Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi

Finestate Festival: un nuovo network fra passato e futuro

Ormai è sulla bocca di tutti che l’arte, la storia e la cultura italiane siano continuamente in pericolo: Pompei rischia di uscire dal prestigioso circolo dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, gli eco-mostri straziano gli orizzonti, i monumenti sono bardati da impalcature perenni. L’Italia arranca nel sostenere il peso di un patrimonio diffuso enorme, per non parlare poi di presente, di contemporaneo, di futuro; e, se possibile, la situazione peggiora ancor di più, se si sconfina in quel campo di produzione immateriale che è quello delle arti performative: i teatri chiudono, i festival sono sempre più in affanno, le compagnie si trovano schiacciate fra necessità di produzione, giornate di lavoro, repliche, contributi (criteri inattuali su cui si fonda, ad esempio, la distribuzione dei finanziamenti ministeriali) e vita reale, artistica e non. Che dire, poi, se alla disattenzione e all’incuria di un Paese che pare essere incapace di riconoscere (oltre che di valorizzare) le proprie potenzialità, si aggiungono le ripercussioni della crisi (non solo finanziaria) globale: già lontani gli imbarazzi di “con la cultura non si mangia”, oggi lo stato di emergenza si è consolidato come realtà quotidiana e l’eccezionalità che lo dovrebbe contraddistinguere tante volte ha lasciato il posto alla logica di una routine amaramente rassegnata.
Ma, laddove c’è, oltre alle evidenti difficoltà economiche, innanzitutto un vuoto (progettuale, amministrativo, concettuale), naturalmente e paradossalmente fiorisce l’eccellenza delle iniziative indipendenti, la creatività partecipata, la buona volontà dei singoli: basti pensare ai gruppi d’acquisto, alle iniziative di sharing (casa, macchina e chi più ne ha più ne metta), al guerrilla gardening e – per tornare a noi – ai tanti teatri occupati e/o autogestiti, dal Valle in poi. La resistenza si converte in dinamiche progettuali originali, la sopravvivenza in opportunità, la crisi in solidarietà, nella tradizione di quell’arte di arrangiarsi che ormai ha fatto il giro del mondo. Non che queste iniziative, da sole, possano andare a fronteggiare per sempre la polverizzazione istituzionale, gli anacronismi iper-burocratici e l’inadeguatezza dirigenziale; ma spesso hanno il merito di portare con forza all’attenzione necessità e urgenze che sono il segno dei tempi che cambiano, lasciando intravedere nuovi orizzonti operativi, rifocalizzando l’essenziale e disegnando nuovi percorsi per coltivarlo, quando non addirittura conquistarlo.

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È il caso di Finestatefestival, network attivo dal 2012 che raccoglie le spinte di sei rassegne che si sviluppano, come dice il titolo, fra agosto e ottobre, andando a concludere la lunga stagione dell’Italia dei festival. Si parte con B.Motion di Bassano del Grappa (VI), dal 22 al 31 agosto; Castel dei Mondi, ad Andria, il 25 agosto, poi  il romano Short Theatre – che quest’anno si presenta con un titolo a dir poco emblematico: La democrazia della felicità –, per proseguire con Terni (18-29 settembre) e chiudere con Contemporanea di Prato e Approdi a Cagliari, nuova realtà nel quartiere di Sant’Elia.
L’esito, per il 2013, è quello di proporre, all’interno della propria programmazione, due spettacoli internazionali: Nos solitudes di Julie Noche (nell’ambito di FranceDanse / Festival di danza contemporanea promosso dall’Institut Français, dal Ministère de la Culture et de la Communication, dall’Institut français Italia e dalla Fondazione Nuovi Mecenati) e Agoraphobia di Lotte van den Berg (in collaborazione con l’Ambasciata dei Paesi Bassi).

