Recensione de Il castello di Holstebro II– Julia Varley, Odin Teatret
Un flusso di coscienza, un labirinto di pensieri che si intrecciano casualmente portando riflessioni amare, sulla triste temporalità della vita: questo il tesoro nascosto del Castello di Holstebro II, spettacolo portato in scena da una storica attrice dell’Odin Teatret, compagnia danese fondata da Eugenio Barba. Julia Varley interpreta questa particolare messinscena, dove frammenti di un sogno prendono vita attraverso la sua voce. Holstebro è la città danese dove l’Odin opera, e il suo castello è tutto il bagaglio acquisito in più di quarant’anni di esperienza che ha portato questa compagnia a compiere viaggi specialmente in Sud America e in terre lontane dall’Europa.
Da questo percorso errante derivano tradizioni teatrali differenti, modi di usare il corpo in scena che si discostano da quelli che si è abituati a vedere tra le compagnie degli stabili italiani. La Varley, sola sul palco, balla in mondo infantile, reggendosi la gonna, o si nasconde il capo con una stoffa; le espressioni del suo viso sono tenere, rilassate mentre la sua voce pronuncia aspre verità. Il corpo non risponde alle sensazioni veicolate attraverso le parole: afferma sorridente che tutti i giovani moriranno presto o mentre racconta di una ragazza annegata, il suo volto trova la serenità.
Centrale in questo lavoro è il tema della morte: un teschio la accompagna per tutta la durata dello spettacolo, assistendo silenziosamente al suo flusso di riflessioni e costituendo una sorta di alter ego della donna. Inizialmente è lei stessa a muovere questa testa ossuta, posizionata sopra il suo capo a sua volta nascosto sotto l’abito: il frac indossato fa sembrare la strana figura un fantasma enorme, elegante e sproporzionato; tolti i pantaloni e indossata una gonna, essa acquista improvvisamente una caratteristica femminile: è un gioco di velamento e disvelamento. Ma il teschio non appartiene né all’universo femminile né a quello maschile: perché la morte non ha volto, colpisce chiunque. E l’attrice narra così di un bambino annegato, di una giovane che fece la stessa fine mentre raccoglieva dei fiori. Gioia e sofferenza proseguono a braccetto, proprio come vita e morte non possono esistere separatamente, perché “qualsiasi posto illuminato avrà sempre la sua ombra” e qualsiasi essere la sua fine.
Lo spettacolo scorre tra la bravura dell’attrice – che usa la sua voce passando da una tonalità bassa e roca a urla che si avvicinano a ultrasuoni – e pensieri confusi, labirintici: ma è un giardino silenzioso quello in cui ci si aggira, popolato da strane figure tutte prossime alla morte.
Visto al Teatro delle Maddalene, Padova
Carlotta Tringali