Recensione a Prometheus Landscape II – di Jan Fabre
Fuori dal tempo – attraversando tutte le pieghe in cui si sono annidate nei secoli le tante riattivazioni del mito – e, forse proprio per questo, decisamente nella più precisa attualità, si colloca Prometheus Landscape II di Jan Fabre, che torna all’eroe eschileo dopo più di vent’anni. Il concetto di nodo – ripetuto e rilanciato da ogni azione fra sofisticate tecniche di legatura – è al centro della nuova creazione dell’artista fiammingo, sì per un rigore filologico (dal Prometeo incatenato di Eschilo) ma anche a segnare il dispositivo compositivo e concettuale che ne è a fondamento.
Da un lato, la scena delocata, la cui struttura si sviluppa rizomaticamente fino ad abitare anche gli angoli più remoti del palcoscenico, è intessuta di sincronie e reciproci rimandi, in origine solo lievemente percettibili, poi sempre più segnati e palpabili. Concettualmente, il ‘nodo’ segna una corrispondenza fra l’eroe eschileo e la figura dell’artista, capace di offrire l’opportunità (il primo, col dono del fuoco, all’umanità; il secondo, attraverso l’arte stessa) di forme di conoscenza alternative.
Lo spettacolo è inaugurato da un prologo-manifesto (dello stesso Fabre) cui il regista affida il senso, l’urgenza di tornare proprio oggi al mito: «Where is our hero?» chiede decine di volte Ivana Jozic, esplorando tutte le possibili definizioni e i diversi ruoli della figura di Prometeo fra tradizione e attualità. A far da contrappunto, Gilles Polet: «Fuck you, Sigmund Freud!» e tutti i maestri di quella tradizione ermeneutica di matrice psicoanalista che la cultura occidentale ha voluto imporre come principio elettivo di decodifica.
Il sipario si apre, poi, su un Prometeo appeso a mezz’aria che, su un grande incrocio di corde, accoglie in silenzio tutte le visite previste – Cratos e Bia, il sibilo agghiacciante di Atena, la presenza vibratoria di Io, la partitura di risa di Hermes – dal testo eschileo, qui decostruito e ricomposto da Jeroen Olyslaegers la cui impostazione segue il verso biblico, in cerca della lingua divina che potrebbero parlare gli dei. In scena, davanti a una grande proiezione che ‘ustiona’ i profili del protagonista, si susseguono e si giustappongono continui slanci e blocchi dell’azione, in un climax che – pur arrischiandosi nelle trappole dei canoni dell’estetica postmoderna come ripetizione e differenza, un assedio di dualismi oppositivi, circolarità senza via d’uscita – conduce a far esplodere sia il nodo Prometeo-artista sia quello formale. Momenti di grande, efficace, bellezza – come, a livello visivo, il palco punteggiato d’asce (antincendio) a testa in giù e, in senso compositivo, il crinale presso cui i movimenti agitati degli attori si trasformano in passi di danza, piccoli assoli che si contagiano infine, per qualche brevissimo istante, in una coreografia collettiva – e altri di straniante accennata ironia (il fuoco qui non è permesso per motivi di sicurezza) accolgono tanto il talento magnetico degli attori-danzatori di Troubleyn che la figura di un eroe immobile, allo stesso tempo dominatore e vittima di quello che sta accadendo intorno.