Lotte van den Berg "Agoraphobia" (foto di Willem Weemhoffhires)

Lotte van den Berg “Agoraphobia” (foto di Willem Weemhoffhires)

Perché sei festival si mettono insieme formalizzandosi in una rete? Dando uno sguardo agli obiettivi sintetizzati nella presentazione del network, si parla di «stimolare la cooperazione tra festival in Italia», con una specifica vocazione internazionale – anche immaginando percorsi a doppio senso che, oltre a portare nel nostro Paese lavori dall’estero, promuovano anche tournée straniere di artisti italiani, sperimentando collaborazioni anche con gli istituti di cultura e sviluppando un mercato unico delle arti performative in Europa – e un’attenzione particolare per la ricerca, per quanto riguarda «forme ibride dell’arte performativa» e «facilitare la collaborazione tra artisti di provenienze e di ambiti diversi». Quella che viene in mente, con una prospettiva trasversale rispetto alle diverse realtà e agli obiettivi che si pongono, è una ragione innanzitutto di sostenibilità economica: incontrandosi su alcune scelte di programmazione, queste rassegne hanno la possibilità di proporre al proprio pubblico lavori che forse, altrimenti, non avrebbero potuto ospitare, «al fine di moltiplicare le potenzialità che consentono di raggiungere traguardi al di fuori della portata del singolo festival». In momenti come oggi, già questo può essere un segno prezioso dei tempi che cambiano, per esempio sostituendo condivisione e confronto alla logica forsennata del debutto a tutti i costi, della concorrenza sul filo della novità, della competizione su nomi, date, location e tutto il resto. Ma, dando un’occhiata da vicino ai due spettacoli scelti, nel 2013, per la circuitazione all’interno del network è possibile sia riconoscere il segno delle linee di operatività individuali che abbiamo imparato, negli anni, a frequentare, sia provare a immaginare le risonanze interne e i flussi delle sinergie possibili, a livello artistico, certo, ma anche etico e politico; e per intuire come, forse, nel futuro più o meno imminente di questi primi passi di collaborazione, ci sia molto, molto di più.

Già in sede di conferenza stampa si è sottolineata la volontà di una condivisione progettuale che metta i festival in comunicazione diretta fra loro preservandone, però, differenze e specificità. Più che di una necessità strategica – come ha tenuto a sottolineare Edoardo Donatini –, si parla di affinità. Sensibilità comuni che si rivelano, solo per fare un esempio, nella scelta di uno degli spettacoli internazionali – quello di Julie Nioche –, affidata al direttore artistico di Contemporanea e a Linda Di Pietro, codirettrice di Terni Festival, che a Parigi hanno visionato Nos Solitudes e incontrato la coreografa; ma anche nel progetto di Lotte van der Berg, che fra nuove tecnologie e arte pubblica invaderà le piazze europee per tutta l’estate. O, per fare un altro esempio, nella presenza di Indisciplinarte (l’associazione che gestisce la rassegna umbra) sul territorio cagliaritano, per un progetto a lungo termine, che parta da Approdi e lavori in prospettiva, per rinsaldare il quartiere di Sant’Elia alla città.

Julie Noche "Nos Solitudes" (foto di Agathe Poupeney)

Julie Noche “Nos Solitudes” (foto di Agathe Poupeney)

Un impegno di cooperazione, quello del network, percepibile nella piacevole serata di presentazione, che si è svolta su una terrazza romana con suggestivo affaccio su Piazza Venezia. Non un’elencazione dei programmi, di cui si sono date piccole anticipazioni, brevi assaggi, ma una presentazione di linee comuni, di una rete di linguaggi e artisti contemporanei.
Salta subito agli occhi come la nascita di Finestate, più che una nuova iniziativa, vada a formalizzare una prossimità, una curiosità e un sistema di attenzioni preesistente: si riconosce il segno dell’arte pubblica che distingue Prato e Terni, la loro dimensione – con Bassano – di lavoro internazionale e l’attenzione alle pressioni di cocente attualità, come anche a Short Theatre. Si impone l’attenzione che lega tutti alla creatività emergente, alla ricombinazione di linguaggi e percorsi nella sperimentazione di collaborazioni inedite.

