Recensione a Albero senza ombra – César Brie
Dopo un lavoro di indagine durato quasi due anni, dopo essere stato cacciato dalla sua città lo stesso giorno in cui veniva dichiarato cittadino boliviano, César Brie giunge in Italia al Festival Scene di Paglia, per raccontare gli episodi di una tragedia di cui si è fatto testimone e portatore di memoria. L’11 settembre 2008 nella profonda giungla boliviana, nella regione del Pando, decine di campesiños che andavano a manifestare per poter avere le terre che gli spettavano, vennero uccisi in un massacro che fu fatto passare totalmente inosservato. Arrivato sul luogo del disastro il regista argentino si rese conto che nessuno aveva veramente idea di che cosa fosse successo, i famigliari delle vittime chiedevano indietro i corpi degli scomparsi; delle centinaia di persone coinvolte pochissime tornarono a casa e solo undici furono dichiarati ufficialmente morti. Dalla minuziosa e pericolosa indagine iniziata due anni fa César Brie è riuscito a ricostruire, in un documentario di tre ore, gran parte dei fatti di quel terribile giorno, portando alla luce verità inespresse e scomode per entrambe le parti e lasciandosi dentro un enorme vuoto. Lo spettacolo portato in scena a Piove di Sacco non è un’inchiesta ma piuttosto quel che resta della pietas di César Brie, un atto d’umanità nei confronti di una vicenda inumana.
Albero senza ombra come fa notare Fernando Marchiori – che segue ormai da anni l’artista – è l’ennesimo monologo attraverso il quale Brie cerca di superare la crisi: durante gli anni di lavoro con il Teatro de Los Andes i ritorni al monologo sono sempre stati segno di un periodo di riflessione e riscoperta di sé. Con questo lavoro Brie – da sempre impegnato nella difesa dei valori degli indigeni boliviani – riporta in scena le vite-attraverso-la-morte di quelli che non sono personaggi di un mito, ma eroi del quotidiano. E lo fa con il suo linguaggio fatto di racconti, di colori e panni stesi, di miglio e foglie. Una scena circolare vede un Brie ancora capace di stupire con le sue performance attoriali, i fatti si avvicendano avvolgendo attore e pubblico in una spirale sempre più stretta. Brie usa linguaggio conosciuto e strutturato su metafore e allegorie, immagini frequenti e che un pubblico appassionato riconosce come stilemi della poetica dell’artista. Oggetti-pendolo, sacchi di miglio, bacinelle d’acqua, stracci e abiti, tutto diviene qualcos’altro: uomini, armi, strade, fiumi, case, bambini. La relazione attore-oggetto è sempre chiara e definita, è l’azione dell’attore che definisce l’oggetto agito e in un gesto lo violenta, lo uccide, lo salva, lo muta di significato. Brie parla e fa parlare i suoi personaggi facendosi portavoce delle loro verità con una cronaca dal respiro brechtiano, prende parola il campesiño in fuga, il boia, il soldato e il medico, tutti con la propria ragione, tutti con la loro versione della storia. Ecco allora il grande sforzo di Brie sta nel ricomporre il puzzle raccogliendo i frammenti, lo spettacolo non è dunque un’inchiesta, ma il riflesso della luce puntata su quei frammenti.
All’incontro con il pubblico condotto da Marchiori, Brie si dice non ancora soddisfatto dello spettacolo «Forse avrei dovuto parlare della ricerca, dell’indagine, di come siamo arrivati a ricostruire tutti i fatti attraverso le autopsie e le interviste». Si prospetta una possibile svolta dello spettacolo, raccontare come è stata scoperta la verità a volte può essere ancora più agghiacciante e toccante della verità stessa.
Visto a Scene di Paglia, Piove di Sacco
Camilla Toso