E alla fine, la parola passa a Prometeo, che sembra essere posto a suscitare (nel mito quanto nella vita reale) nuovi eroi ribelli, nuove rivolte: «Io resisto», dice l’eroe, e «non c’è futuro, le possibilità sono infinite». Ed ecco che il decentramento della scena, così come la tessitura di rimandi e reciproche variazioni, si propone come una precisa indicazione di fruizione: a fronteggiare il razionalismo costitutivo di tanta ermeneutica occidentale, Prometeo-Fabre sembra invocare forme alternative di conoscenza e consentire ad ogni spettatore di seguire un proprio personalissimo itinerario attraverso il ‘landscape’ tracciato dal regista. In un mondo (performativo) in cui tutto è possibile, dove c’è un senso – anzi, spesso, più d’uno – in ogni segno scenico, anche il più minimo, è richiesto anche di perdersi nei profili seducenti della materia, fra blob di fumo densissimo e il vento che ne modella le volute. Abbandono e predisposizione trasformativa, più che decodifica e schematizzazione. O, come dice il protagonista stesso alla fine dello spettacolo: «Distruzione non istruzione». Ma, fuori dalle spire dell’ultimo Novecento, resta il dubbio se, al giorno d’oggi, sia proprio di distruzione che abbiamo ancora bisogno.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Negli ultimi anni festival e rassegne sono invasi da una forma piuttosto inedita di creazione teatrale, quella dello “studio”: vuoi per via della struttura di alcuni premi (Scenario sceglie i propri vincitori fra progetti di venti minuti che saranno sviluppati in un secondo momento), vuoi per il mutare della soglia di attenzione o per assecondare i nuovi modi di fruizione, sempre sotto l’egida dei modelli assorbiti dai nuovi mezzi di comunicazione. Spesso il pubblico si trova dunque di fronte a formati brevi, sempre in divenire, quando addirittura non a veri e propri materiali di lavoro ancora allo stadio embrionale. In questo modo le compagnie possono sottoporre pubblicamente le proprie idee, sperimentare e testare le reazioni degli spettatori, in vista dello spettacolo definitivo.
“Genealogie” è un percorso che Il Tamburo di Kattrin intende offrire agli spettatori di B.Motion 2011: molti degli spettacoli e degli artisti in programma sono già stati ospiti delle passate edizioni del Festival o hanno avuto, durante l’anno, la possibilità di lavorare a Bassano alle nuove creazioni. In questa sezione vengono ricostruiti i passaggi, fra presentazioni e diversi studi, che dalle prime fasi di lavoro hanno portato alla realizzazione dello spettacolo, andando a scoprire come i diversi artisti utilizzano questa possibilità e quanto essa diventi un’occasione di confronto capace di incidere sul processo creativo e sugli esiti del lavoro.
Anagoor, compagnia di Castelfranco Veneto ormai presenza fissa di OperaEstate da diversi anni, giunge all’esito conclusivo del progetto Fortuny dopo un lungo percorso di ricerca, espresso di fronte al pubblico attraverso diverse performance: la prima al Festival Contemporanea di Prato, seguita da quella di Drodesera e di B.Motion 2010, fino all’esperimento site-specific che ha avuto luogo questa primavera a Palazzo Fortuny di Venezia. A differenza di altre modalità di ricerca, in cui lo studio è colto come occasione per approfondire un percorso lineare, che volta per volta viene rilanciato dall’esito scenico in questione, sembra che Anagoor utilizzi questi momenti per dare vita a uno sguardo ampio, divorante dell’immaginario e della storia. “Rizomatico” è forse la definizione che meglio si potrebbe accostare a un simile processo di lavoro, in cui i singoli episodi, pur nutrendosi di reciproche persistenze, si propongono in una dimensione di consistente autonomia.
1/4: HOW MUCH FORTUNE CAN WE MAKE? (performance) Contemporanea Festival (Prato) – 28, 29, 30 e 31 maggio 2010
«Questa breve performance intreccia una relazione tra un giovane e l’immagine della Venezia antica che appare ne Il miracolo della Reliquia della Croce o L’esorcismo dell’indemoniato (The Healing of the Madman) una tela di Vittore Carpaccio. Il riconoscimento della vibrazione dolorosa sotterranea, interna all’opera d’arte, innesca un processo di deflagrazione della rappresentazione solare di una società che desidera vedersi rappresentata all’acme del proprio successo economico, politico e culturale».
Non essendo in grado di fornire qui un documento personale di questo primissimo approccio al progetto Fortuny, oltre alle parole della presentazione è possibile approfondire attraverso la rassegna stampa sul sito della compagnia.