Ma Finestate non sta solo a indicare l’intreccio, pure importante, di pressioni, orientamenti, volontà preesistenti che intendono legarsi in una nuova dimensione di progettazione partecipata. Parlando assieme di politiche (scouting, transnazionalità, cooperazione) e di estetiche (nuovi linguaggi, ibridazione…), è possibile cogliere forse un altro obiettivo rispetto al programma, che un po’ li ricapitola tutti ma, soprattutto, può lasciar intravedere qualche passaggio in più, che supera tanto le ragioni di ordine di sostenibilità economica quanto la spinta degli orientamenti già attivi in precedenza: i festival di Finestate sembrano trovarsi insieme a rimarginare lo scollamento, che è sempre andato più amplificandosi, fra estetica e politica. Quello che ne emerge sembra manifestarsi come un esperimento che si propone di chiamare a raccolta, al proprio interno, sensibilità e poetiche, ma anche scelte etiche e politiche culturali, progettualità di ampio respiro e lunga durata, in un unicum che ha tutte le potenzialità per segnare il passo, andando a intercettare creativamente, ancora una volta – ma, in questo caso, attraverso un sistema di sinergie dichiarato – le urgenze della scena contemporanea e a disegnare per essa nuovi sviluppi possibili.

Il Circo Rasposo chiude Castel dei Mondi

Dimenticate il noveau cirque francese tirato a lucido, tecnologico con numeri che si succedono uno dietro l’altro e tutto il processo di spettacolarizzazione commerciale alle sue spalle; dimenticate il circo grossolano o quello con gli animali feroci ormai quasi scomparso in Europa ma ancora presente nel nostro paese. Ad Andria il tendone del Cirque-Théâtre Rasposo ha occupato la piazza centrale della città per tutta la durata di Castel dei Mondi. Se a un festival l’aria che si dovrebbe respirare maggiormente è quella energica della festa, del divertimento e dello stupirsi stando insieme, quella di invitare la compagnia di circensi francesi è stata la mossa più centrata dal direttore artistico Riccardo Carbutti.

Una volta varcata la soglia per entrare sotto il tendone, la piazza della cittadina pugliese si trasforma: ci si immerge in un’atmosfera retrò francese, dove le donne indossano gonne o pantaloni Anni ’50 e gli uomini bretelle e baschetti; gli oggetti sono consumati, impolverati e disposti in un ordine caotico, ma mai casuale. C’è una gran confusione tra spettatori che cercano il proprio posto, giovani che girano con macchine fotografiche d’epoca; una grande eccitazione e nessuna distinzione tra adulti e bambini: si percepisce un’energia vibrante che dilaga e si trasmette immediatamente a prescindere dall’età. I ginnasti-artisti – insieme ai fantastici musicisti che mai si tirano indietro, anche quando c’è da prender parte a un numero al limite della pericolosità – mettono tutti a proprio agio e conquistano subito con la loro bravura.

In Le chant du Dindon non si crea mai il vuoto all’interno di questo spazio: i numeri si accavallano, i circensi interagiscono tra loro creando dei micro mondi, delle storie che ben si incastrano tra loro, dalla ragazza che litiga col fidanzato e “vola” – perché qui di volare si tratta – dalle braccia di un uomo all’altro; dal gigante buono che continuamente crea pasticci divertenti ma in realtà – come dimostra nel suo ultimo numero – è un atleta da doti incredibili; alla donna che danza e salta su un filo sospeso sul vuoto. La loro tecnica puntuale si unisce alla passione ed è questo l’aspetto che si trasmette. Nel Cirque-Théâtre Rasposo c’è tutto: dal teatro alla danza, dalla musica alla creazione di mondi altri.

