Recensione a Duramadre – di Fibre Parallele
La scena si apre su un panorama singolare, bianchissimo d’un chiarore abbacinante, punteggiato di sfere altrettanto candide, altre dorate, e nere, più piccole. L’ambiente è a dir poco surreale, sintetico e tutto immobilizzato d’una sospensione metafisica, non solo per la matericità e il vapore del bianco cari a De Chirico, ma anche per gli oggetti che lo abitano: a fondo scena si stagliano un grande tavolo, altissimo, e una casetta a mezz’aria con il suo alberello, bianco anch’esso. L’incomprensione legata a queste (e altre) sproporzioni si presenta subito in Duramadre, ultima creazione di Fibre Parallele, in tutta la sua netta evidenza, nel potente scarto che lo spazio è capace di provocare. E questo gap – che innanzitutto è affidato all’ambiente e vedremo poi sarà rilanciato dalle figure che lo popolano, dalla struttura drammaturgica, dalla lingua utilizzata – man mano che lo spettacolo procede, si scopre essere, in fondo, quello fra realtà e finzione, nodo esclusivo intorno a cui si possono riunire le diverse produzioni che la compagnia pugliese ha portato in scena. Dallo scontro di genere e di menti di Mangiami l’anima e poi sputala all’abisso in cui conduce la lucida ferocia di 2. (Due), fino a questa ultima storia d’apocalisse e rivolta, il gruppo guidato da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo ha attraversato tanti linguaggi e generi, registri e immaginari; il punto che più di altri sembra tornare, tanto nella ricerca delle Fibre che in questo ultimo esito, è la tensione e l’impegno nell’affrontare la produzione scenica come la creazione di un mondo altro, realissimo eppure dotato di codici inediti e regole tutte proprie, in cui gli spettatori vengono man mano introdotti dal progressivo sviluppo della drammaturgia testuale e fisica.
Mentre una voce racconta di una madre dal profilo inquietante, in cui si mescolano “meraviglia e terrore, potenza e infermità”, qualcosa si muove a fior di palcoscenico: dal suolo tre creature, anch’esse bianchissime, vengono alla luce squarciando le superfici di plastica che le racchiudevano. Polvere, polvere candida anche su di loro che muovono primi timidi passi in questo mondo irreale. Si nota subito che uno è “diverso”, non solo per i capelli ma anche per tutta un’altra modalità d’approccio alla conoscenza del mondo: c’è chi va per imitazione – i sottili duetti fra Mino Decataldo e Simone Scibilia – e chi (Riccardo Spagnulo, anche autore del testo) d’invenzione. L’evoluzione di queste nuove creature è rapida: subito scoprono che una delle sfere rimbalza e “inventano” il gioco del calcio, con tutte le piccole sopraffazioni e gli spintoni del caso. Ma presto, il “pallone” va troppo alto e si materializza la “duramadre” (Licia Lanera, anche regista) del titolo e del racconto: nera, nerissima, affiora e ribolle di voce dalla sua macchina da cucire, posta in cima al tavolo che dalla sua altezza tutto domina. Parla una lingua terrigna e imperativa, materica e quasi oracolare – in contrasto con il registro non solo consuetamente comprensibile ma anche a tratti bambinesco dei tre “figli”. E subito, si mostra la condizione di quel mondo sospeso e sintetico: il potere, feroce e incontestato, di una madre che vessa in tutti i modi i propri figli, con piccole e grandi torture in cui si innesta con efficacia una delle cifre distintive di Fibre Parallele, quel profondo lavorìo fisico che accarezza i confini della body art. In una delle scene centrali, in cui i tre sono obbligati a correre intorno alla donna portando ognuno una sfera nera che si scopre essere una palla da bowling, lo sfiancamento e l’affanno sono autentici e diventano ferocemente palpabili. In questo come in altri passaggi, di lancinante coinvolgimento, la finzione scenica è trapuntata di un realismo così estremo che diventa la prova, di un’evidenza decisa, dell’esistenza di questa realtà altra, seppure entro i confini del palcoscenico. Ma, in uno spaziotempo che sembrava immutabile c’è ancora un segreto: nella casetta, in alto in alto, è rinchiusa un’altra “figlia” (la brava Marialuisa Longo). Saltella, corre e si picchia a comando, per raccontare poi la surreale genesi di quello strano mondo e delle sue norme assurde.
Certo, trovare le chiavi di accesso per questo mondo altro, non è sempre semplice e immediato e Duramadre richiede un impegno attento, una disposizione al sogno che gli attori, in certi momenti, sanno creare con efficacia. I codici e le soglie, per entrare e capire questo territorio insterilito, inizialmente celati, sono mostrati man mano da alcuni snodi drammaturgici, come la scena della tortura di cui sopra, ma anche nel momento in cui la madre strappa (letteralmente) il cuore ad uno dei figli. In questo immaginario ricchissimo, il rischio dell’incomunicabilità è dietro l’angolo, ma la chiarezza dello sviluppo drammaturgico e la devastante energia degli attori danno vita a un inquietante magnetismo e sono in grado di attirare il pubblico proprio all’interno di quel mondo, a guardarlo dal di dentro tanto quanto loro stessi.
Duramadre è uno spettacolo che si muove fra un’incommensurabile ferocia e un’altrettanto spessa sospensione. Il contrappunto, si potrebbe dire, è all’origine della partitura drammaturgica e concettuale dello spettacolo; e se in alcuni casi si tratta di dicotomie oppositive che rischiano a volte – certo intenzionalmente – di insterilire la scena (dalla semplicità del bianco/nero a natura/morte ecc.), il loro confronto invece esplode in quei passaggi in cui ne viene sviluppata l’ambiguità e l’inquietudine, come nell’intreccio fra ferocia e poesia e nelle derive recitative più prossime all’espressionismo e alla biomeccanica, così come nella morte della “madre” (non è stabilito se a causa della rivolta o per ragioni diverse) o nel finale in cui i quattro “figli” squarciano le pareti scoprendo alberi e prato, e avanzano verso il proscenio, in una densa luce gialla, minacciosi almeno quanto la “madre”, che hanno appena sepolto sotto una montagna di coloratissimi fiori di plastica.
Visto a fAST 2011, Terni
Roberta Ferraresi