2/4: WISH ME LUCK. (performance + videoinstallazione)
Drodesera Festival (Dro) – 23, 24, 25 luglio 2010
Fin dal titolo, questo episodio evoca la dimensione del viaggio: “augurami fortuna”. E si apre l’itinerario all’interno del progetto Fortuny. Tre performer (Pierantonio Bragagnolo, Moreno Callegari e Marco Menegoni − anche interpreti dello spettacolo definitivo) alle prese con una sorta di rito iniziatico: la Forgia della Centrale Fies è trasformata in un interno antico, che potrebbe essere la sala di un palazzo o forse un laboratorio d’alchimia. Dal buio affioraun video, scomposto in due schermi vicini come nel lavoro precedente Tempesta: dalle estetiche inquietanti, mostra i tre emergere dalle acque lagunari e poi vestirsi per avviarsi a una rivolta mai rivelata. A conclusione del video, si scopre che uno dei tre è in scena, seduto su un tavolo, in attesa; subito un altro richiamo a Tempesta: il performer si avvicina alla Giuditta di Giorgione − ma qui non si tratta di contemplazione, mentre l’attore, dopo aver accarezzato l’immagine con una lama, ne incide e scalfisce la superficie lasciando fuoriuscire una nuvola di polvere dorata. Anagoor sembra voler introdurre lo spettatore nel proprio laboratorio intorno al progetto Fortuny, fra rimandi allo studio precedente e nuovi slanci, persistenze della propria biografia artistica e una quantità/varietà di materiali ancora in stato di lavorazione. Lo spazio è oltremodo saturo, una pienezza frutto di una composizione ben calibrata: i tessuti di Fortuny e i dipinti, i video e le progressive apparizioni dei performer che affiorano dal buio; ma la densità di questa creazione, già espressa dal suo disegno spaziale, si trova soprattutto nella precisione tagliente, nella decisione delle partiture gestuali e in una tensione irriducibile che fa vibrare la scena fra immanenza e trasformazione.
3/4: CON LA VIRTÙ COME GUIDA E LA FORTUNA PER COMPAGNA (performance)
B.Motion (Bassano del Grappa) – 3, 4 settembre 2010
La performance di Bassano, terzo momento del progetto, è invece assolutamente priva di ambientazione scenografica, incastonata com’è nello spazio ellittico della Chiesetta dell’Angelo. Fa la sua apparizione una donna, completamente coperta d’oro: fra il fumo denso che pervade la scena e un soundscape estremamente materico, comincia a muoversi, come ad insegnare al gruppo di performer che la seguono la direzione e il tempo del percorso che andranno a intraprendere. Anche qui si impone il leitmotiv della preparazione al viaggio, con la progressiva vestizione e il lavarsi reciproco dei protagonisti − ulteriore dimensione presente in Tempesta (la preparazione del performer), fra disciplina e ripetizione, ascesa e fallimento, che forse può emergere come caratterizzante della ricerca della compagnia.
foto di Adriano Boscato
4/4: BALLO VENEZIA (insediamento performativo)
Palazzo Pesaro degli Orfei (Venezia) – 18, 19, 20 febbraio 2011
Questo “insediamento performativo”, ultimo passaggio prima dell’esposizione completa di Fortuny, si articola in diverse sessioni e approcci: al piano terra di Palazzo Pesaro degli Orfei (che fu abitato da Mariano Fortuny), l’installazione dei video già presenti nei precedenti episodi racconta tramite una tessitura vibrante della preparazione a una rivolta e rimanda alla distruzione delle gondole del 1507 ad opera di alcuni giovani veneziani. Dopo la video-installazione, che è una sorta di “prologo” capace di trasmettere una delle cifre ormai note della compagnia − quell’incontro mai garantito fra antico e contemporaneo − si accede alla performance vera e propria: la sala mantiene, seppur con un certo tentativo di sintesi, lo spessore dei tessuti di Fortuny, che qui trovano una precisa funzione scenica, mutandosi in progressivi sipari capaci di restituire un senso di stratificazione di segni ed emotività dalla qualità differente. I due schermi trovano posto su dei cavalletti da pittore, mostrando texture ipnotiche che poi si rivelano sculture mutilate, da intrecciare a malformazioni e deformazioni umane. La figura dorata di Con la virtù come guida rinfonde l’apprendimento di un moto a un gruppo di performer. Qui si innesta una variazione piuttosto singolare nel percorso del progetto: alzato un sipario, una schiera di figure femminili entra in scena ed entrambi i gruppi avviano una danza bidimensionale, che attraversa lo spazio in senso orizzontale, in una coreografia quasi di massa che sembra poter aprire nuovi sviluppi per il lavoro della compagnia.
