri spettacoli tra musica, danza e teatro.