Non c’è stata una linea precisa e determinante al Festival Castel dei Mondi: al suo interno si sono trovati spettacoli di difficile fruibilità, molto concettuali e per un pubblico esperto; allo stesso tempo ha trovato qui la possibilità di esibirsi, ad ingresso gratuito, anche un teatro molto più popolare, spesso non di altissima qualità, come quello portato da alcune compagnie ospiti di Teatri Abitati, la rete di residenze pugliesi. Queste due linee così dissonanti tra loro hanno caratterizzato la natura differente del Festival rispetto agli altri più noti che abitano l’estate italiana: la rassegna non strizza l’occhio agli operatori ma piuttosto al pubblico che sembra apprezzare, facendo registrare il tutto esaurito ad ogni spettacolo in programmazione. Lo stesso calendario – una sovrapposizione continua di orari e pièce per cui si è costretti a scegliere che cosa vedere – sembra pensato più per una popolazione locale piuttosto che per i bulimici teatrali quali sono gli operatori che vogliono vedere tutto: qui si decide a priori a che cosa assistere o meno, proprio come fa un pubblico non specializzato.
Spesso si sono riscontrate opinioni opposte circa gli spettacoli presentati, con tanto di netta divisione tra esperti e profani del settore, dovuta molto probabilmente anche dalla differenza di sguardi – di quelli ormai stanchi di vedere ripetersi un certo tipo di messinscene o quelli freschi di chi non si reca tutte le sere a teatro e ha sotto casa la stessa grande offerta che invece può trovarsi chi vive a Roma o Milano.
Sicuramente il Circo Rasposo non è stato uno di questi, in quanto è riuscito a mettere d’accordo tutti, portando una vera e propria eccitazione e di conseguenza una bella festa per un’intera settimana di repliche all’interno del Festival Castel dei Mondi.

Visto al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi 2011

Carlotta Tringali

 

Ad Andria si cena con Cuocolo e Bosetti

Recensione a The secret room – di IRAA Theatre

Completamente vestita di bianco, una signora elegante, dall’espressione molto dolce e raffinata apre la porta del suo appartamento, presentandosi con il suo nome di attrice, Roberta Bosetti. Stringe la mano al pubblico di The secret room, spettacolo arrivato al suo undicesimo anno di tournée mondiale e giunto anche al Festival Castel dei Mondi. Dieci sono gli spettatori che, piuttosto, potrebbero essere definiti partecipanti: creano subito una piccola comunità, si siedono a cena allo stesso tavolo preparato con cura da Roberta, dialogano in attesa che qualcosa accada. Ma mentre lo spettatore – come suggerisce la parola stessa – attende, il partecipante rende viva e significante una situazione.

IRAA Theatre – questo il nome della compagnia formata nel 1978 dal duo italo-australiano Renato Cuocolo e Roberta Bosetti nel 1978 a Roma, poi trasferitosi a Melbourne – rompe l’idea tradizionale di teatro scardinando i meccanismi interni che lo compongono.

The secret room non è una semplice pièce in cui ognuno conosce già il proprio ruolo, diventa quasi uno studio antropologico sul fare teatro. Tutto giocato al limite tra finzione e realtà, questo lavoro sembra quasi una seduta terapeutica dove le persone che non si conoscono – e il non conoscersi influisce maggiormente sulla riuscita dello spettacolo – si ritrovano a cena a conversare o ad ascoltare i movimenti interiori dell’anima dell’attrice. È lei a condurre il gioco/realtà e lo fa in maniera così convincente che i dieci partecipanti si lasciano andare al punto di ritrovarsi loro stessi a mettersi a nudo di fronte a degli sconosciuti, andando a scavare anche nel proprio vissuto e condividendo esperienze intime con chi si vede per la prima volta e probabilmente non si incontrerà più.

The secret room è meta-teatro all’ennesima potenza e soprattutto si nutre di un rapporto col pubblico che qui diventa comunità, ritornando alle origini della funzione teatrale.