Il soundscape materico lascia spazio, nell’ultimo momento della performance, ad una partitura di canti, eseguiti dal vivo al piano nobile del Palazzo.
Nel Ballo, allestito proprio in quegli spazi che furono laboratorio per Mariano Fortuny, si incontrano i segreti di una Venezia ferita (dal crollo del Campanile di San Marco in giù) e il labirinto di Teseo, imperfezioni e cangianze, la qualità luminosa della città e riferimenti estratti dal lavoro di Fortuny, segreti e rivelazioni − a comporre una performance che sembra porsi come manifesto di resistenza alle (non)politiche di un Paese che sempre meno si occupadel proprio patrimonio storico-culturale (e quindi, forse, del proprio domani), in un cortocircuito fra passato e futuro efficacemente evocato dal lavoro di Anagoor.
FORTUNY
debutto a Drodesera Festival (Dro, TN) – 28, 29 luglio 2011
visto a B.Motion (Bassano del Grappa) – 1 settembre 2011
La Fortuna incarnata da una figura femminile dorata che ricorda la “banderuola” di Punta della Dogana (Occasio di Bernardo Falconi che rappresenta proprio la fortuna) a insegnare la strada a dei performer che sembrano intraprendere un viaggio; i due monitor che presentano immagini di statue, Venezie trafitte e figure umane oggetto di mutilazioni; i tessuti di Mariano Fortuny a mo’ di sipari progressivi e il fumo che addensa la scena, la mummia, i dipinti e la cangianza dei corpi che svaporano ricoprendosi di glitter. E ancora la resistenza e la storia che riaccade, l’antico che incontra il moderno, l’apprendimento e la dimensione iniziatica, enigmatica. Sembra che Anagoor, nell’esito definitivo del progetto Fortuny, intenda far rientrare tutti gli (tanti degli) elementi incontrati lungo l’itinerario di indagine: in scena, infatti, si affiancano frammenti e squarci già intravvisti nelle performance che preludono allo spettacolo. Ma, estratti dal proprio contesto originario (quasi sempre gli interventi erano concepiti site-specific) e giustapposti, distillati in fermo-immagine da un percorso estremamente dinamico, sembrano più confondersi che partecipare a una composizione organica; forse è proprio la sottrazione dell’ambiente e il conseguente innesto in uno spazio neutrale (più vicino al non-luogo di Augé che alle raffinate collocazioni degli studi) a trasportare le azioni in una dimensione altra, fra l’impersonalità asettica, lo svaporamento dell’afflato filologico e l’affastellamento di idee. Sembra così che ognuno dei tre performer proceda all’interno di un proprio percorso conosciuto e definito (anche nelle situazioni più corali), facendo venir meno le linee di quella tensione che portavano a vibrare sia le partiture gestuali che i rapporti fra uomini e oggetti o immagini.
Di più, sembra che la compagnia si sia qui concentrata soprattutto sugli elementi residuali dalle performance di Drodesera e B.Motion 2010, privilegiandone i tratti costitutivi, mentre poco resta dell’efficace intervento a Palazzo Fortuny (dalla quantità dei performer coinvolti alla rarefazione iconografica, fino al rapporto con la storia, espresso là con particolare efficacia). Ma non è solo quest’ultima linea, che ha a che fare con la riappropriazione della storia (del passato e del futuro) in scena attraverso la performance − che sembrava di una pregnanza considerevole non solo nei termini di questo lavoro ma anche riuscendo a illuminare l’intera ricerca della compagnia − a mancare in Fortuny: anche la dimensione dell’apprendimento e dell’iniziazione (ulteriore elemento-chiave per il lavoro di Anagoor) è più accennata che sviluppata.
Si potrebbe ipotizzare che la compagnia si sia impegnata di più a risolvere un faticoso montaggio di spunti che ad esperire e trasmettere, com’è il suo solito e come si è visto nei diversi studi, un affondo progressivo nel materiale scenico. Gli episodi che precedono Fortuny erano infatti forti, da un lato, di una contestualizzazione ambientale che ne valorizzava la dimensione performativa e, dall’altro, di una concentrazione sorprendentemente eccessiva sui materiali che via via hanno caratterizzato la ricerca. Anzi, si può azzardare, quello che accadeva in scena e che magnetizzava l’attenzione del pubblico così come la tensione fra i performer, era proprio l’esposizione di una ricerca in atto, che dimostrava così tutta la propria instabilità, la propria urgenza, l’irriducibilità delle intenzioni; forse, in Fortuny, questa dimensione si è convertita in esito, andando a cristalizzare gli slanci interpretativi e ad omogeneizzare le relazioni fra i materiali.
