festival teatrale santarcangelo

Rapimenti: per uno spettatore preciso

Phil Minton

Phil Minton

Fra i percorsi che avvicinano le diverse performance in programma nella 39° edizione del festival di Santarcangelo diretta da Chiara Guidi, si può trovare quello dell’attivazione dello spettatore.  Il suo sguardo è sottratto alla convenzionale autonomia di collocazione – e di giudizio! –nel nome, appunto, di un’enorme libertà interpretativa, per essere diretto verso una funzione estremamente precisa rispetto all’opera con cui si confronta: un’attivazione più di progetto che effettiva, non indipendente ma ordinata ed organizzata secondo le necessità della performance.
Forti di un’energia materializzata sulla scena e di una confidenza reciproca evidentemente solida, i trenta performer che Phil Minton ha riunito per il suo Feral Choir offrono al pubblico un’ora di sonorità travolgenti, che rapiscono orecchie e sguardi, per trasferirli in uno spazio e in corpi determinati dal suonare insieme. Con gli “strumenti-interpreti” in scena, anche il pubblico si avvicina a quello stato di funzionalità di questo esercizio onesto e chiuso in se stesso: se il direttore coordina le voci e i suoni degli “interpreti”, allo stesso modo dirige, di spalle e senza possibilità di scampo, anche la presenza del pubblico, il cui ascolto e sguardo sono sottratti ad una collocazione libera all’interno o all’esterno dell’opera.

Foto di Yoshimasa Kato

Foto di Yoshimasa Kato

Forma di vertigine al limite del rapimento, anche se di tutt’altro tipo, caratterizza White Lives on Speaker, di Yoshimasa Kato e Yuichi Ito: l’installazione proposta dal duo giapponese, un piccolo miracolo d’arte e di tecnica, prevede anch’essa una presenza ben precisa dello spettatore. In una sospensione dell’incredulità, di spazio e di tempo, il pubblico, ancora una volta scardinato dalla sua posizione tradizionale, è condotto a riempire l’opera con le proprie proiezioni, per identificarsi irrimediabilmente nella danza minuta che avviene davanti ai suoi occhi, allo scopo di offrire un senso – ossia di farsi immediatamente senso – per la performance.
E di rapimento – un meccanismo, qualche volta violento, di sottrazione al contesto, sospensione della realtà e immersione in un paradigma sconosciuto, in cui lo sguardo non può che essere alla mercé di chi lo orchestra ed è impedito a mutarsi successivamente, come accade di consueto, in interpretazione – si tratta anche nel caso di Slaughter House, film 3D di Zapruder filmmakersgroup. La pellicola si apre sulla scena di un pluri-omicidio domestico che è poi affrontato per frammenti di sequenze altre rispetto alla vicenda. Nella volontà di delegare libertà estrema allo sguardo del pubblico – che dovrebbe, come anche negli altri due spettacoli di cui sopra, costruire autonomamente una propria versione dell’opera – il percorso interpretativo è invece scandito, anche questa volta, senza scampo, dalla direzione che l’opera stessa impone, trasportando lo spettatore in un’esperienza estremamente rigida e trasformando l’avvolgenza dei media in coinvolgimento integrale, innanzitutto mentale. Anche in questo caso, dislocato in un contesto altro, con regole sconosciute e meccanismi di funzionamento inediti, lo spettatore è irrimediabilmente in balia di una direzione precisamente imposta dall’opera e non può fare altro che lasciarsi andare alle proiezioni previste, riempiendo di un senso di servizio le azioni che sente, senza avere tempo e modo di scegliere la propria collocazione rispetto all’opera, di formulare la propria presenza e di costruire la propria esperienza, in un annientamento dello sguardo in certi momenti davvero inquietante.

Roberta Ferraresi

Dispositivi animati

masque-teatro-la-macchina-di-kafka-1

Recensione di La macchina di KafkaMasque teatro

Tintinnii di bottiglie, una soave melodia composta in completa autonomia dai tasti di un pianoforte e il rumore seriale prodotto da un ago di una macchina da cucito: sono queste le sonorità teatrali che il gruppo Masque teatro ha portato a Santarcangelo 39, il noto festival delle arti sceniche diretto quest’anno da Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio.

La compagnia romagnola fondata tra Forlì e Cesena nel 1992 da Lorenzo Bazzocchi e Catia Gatelli pone un interessante tipo di conflitto nella sua ricerca sonora: tra macchina e corpo, tra suono meccanico e rumore prodotto dall’interazione di una figura con uno strumento. La macchina di Kafka reinterpreta in modo del tutto particolare la metamorfosi di un corpo che sembra subire una trasformazione ad ogni contatto con le corde di un pianoforte Disklavier. Il fisico di Eleonora Sedioli sembra privo di identità sessuale, non è riconducibile a una classificazione: si dimena, si solleva e si contorce; è sottoposto a continui spasmi, come se il movimento a scatti fosse controllato dall’esterno. I suoi muscoli suggeriscono l’avvento di una trasformazione, una modifica in qualcosa d’altro, in un essere informe.

L’atmosfera di inquietudine di quella stanza buia e poco illuminata della Celletta Zampeschi di Santarcangelo viene restituita dagli strumenti che prendono vita autonomamente: la macchina da cucito, il pianoforte e la credenza di bottiglie che inizia a vibrare. Il suono si autogenera mentre il corpo si trasforma senza seguire una propria volontà, costretto a una modificazione incontrollabile, a spasmi che si bloccano solo quando gli strumenti iniziano a produrre un sottofondo musicale. La macchina vince sul corpo, non è più quest’ultimo a controllare i dispositivi: rimane un senso di impotenza di fronte a un prodotto umano che sembra prendere il sopravvento, che ha un’essenza interna. Al centro della stanza rimane solo quel corpo, accartocciato, animalesco, irriconoscibile; un corpo-macchina privo di anima, vuoto. Mentre i dispositivi ritornano silenziosi nella loro posizione, di nuovo senza vita, in attesa che qualcuno li faccia suonare o che, semplicemente, li ascolti.

Visto nella Celletta Zampeschi, Santarcangelo 39

Carlotta Tringali