Si può essere riservati e rimanere in ascolto o parlare proprio perché si percepisce un disagio: il regista Cuocolo e l’attrice Bosetti costruiscono un percorso con una traccia fissa ma che continuamente cambia, a seconda dell’interazione col pubblico/spettatori/partecipanti.
Curiosa è la reazione di queste dieci persone nella serata in cui abbiamo assistito: come se si dovessero sciogliere degli enigmi, continuamente alcuni di loro si chiedevano quale fosse il proprio ruolo nel gioco ma questo gioco – di cui non sveliamo i più intimi segreti e la storia personale raccontata dall’attrice – è risultato così veritiero agli occhi dei partecipanti al punto che all’uscita non si sapeva se applaudire o meno; il teatro ha compiuto la sua magia, facendo calare lo spettatore in una situazione dove il limite finzione-realtà è stato superato, arrivando dritto allo stomaco di chi ha partecipato.

Visto a Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi 2011

Carlotta Tringali

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Borgia mette in scena il teatro spietato di Tim Crouch

Sembra quasi non rimanga posto per gli attori. Entrando nella sala al secondo piano del Palazzo Ducale di Andria, sotto un soffitto affrescato, due piccole platee si guardano. Dopo qualche momento di attesa basta farsi due conti per capire che gli attori sono già in mezzo a noi, sono seduti tra di noi, anzi dall’ingresso del Palazzo Ducale si sono avviati con le maschere verso la piccola stanza mimetizzandosi nel gruppo di spettatori.

Spettatori e Attori. Soprattutto verso questi due poli della comunicazione teatrale si dirige lo sguardo del drammaturgo britannico Tim Crouch in The Author, messo in scena dal Teatro dei Borgia, compagnia operante anche nel circuito dei Teatri Abitati, tra Barletta e Corato. In realtà lo spettacolo ha debuttato a Trend, rassegna di nuova drammaturgia Britannica, organizzata da Rodolfo Di Giammarco al Teatro Belli di Roma. Difficilmente però Giampiero Borgia avrebbe trovato uno spazio migliore.

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Castel dei Mondi: riavvolgendo Pina Bausch

Recensione a Rewind – di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

Partire da Pina Bausch e restituirne dei ricordi frammentati come possono essere l’immagine delle sue braccia magre e lunghissime, l’attaccatura dei capelli raccolti, la sigaretta sempre accesa. Schiacciare il tasto play di memorie appartenenti alla collettività e allo stesso tempo imbevute di soggettività: un riavvolgimento di nastro continuo dove il pubblico ascolta la famosa pièce della Bausch Café Müller raccontata in scena da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, seduti davanti al loro piccolo schermo del computer a vederne il video.

È un vero e proprio Rewind come dice lo stesso titolo: ma è frantumato, interrotto; soprattutto è commentato dai due attori e mescolato a dei momenti della propria vita come fosse un punto di partenza per parlare di sé e mostrare la propria intimità. Nonostante siano pochi fortunati ad aver visto questo capolavoro di teatro-danza, dal vivo, Café Müller si è ugualmente sedimentato nel patrimonio di ricordi privati di ognuno, trasformandosi in emozione e confondendosi con sentimenti appartenenti al proprio Io.

Rewind non è solo uno spettacolo di “riavvolgimento”; è anche una destrutturazione dei meccanismi che regolano tempo, memorie e percezione del quotidiano. E così il quotidiano presente in Café Müller viene a tratti riproposto da Deflorian e Tagliarini, attori puntuali, “reali” e non personaggi di uno spettacolo; con grande ironia mostrano come le sedie, semplici oggetti di uso comune, possano acquistare un’aura quasi magica se appartenute alla Bausch.
Soprattutto regalano uno dei momenti più riusciti dello spettacolo dove le sedie danzano, protagoniste inanimate di una coreografia alla ricerca di un equilibrio precario mentre l’uomo quasi scompare. Questo lirismo è subito interrotto da un intermezzo comico – i due interpretano una serie di pazienti in attesa del dottore –, divertente stacco che riporta alla realtà e al ruolo quotidiano della sedia diventando però quasi uno strappo, un ripetersi di un concetto già approfondito inizialmente.

Data la natura intellettualistica dello spettacolo, Rewind andrebbe asciugato leggermente in alcuni punti per far meglio recepire al pubblico, senza annoiarsi, il contenuto di un lavoro che non punta all’emozione, quanto alla riflessione di questi meccanismi, proprio come gli spettacoli del coreografo francese Jérôme Bel – tanto amato quanto odiato – che attiva continui slittamenti di significato. Innescando continue rotture e facendo sviare su altri piani ciò che siamo abituati a vedere, o meglio a non vedere, Rewind rimane forse per un pubblico di nicchia, ma allo stesso tempo rappresenta uno spettacolo di respiro europeo.

Visto al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi 2011, Andria

Carlotta Tringali

Conversazioni dal winebar: Rewind di Tagliarini/Deflorian

foto di chrisbuster.org

In Rewind Antonio Tagliarini e Daria Deflorian guardano da dietro a un laptop il filmato dello storico spettacolo Café Müller di Pina Bausch (1978); un microfono puntato sul computer permette al pubblico di ascoltare. Il racconto del capolavoro è però interrotto dal vissuto dei due artisti.

Questa conversazione è nata spontaneamente in un wine bar di Andria subito dopo lo spettacolo di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian, Rewind, in un momento nel quale sentivamo la necessità di confrontarci “a caldo” sul lavoro messo in scena al Festival Castel Dei Mondi 2011 nel cortile del Palazzo Ducale. Il profumato vino della Puglia ha fatto il resto. Il registratore è sempre in tasca.

Si consiglia la degustazione con leggerezza rinunciando alla ricerca di illuminazioni critiche, lasciandosi invece andare all’intuizione notturna ed etilica dell’attimo.

Da accompagnare con un corposo Salice Salentino.

Andrea Pocosgnich/ Carlotta Tringali

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Iurilli incontra Bontempelli a Castel dei Mondi

Recensione a (a partire da) Minnie – di  Angela Iurilli

Al Festival Castel dei Mondi non sempre gli spettacoli vengono replicati, ma sempre si sovrappongono creando un puzzle di incastri per il quale pubblico, operatori e critici debbono freneticamente tuffarsi tra i vicoli andriesi per passare da una platea all’altra cercando di non perdere l’incipit di quello o il finale di quell’altro. In questo fitto programma bisogna saper scegliere, puntare sui cavalli giusti. Così nel mio terzo giorno di permanenza ad Andria, perseguendo con ostinazione la strada della curiosità per le esperienze locali – bisogna dirlo, non sempre felicissime – dopo improbabili Erodiadi di teatro-danza, Medee alla ricerca dell’agognato realismo contemporaneo e Libri Cuore dal sapore laboratoriale e giovanilistico, ecco un Bontempelli a cogliere il mio sguardo tra le pagine del programma.

L’ideatrice del lavoro è Angela Iurilli, artista due volte premio Scenario (1993-2005) che rivendica una formazione non accademica ma completata all’insegna della ricerca delle collaborazioni più stimolanti. Il suo curriculum, che dal teatro passa agilmente alla danza contemporanea, somiglia di più alla biografia di un animo cercatore, nomade, che negli anni si è lasciato ispirare da grandi maestri ma anche da incontri quasi fortuiti. Il risultato è l’eclettico percorso di una performer/autrice. La produzione è OrecchiAbili e Kismet Opera con il sostegno proprio di Castel dei Mondi, il testo da cui “partire” è Minnie la Candida di Massimo Bontempelli, scritto nel 1927.

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La furia di Fibre Parallele ad Andria

Recensione a Furie de Sanghe – di Fibre Parallele

Suscita una voluta repellenza la giovane compagnia Fibre Parallele portando in scena con Furie de Sanghe una fiaba nera distorta e allo stesso tempo ritratto allucinato di una famiglia barese dove violenza e aggressività contraddistinguono i rapporti interni. Un padre dallo sguardo fisso e maniacale, una zia-befana innamorata di un capitone vivo tenuto in un acquario e un nipote dalla voce stridula e dedito al gratta e vinci sono i personaggi di questa storia: il primo impatto è quello di voler allontanare le immagini così artificiali e allo stesso tempo esageratamente crude che si presentano al pubblico.

All’interno della loro tenda-casa i tre – interpretati rispettivamente da un sorprendente Corrado la Grasta, una convincente Sara Bevilacqua e dal fondatore della compagnia Riccardo Spagnulo – si scambiano battute in un dialetto duro, “mozzicato” e prepotente: non ci sono parole musicali, sembrano scagliarsi pietre verbali, schegge di vetro tagliente che si conficcano inconsapevolmente nel corpo e rimangono lì a provocare dolore. Anche le filastrocche, la ninnananna o la fiaba di Cappuccetto Rosso inserite intelligentemente nel testo scritto dallo stesso Spagnulo si tingono di nero e si riempiono di crudeltà: il lupo mangia la pecorella, si gioca con il mondo facendolo a pezzi, mentre la zia, una moderna strega di Hänsel e Gretel, esamina le rotondità della nuora (la stessa regista Licia Lanera) appena arrivata in famiglia.

Con atteggiamenti volgari espressi non tanto a parole ma da una gestualità e un modo di apparire (che qui coincide con lo stesso essere) esasperatamente sgradevole, questa donna diventa l’oggetto del desiderio più animalesco non solo di Vito, ma anche del padre: è in lui che scatta la Furie de Sanghe, ossia l’emorragia cerebrale accaduta proprio in un momento di violenza imposto alla nuora. L’operazione di Fibre Parallele si rende ancora più interessante perché tutto è volutamente posticcio: si ha una distorsione della realtà, pur rimanendo fortemente radicati in essa, quasi a scavare nella più bassa indole bestiale dell’uomo e dei rapporti tra loro; e da qui allo stesso tempo ci si allontana restituendo dei fotogrammi divertenti e orribili, così stranianti e forse per questo dotati di maggior effetto raccapricciante, come l’emorragia che si esplicita in un getto di sangue finto.

Ad amplificare il senso di allucinato viaggio dentro quest’atmosfera angosciante, in cui non ci si vorrebbe mai ritrovare, ci pensano due elementi che si intrecciano perfettamente: l’utilizzo delle partiture e degli esperimenti vocali di Demetrio Stratos e le luci di Vincent Longuemare, storico collaboratore del Teatro delle Albe – che le stesse Fibre ringraziano apertamente di cui è impossibile non sentirne la positiva influenza in Furie de Sanghe. Un lavoro completamente diverso rispetto ai precedenti Mangiami l’anima e poi sputala e 2.(DUE): resta da attendere solo un paio di giorni per vedere se con DURAMADRE – in prima nazionale al Festival di B.Motion il 3 settembre – ci sarà un ulteriore salto stilistico con una conseguente piacevole sorpresa.

Visto al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi 2011, Andria

Carlotta Tringali

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Castel dei Mondi 2011: visioni pittoriche e narrazioni salentine

Anagoor - foto di Carlo Bragagnolo

Altro giro altra corsa. Con l’autunno ancora lontano e l’estate in forze, si fugge ancora una volta da Roma, capitale afosa degli spiriti assopiti in ostaggio della solita estate romana, o almeno quella degli ultimi tempi. Quella dei Globe Theatre, dei fontanoni, del teatro da cartolina e ostaggio del sussidiario, fuori dal mondo e dal contemporaneo. “Me ne vado via da questa Roma…” cantava Remotti nella sua più famosa lirica, da questa estate tanto romana e poco teatrale in cui due o tre cose le salvi – il Festival del Pigneto, Il Festival Internazionale del Teatro Urbano e naturalmente Short Theatre – ma poco altro. Alcuni sono fuggiti verso il nord di Bassano, altri si sono dati il cambio e proprio dai piedi del Monte Grappa sono scesi ad Andria per accompagnarmi nella visione e nel racconto di questa seconda parte del Festival Castel dei Mondi 2011.
Seconda tranche di un festival che si inserisce perfettamente tra i bianchi e antichi palazzi del centro storico andriese, di una cittadina accogliente negli occhi e nei modi dei suoi abitanti, pulita e funzionante e soprattutto con un pubblico pronto a riempire le platee.

Sarà questo il refrain di una manifestazione guidata per il sesto anno da un direttore artistico, Riccardo Carbutti, arrivato a fine mandato con un futuro incerto per il cambio di colore politico nell’amministrazione comunale.

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Iancu di Koreja a Castel dei Mondi

Recensione a Iancu, un paese vuol dire Cantieri Teatrali Koreja

foto di Alessandro Saco

Si sposa bene con la città pugliese che ospita il Festival Castel dei Mondi lo spettacolo presentato da Cantieri Teatrali Koreja: il bianco dei mattoni e dei palazzi di Andria, le sue strade strette di ciottoli e il tanto pubblico presente nel cortile del Palazzo Ducale si intrecciano e si ritrovano per alcuni versi nell’immaginario ricreato da Iancu, un paese vuol dire. È come volgere lo sguardo indietro e rivedere facce, situazioni o accadimenti provenienti da un tempo lontano in questo racconto scritto da Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno: una giornata dell’agosto 1976 riportata dagli occhi innocenti di un bambino, qui metafora di un Paese fatto di tradizioni, di attaccamento religioso, di gente curiosa e grottesca e che riempie di colore quel cielo “iancu” di una cittadina del Sud Italia. «Un paese vuol dire non essere soli» afferma più volte in scena il brillante Fabrizio Saccomano, completamente vestito di bianco e seduto per tutto il tempo dello spettacolo su una sedia. Le peripezie di questo 22 agosto 1976 non vengono solo raccontate attraverso le parole, ma anche dalla viva espressività del protagonista, i cui occhi sembrano davvero curiosi e giocosi come quelli di un bambino mentre il suo corpo segue una gestualità caratteristica dell’entusiasmo infantile che risulta a volte troppo reiterata, enfatica e didascalica. Diretto da Salvatore Tramacere, Saccomano dà prova di grande bravura nel restituire i vari tratti dei personaggi incontrati durante il racconto, come Rosa Parata, una vera e propria “bocca di rosa” che ha salvato la città da «Li Polacchi» offrendo il suo corpo durante la guerra o le zitelle del Paese in gara tra loro per avere maggior visibilità in Chiesa. Sono immersi nel grottesco e ben delineati, ma anche loro, proprio come la gestualità dell’attore, sono eccessivamente calcati e più volte presentati al pubblico. Concorde con il fatto che sia tipico dei bambini ripetere delle caratteristiche che tornano come una cantilena derisoria, Iancu accumula però del materiale che potrebbe essere snellito in alcuni punti per far sì che non cali la tensione al racconto; come la divertente corsa dei ragazzini e di tutta la città dietro al bandito evaso che scende troppo nel dettaglio descrivendo chirurgicamente il percorso in bicicletta. Un percorso che regala comunque un’atmosfera piena di vivacità restituendo in pieno lo spirito di un paese dove, nonostante la crudezza di alcuni personaggi loschi, lo stare assieme trova ancora un senso. In un godibile linguaggio, un dialetto pugliese ben accessibile, Iancu entra a pieno titolo nel teatro di narrazione, dove ci si rivolge a una comunità consegnando dei ricordi significativi per far sì che questi facciano comprendere da dove veniamo e chi eravamo. Per creare una memoria dove tutto questo «iancu del cielo» non faccia «scappare la gente», ma la faccia tornare alla condivisione e al sentirsi parte di una comunità, seppur eccentrica.

Visto al Festival Internazionale di Andria Castel dei Mondi, Andria

Carlotta Tringali

Leggi anche Castel dei Mondi 2011: visioni pittoriche e narrazioni salentine di Andrea Pocosgnich (teatroecritica.net)

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