Com’è bella l’acqua di un fiume, corre lungo una direzione che nessuno sguardo saprà mai contrastare: si potrà guardare controcorrente, ma lei continuerà a scorrere via; così bella è l’acqua del fiume, così bella che non te ne accorgi nemmeno di quanto la sua esistenza sia sempre intimamente connaturata alle terre che divide, ma senza mai dividerle davvero. Con Tommaso l’abbiamo percorse entrambe, correndo accanto a quell’acqua dal primo fino all’ultimo giorno di questo B.Motion 2011, abbiamo graffiato di passi e di parole la traccia sconnessa di lungofiume, abbiamo immaginato mondi calcandone altri,intrecciato tensioni ed ebbrezze che la scena ci consegnava a questo groviglio della natura, come se quel che accadeva in teatro dovessimo cercarlo altrove, negli spazi consegnati dalla bassa sotto il Monte Grappa, per davvero sentirli veri.
Un origami di John Wu: il leone, simbolo del coraggio
In questi festival c’è un momento estremamente vitale, imperdibile, che rinnova il senso dell’antica convivialità e ne restituisce il lontano valore di confronto come di confutazione. A quell’ora del mattino a colazione nell’Istituto Scalabrini di missionari per gli emigrati – alloggio straordinariamente promiscuo (artisti, critici, operatori…) di risate e notturne guerre acquatiche senza esclusione di colpi né rispetto di ruoli morti da tempo – scopriamo che gli emigrati siamo noi questi giorni, esuli dalle nostre vite solitarie giunti qui per condividerle con il pretesto del teatro, mai pretesto fu più opportuno dell’arte; lo sforzo più grande è cercare un angolino di gruppo in cui sedersi e cercare in quello del dirimpettaio il proprio sguardo ancora assonnato.
Città di Ebla - The dead (foto di Adriano Boscato)
A passeggio per un viale a mezza sera, con la vallata di fianco e le montagne quasi invisibili poco lontano, con solo qualche luce fioca che ne dice la fisicità imponente, mi trovo a ragionare con veemente sveltezza di pensiero e di passo con il direttore di questo B.Motion 2011 al quarto giorno, Carlo Mangolini, mentre ci rechiamo al Garage Nardini per vedere il lavoro ultimato di Anagoor dal titolo Fortuny, di cui altrove si darà conto; allora è un’altra percezione che mi cattura, quando scopro questi strani alberi buffi e simpatici lungo il viale, vicino al parapetto, tosati a forma di fungo; di questa buffa scoperta dico a Carlo, ma m’inchioda all’evidenza la mia percezione di superficie: lui mi invita a guardare meglio, sono gli alberi degli impiccati, dove i martiri della Resistenza hanno strozzato – ognuno a un albero diverso – l’ultimo respiro. Capisco oggi di più, quanto la prima vista sia fallace.
Stamattina promette pioggia, sopra le case, le chiese, la campagna laboriosa di questa Bassano di frontiera, paese di confine tra l’operosità e il silenzio. Acqua, tanta ne passa sotto i suoi ponti, a volte rischia di scendere dall’alto. È solo allora che ci si interroga sulla fragilità di certe coperture, sull’accessibilità dei ripari, sulla perentoria accortezza che ne limiti lo scroscio e l’intemperia. È questo il pensiero più accurato – e accorato – che scivola sotto gli altri e si va ad accovacciare dove la città gli regala il silenzio, dove può cercare in una riflessione che riannodi questi primi giorni di B.Motion 2011 e gli studi proposti dall’ultima generazione di Scenario 2011.
