Che il teatro sia, essenzialmente, un’esperienza creata dall’attore e dallo spettatore è ormai un cliché. Lanciato dalle battaglie estetiche e politiche di inizio Novecento, fra sperimentazioni di uno spazio altro e agitazione politica; riveduto dalle neoavanguardie degli Anni ’60 e ’70 oltre i propri limiti fino all’animazione e declinato in chiave voyeuristica dal quel “ritorno all’ordine” sociopolitico in cui si inserisce la co-autorialità (in vero più interpretativo-intimistica che partecipativa) dell’arte postmoderna di fine secolo, questo principio si può considerare oggi croce e delizia di qualsiasi creazione spettacolare. È vero, pensando al teatro che si fa di questi tempi, che la ricerca emergente ha dimostrato con grande precisione ed efficacia di volersi nuovamente far carico del proprio doppio, ovvero del pubblico che ogni sera decide di impegnare qualche ora per recarsi a teatro – scelta che, di questi tempi anestetizzati dalla fruizione più individualizzata che si ricordi, torna a mostrare tutto il suo implicito politico e civile. Ne sono segni il ritorno del comico come i tentativi di reinserirsi nei dibattiti d’attualità, il riferimento a linguaggi e lingue quotidiani così come la profonda dimensione d’umanità di cui alcune creazioni contemporanee sono intrise. Ma è anche vero che la dimensione strettamente partecipativa, quella che intende chiamare in causa lo spettatore, sottolineandone direttamente l’apporto nella costruzione del fatto teatrale, è un po’ in crisi. Al Festival Contemporanea di Prato entrambe queste linee – quella emergente che accarezza e supera i confini del proprio presente e l’altra, dichiaratamente collaborativa – vanno a comporre, forse, uno degli orientamenti sotterranei che tengono insieme, concettualmente e concretamente, le specificità che animano i diversi appuntamenti in programma.
Nella sezione “Alveare” si trovano lavori nuovi o ancora in progress, creati da alcune delle più interessanti realtà del nuovo panorama performativo nazionale. Nella prima settimana (“Vol. 1”), quindici-venti minuti di Compagnia dello Scompiglio e Azul Teatro (Atto semplice), Pathosformel (An afternoon love), inQuanto teatro (Monstrum), Yael Karavan (Flesh).
Ci soffermiamo qualche momento su An afternoon love, che fra le performance viste nella serata sembra il lavoro più maturo, nonché capace di rilanciare la questione del rapporto fra il teatro e il proprio pubblico. Pathosformel ormai si concentra sul contributo autoriale che il pubblico offre alla dimensione performativa: se con La timidezza delle ossa si tessevano relazioni fra porzioni di corpo impresse su un grande fondale e in La più piccola distanza si inventavano storie su incontri e abbandoni di un gruppo di quadrati in movimento, in questo ultimo spettacolo il nodo è l’insolita coreografia che si sprigiona fra un giocatore di basket e il suo pallone. Il lavoro della compagnia sull’intervento co-autoriale del pubblico, tuttavia, sembra più tornare alle sperimentazioni iniziali che sviluppare i limiti interessanti toccati con La prima periferia: lì tre performer muovevano altrettanti modelli anatomici, intarsiando dispositivi di sproporzione capaci di mettere in crisi le aspettative e le linearità narrative del pubblico; qui, pur mantenendo una attenzione similare per i passaggi che presiedono il movimento umano e per i momenti che lo precedono e lo seguono, fra concentrazione nell’organizzazione del gesto e fatalità della contingenza, la cornice performativa rischia spesso di andare in pezzi: la collocazione iperrealistica e quotidiana dello spettacolo (l’allenamento di basket) sembra mettere a repentaglio lo spazio immaginativo riservato al pubblico, che potrebbe abbandonarsi alla “danza” agonistica senza intervenire con la propria autorialità a riassettare il senso dell’azione. Ovvero, diversamente da quanto accade all’interno di partiture drammaturgiche più astratte, che invocano direttamente una partecipazione interpretativo-emotiva, lo spettatore potrebbe, percependo l’azione nella sua precisa concretezza, ricadere in una fruizione passivo-voyeuristica, e seguirla appunto per quello che è: una sorta di allenamento sportivo. È evidente che la compagnia sta sviluppando, con coerenza e coraggio, una ricerca di tutto rilievo, il cui segno esemplare qui si trova, forse, nell’immissione della fatalità che il gesto subisce e nella rinuncia a dispositivi di protezione (protesi, si potrebbe dire) che, pur nell’affascinante magia teatrale che utilizzavano, hanno saputo indirizzare e guidare forse eccessivamente il processo interpretativo dello spettatore. Qui, in quello che si potrebbe considerare sì un esito spettacolare modesto rispetto ai precedenti lavori della compagnia, ma anche un’occasione interessante per rintracciare i nodi di una ricerca tutta in divenire, non c’è più nessun “paracadute” o protesi di sorta, ma quella che sembra un’ulteriore assunzione di responsabilità da parte della dimensione autoriale. Che fa sì un passo indietro, ritirandosi ancora di più dal controllo interpretativo del proprio lavoro; ma che allo stesso tempo implica e invoca, anche, estrema libertà di fruizione.
Ci sono poi in programma, tutti i giorni, eventi performativi che si concentrano sul coinvolgimento diretto del pubblico: il lavoro di Cuocolo-Bosetti (in programma con lo spettacolo-cena The secret room, in una casa privata, e la performance telefonica Theatre on a line) e i-Show di Katia Giuliani. In entrambi i casi non è possibile (né corretto) rivelare molto dello sviluppo drammaturgico, onde rovinare l’esperienza che gioca innanzitutto sull’effetto sorpresa. Diciamo che lavori come questi si impegnano a sottolineare, portandola sotto gli occhi di tutti, la necessità partecipativa di cui si costituisce l’evento teatrale, un’esperienza che coinvolge e trasforma parimenti – e non solo in lavori “estremi” come questi – tanto l’attore quanto lo spettatore, in un curioso specchio (e qui anche contaminazione) di ruoli inteso a far luce sui dispositivi fondanti il fatto teatrale.
Andare a conoscere il pubblico, per farlo interagire, partecipare e renderlo vero protagonista del fatto teatrale è una delle strategie d’azione di Contemporanea 2011 – Festival, si potrebbe pensare, la cui frequentazione si impone come appello civile, la cui idea si mostra nella quotidiana e minimale occasione di riscrittura del modo di fare cultura e di ricostruzione della comunità. Certo, intorno “soltanto” a un evento teatrale; ma in questi tempi di ristrettezza ed emarginazione, di gioco al ribasso e sopravvivenze a rischio, forse proprio dal teatro può ripartire non solo una denuncia ma soprattutto l’invenzione e la proposta di formule originali per fare e vivere in tutt’altro modo.
Roberta Ferraresi