Abbiamo passato il primo giorno bassanese a immaginare, ascoltare, quasi voler misurare lo scorrere dell’acqua di qua e di là dal ponte, sul confine di due sponde che il Brenta tiene separate per soltanto non far credere agli uomini di poter tutto loro: puoi fare un ponte, mica unire le terre. Ma quel primo giorno a B.Motion 2011 era solo per prendere tempo, sapevamo già che poche ore dopo, in quel fiume, ci saremmo immersi tutti. E allora che immersione sia, nell’acqua e nel programma di questo festival che entra nel vivo, così da capire quanto di noi resterà asciutto, quanto si bagnerà a soltanto immaginare l’acqua, il teatro, sfiorarci la pelle.
All’inizio è soltanto un brusio poco lontano, si avverte dietro gli alberi e i tetti di tegole scoscese e diseguali che la natura e l’uomo gli hanno costruito intorno, disperde nel brulichio della sonorità ogni cosa gli suoni attorno, che siano sorrisi o tristezze, che siano voci o silenzio; subisce il fascino di una decadenza anche un fiume come il Brenta, cui s’inchina questa Bassano dal suo Ponte degli Alpini. All’inizio dunque è soltanto un brusio, soltanto dopo ti accorgi che scorre. L’anno passato proprio del ponte scoprivo quel tentativo di edificare a metà di un percorso, per non sentire la vertigine di una continuità destabilizzante, come facciamo da uomini per percepire di esserlo, oggi invece la vertigine passa per il sonoro e ben altro dice, la voce di questo fiume: con le braccia raccolte al parapetto di quel ponte, che si guardi all’origine o alla foce, lì sotto, la stessa acqua che scorre.
Conclusosi da pochi giorni Santarcangelo 41, Festival Internazionale del Teatro in Piazza, si riflette sulla sua natura duplice, ricercatrice di collettività e fratellanza e allo stesso tempo incline e sfumata all’intimità e alla solitudine. Nella piccola cittadina romagnola diversi erano gli spazi in cui lo spettatore poteva partecipare a un rito comunitario (si pensi a Eresia della felicità, splendido momento di aggregazione dove 200 ragazzi con una blusa gialla urlavano versi di Majakovskij guidati dal regista Marco Martinelli) o vivere un momento intimo, indossando delle cuffie e ritrovandosi in una dimensione privata a faccia a faccia con il proprio Io.
Tante le installazioni sparse per la città e in qualche modo indagatrici di un interno che spinge l’uomo a confrontarsi con se stesso e, perché no, a mettersi in gioco e condividere la propria intimità con degli sconosciuti. Si muove in questa direzione il video di Jérôme Bel – facente parte del percorso miniature all’interno del Festival – dal titolo Véronique Doisneau: un autoritratto della ballerina, sola su un palco che sta per abbandonare, ormai giunta alla fine della carriera all’interno dell’Opéra National di Parigi; non c’è alcun posto per le emozioni e lucidamente descrive i passaggi più importanti della passione che l’ha abitata, i sogni e le coreografie preferite: condivide con un pubblico folto, e rigorosamente immerso nel buio di un teatro, i momenti salienti della propria vita rendendo partecipe una intera comunità del suo percorso personale e individuale. Ma la razionalità “clinica” della Doisneau trasforma il privato in una lista dove le sensazioni esperite diventano distaccati oggetti di studio, tanto che l’intimità vien meno: la collettività ingloba la parte più nascosta e l’Io ne esce completamente annullato. Jérôme Bel indaga l’uomo nel particolare, lo scandaglia e lo costringe a mettersi a nudo trasformando così l’interiorità in esteriorità.
Singspiel di Ulla von Brandenburg
Verso una direzione contraria corre invece il video Singspiel di Ulla von Brandenburg, appartenente al progetto più ampio Intersection / Intimacy and Spectacle, sostenuto dal programma Cultura dell’Unione Europea, condiviso dalla Quadriennale di Praga e approdato insieme ad altri quattro lavori al Festival santarcangiolese. Come già il titolo suggerisce, c’è qui una dimensione di intimità e spettacolo, in un intreccio che lascia lo spettatore con la sensazione di aver condiviso il momento privato di una famiglia. In Singspiel si attraversa l’interno di un’architettura di Le Corbusier: un piano sequenza in bianco e nero mostra le diverse stanze della struttura, di aperture e interni, in una continua aspettativa delusa o accontentata, in cui il vuoto spaziale lascia posto a un riempimento frammentato; si passa a solitudini e momenti di aggregazione in cui alcune persone sedute attorno a un tavolo trasformano la colazione in un rito comunitario, mentre una dolce voce parla di un’assenza, di un dolore e di una colpa dimenticata. Singspiel accompagna dentro una delicata dimensione sospesa tra sogno e realtà, in un silenzio rotto solo da un canto amorevole in cui forse la sofferenza privata viene superata e si affronta solo restando all’interno di una comunità: nella parte finale del video, in un gioco meta-cinematografico, lo spettatore diventa a tutti gli effetti parte di quella famiglia, seduto sulle sue stesse sedie e in contemplazione di un corpo (forse quello mancante della canzone?), rivelato dal retro di una tenda che si scosta. Il rito del teatro si inserisce prepotentemente nel lavoro della tedesca Ulla von Brandenburg: le singole intimità entrano in contatto tra loro attraverso una dimensione di collettività; si vive un’esperienza comune pur continuando ad abitare un momento privato.
Mikado di Hans Rosenström
Sempre di Intersection fa parte una breve installazione, raffinata e originale: pensata per un individuo alla volta, Mikado dell’artista finlandese Hans Rosenström spiazza e sconvolge ma soprattutto mette lo spettatore faccia a faccia con se stesso, nel vero senso della parola. Si entra in una stanza vuota, arredata solamente da un tavolo con specchio, una sedia, una lampada e delle cuffie. Nella più completa solitudine, una volta seduti, si ha di fronte l’immagine di sé immersa nel nulla, in continua attesa che qualcosa accada. Dei passi arrivano da lontano e confondono la percezione, non si comprende più che cosa sia presente e cosa assente: una voce maschile estratta dal dialogo del film Sussurri e grida di Bergman conduce in maniera angosciante – tale è la precisione dell’installazione sonora e la cura della sua realizzazione – in una dimensione personale, in una “riflessione” (nella doppia accezione, fisica e letteraria) sul proprio cambiamento. Allo specchio si percepisce il proprio Io come qualcosa fuori dal sé, distaccato e collocato in una atemporalità mistica, lontana. Immersi in un’intimità silenziosa, ogni spettatore diventa protagonista di questa installazione attraverso le proprie paure, angosce e pensieri, riflessi risonanti nel vuoto della stanza ma anche nella profondità del proprio essere e dei propri fantasmi.
Se Bergman abita l’installazione Mikado, Ibsen si ritrova in Etiquette, lavoro del duo britannico Rotozaza formato da Ant Hampton e Silvia Mercuriali. Anche qui le cuffie diventano gli strumenti principali e suggeriscono ciò che lo spettatore, qui in qualità di attore, deve esperire. Due persone – meglio se fra loro sconosciute – vengono fatte accomodare a un tavolo una di fronte all’altro e, attraverso cuffie e ipod contenenti tracce di testi drammaturgici, devono eseguire indicazioni ben precise. Etiquette indaga alcuni meccanismi che coinvolgono direttamente il pubblico a cui viene sottratta la propria volontà e si fa interprete di parole altrui. Nonostante il lavoro si inceppi qualche volta, quando le parole da riferire a voce alta sono suggerite troppo velocemente dalla voce-guida, Etiquette è un gioco/non-gioco da sperimentare. Una piccola lavagna posta sopra al tavolino si trasforma in un palcoscenico dove delle pedine fanno le veci delle due persone sedute e interagiscono con dei gesti ben precisi, movimenti e frasi che escono dalla bocca degli “spett-attori”. Si crea un cortocircuito, dove il ponte che separa il pensiero dalle parole è ancora più arduo da attraversare: tra le due “sponde” un terzo soggetto si interpone e si ritrova inconsapevolmente a dar voce a ciò che sente per mezzo delle cuffie e a riferirlo all’altro che ha di fronte. Diventando interpreti di azioni e frasi indicate da una specie di super regista che guida tutto Etiquette, si sperimenta un momento intimo – nonostante si sia in un bar del centro di Santarcangelo fortemente esposto agli sguardi di chi passa – e si ritrova un particolare contatto con quelle parole scritte per personaggi con cui all’improvviso si può avere una giocosa e allo stesso tempo intrigante vicinanza.
Visto a Santarcangelo 41 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza