Giuseppe Battiston, classe ’68, nuovo ma già affermato volto del cinema italiano contemporaneo, nel 1999 vince il Premio David di Donatello e Ciak d’oro come Miglior attore non protagonista per il film Pane e Tulipani. Nel 2004, diretto ancora una volta da Silvio Soldini in Agata e la tempesta, conquista la nomination al David di Donatello come Miglior attore protagonista. È del 2005 la sua candidatura ai Nastri D’Argento come Miglior Attore non protagonista per l’interpretazione nel film La bestia nel cuore di Cristina Comencini. L’8 maggio del 2009 ottiene un nuovo David di Donatello come miglior attore non protagonista per il film Non pensarci diretto da Gianni Zanasi. In teatro collabora dal ’94 al ’98 con Alfonso Santagata e nel 1996 conquista il Premio Ubu come Miglior attore non protagonista in Petito Strenge; diretto da Claudio Moranti nel Riccardo III, collabora con varie realtà teatrali, tra cui il Teatro Mercadante di Napoli, il Teatro Metastasio di Prato, il CTB di e il Teatro Stabile del Friuli-Venezia-Giulia. Il 20 giugno è stato insignito del premio Hystrio-Mantova Festival.
Recensione a Il Sogno – reading di e con Roberto Citran
Scritto sul finire degli anni quaranta e pubblicato nel 1962, Sogno di una cosa è il romanzo d’esordio di Pier Paolo Pasolini, che in questo esperimento narrativo descrive, a suo modo, il mondo contadino friulano dell’immediato dopoguerra.
Roberto Citran, foto di Claudia Fabris
Protagonisti sono il “Lodo De Gasperi”, la ricerca di una vita migliore emigrando all’estero, i difficili rapporti tra i due sessi, le sagre di paese dove i ragazzi si incontrano e nascono nuove amicizie e le rivendicazioni nate al fine di far rispettare una legge che stabiliva rapporti di lavoro più equi tra proprietari terrieri e contadini, Roberto Citran porta queste situazioni in scena, facendo di Sogno di una cosa il testo da cui attingere per costruire uno spettacolo di teatro di narrazione. L’attore padovano racconta la storia di un gruppo di giovani amici che lotta contro la disoccupazione, vive le prime avventure amorose, inneggia al comunismo e non perde occasione per far festa. Un gruppo destinato a crescere, a prendere parte della propria spensieratezza, ad imbattersi negli oneri di una famiglia più o meno voluta, a scontrarsi con la pericolosità e la necessità di un lavoro che può finire con l’uccidere.
In scena solo un tavolo, due sedie e, in un angolo, illuminata, una bicicletta abbandonata. Sul tavolo una bottiglia e un bicchiere di vino. Vino che qui assurge a ruolo di collante sociale, simbolo della vita quotidiana colta nei suoi momenti più gioiosi ed elementari, come il bere e il mangiare, e di quell’aspetto di condivisione insito nella convivialità.
Mentre Citran narra le vicende di Eligio, Milio e Nini, sullo schermo alle sue spalle scorrono i video curati da Antonio Panzuto che si impongono come sfondo visivo, richiamo ai paesaggi friulani tanto amati da Pasolini. In dissolvenza incrociata si alternano immagini di lunghi fili d’erba ingialliti dal sole che ondeggiano al vento, verdi campagne delimitate dalle folte chiome degli alberi e ancora una bicicletta che percorre strade lastricate e sentieri dissestati, quasi a voler condurre il pubblico direttamente dentro la realtà di cui sta sentendo parlare.
Spettacolo ancora da rodare e tecnicamente da rafforzare, Il Sogno si presenta come un’anteprima sulla quale c’è ancora molto da lavorare. Forse cominciando da una riflessione sul perché scegliere oggi un testo come questo.
Recensione a La notte poco pirma della Foresta – Claudio Longhi
Lino Guanciale, foto di Andrea Cravotta
Piove. La situazione è quella dell’attesa, qualche chiacchiera, le sedie sparse qua e là: certamente questo spettacolo inizia in modo inusuale. Niente palco, niente spazio scenico, se non qualche vuoto tra le sedie del pubblico. La regia di Claudio Longhi inizia attraverso un’azione sullo spettatore, prima che sull’attore o sul testo. Una riflessione sullo spazio e sul contesto, indotta dal copione: La notte poco prima della Foresta, di B.Marie Koltès nasce come monologo ma ha la struttura di un dialogo, un lungo dialogo con un interlocutore che non risponde. A parlare è quello che si potrebbe definire uno straniero, un reietto – a dargli voce da Lino Guanciale. Abiti lisi, fradicio dalla testa ai piedi, questo altro, di cui non sappiamo nemmeno il nome, cerca di stabilire subito un rapporto. Si avvicina, guarda dritto negli occhi, chiede d’accendere, sfiora alcuni spettatori in un contatto diretto e spiazzate. Coinvolge e racconta il suo mondo fatto di camere d’albergo, puttane tristi, amori notturni su ponti di città, bulli “infighettati” attaccati alla gonna della mamma. Racconta quello che non è più il suo mondo: una città divisa in zone di lavoro settimanale, zone per il divertimento, la tristezza, per il sesso e per le chiacchiere, zone del venerdì sera. Il racconto disperato si trasforma in propaganda ideologica e teorizza la formazione di un Sindacato Internazionale di Difesa.
Un avvertimento ed una preghiera, tutto vomitato addosso in una prosa vertiginosa, priva di punteggiatura ferma, un discorso fluente e senza fiato. Un testo improntato sulla necessità di comunicare, rivolto ad un interlocutore che è sempre un Tu, singolo e collettivo, a cui denunciare e chiedere aiuto. Uno specchio agghiacciante della società contemporanea, che esprime l’intimo bisogno di trovare qualcuno a cui affidare quel che si ha di più segreto.
Il linguaggio, contemporaneo e tagliente, coinvolge e colpisce immediatamente. La regia è leggera, semplice ed efficace. Lavora sul testo dall’esterno, inizialmente, agendo sulla situazione e sullo spettatore, mettendolo nella condizione di spaesamento: questo avvicinamento diventa, così, inaspettato. In un secondo momento, il lavoro si sposta all’interno del testo, mettendo in scena la pioggia di cui tanto parla il protagonista: una pioggia che è più una doccia fredda, paradigma di ciò che spetta a chi contesta ed inveisce contro il sistema: «le colombe si alzano e volano sopra il fogliame, e i soldati sparano».
foto di Andrea Cravotta
Toccante performance di Lino Guanciale, la cui energia arriva dritta allo stomaco, colpisce e affonda per la verità e la credibilità del personaggio. A ricordare che stiamo assistendo ad uno spettacolo sono solo i piccoli inserti musicali che accompagnano la scena, accuratamente scelti ma forse inutili. Spettacolo semplice e ben riuscito, grazie ad un testo che riflette il rapporto tra attore e spettatore, un’ulteriore riflessione sulla necessità dell’uno verso l’altro, sulla necessità e importanza delle parole nella società odierna.
«…vedi compagno, io vorrei tanto una stanza, perché qui quello che voglio dirti, non te lo posso dire..»
Claudio Longhi, laureato in Letteratura Italiana presso l’Università di Bologna, insegna presso l’Università IUAV di Venezia e la Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Al lavoro di ricerca affianca l’impegno teatrale attivo lavorando non solo in qualità di assistente per Pier Luigi Pizzi, Graham Vick, Luca Ronconi e Eimuntas Nekrošius, ma anche come regista. Tra i più recenti spettacoli che portano la sua firma: La folle giornata o Il matrimonio di Figaro di Pierre-Augustin Carron de Beaumarchais, ‘cabaret filosofico’ Leopardi, Storie naturali di Edoardo Sanguineti, Edipo e la Sfinge di Hugo Von Hofmannsthal e La peste di Albert Camus.
Lino Guanciale, diplomatosi all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” nel 2003, da cui riceve l’anno successivo il Premio Gassman, ha lavorato con alcuni tra i più importanti registi e attori del panorama teatrale nazionale: Gigi Proietti (con il quale esordisce), Luca Ronconi, Franco Branciaroli, Warner Bentivegna, Massimo Popolizio, Umberto Orsini, Franca Nuti. Fin dagli inizi collabora stabilmente con il regista Claudio Longhi. Dal 2005 affianca all’impegno attoriale l’attività di insegnamento e divulgazione scientifico-teatrale negli istituti scolastici e nelle Università.
Recensione a La notte poco prima della foresta – Claudio Longhi / Mimesis
foto di Andrea Cravotta
Fatti accedere negli umidi ambienti sotterranei del Bastione Alicorno, gli spettatori giunti a vedere La notte poco prima della forestadi Bernard-Marie Koltès, prendono autonomamente una sedia e si dispongono a piacere all’interno dell’ambiente proposto. L’impronta registica di Claudio Longhi – che con questo spettacolo dà inizio al ‘Progetto Koltés’- è fin da subito d’impatto: il pubblico sedutoe in attesa, senza un palco cui convogliare gli sguardi, viene scosso da un incipit di rissa finito in una secchiata d’acqua lanciata addosso a colui che, ben presto, si capirà essere il protagonista. Il giovane ( interpretato da Lino Guanciale) prova a spiegare, raccontarsi, abbordare un pubblico incuriosito e stupito soprattutto di trovarsi immerso nelle sue elucubrazioni vaneggianti; lo strano ragazzo si rivolge loro faccia a faccia, in una vicinanza fisica inusuale rispetto agli spazi di fruizione teatrale tradizionali. Durante il racconto, alcuni spettatori diventano interlocutori privilegiati, occhi negli occhi con il protagonista, che , al contempo, si rivolge all’intero pubblico, che si sente , quindi, interamente coinvolto dietro al “tu” che gli rivolge il giovane.
Il luogo non è l’ambientazione prevista, infatti all’originario bar all’aperto del Bastione Santa Croce è stato preferito un ambiente chiuso – immune quindi dai pericoli del maltempo sempre in agguato. Probabilmente nell’atmosfera mondana di un luogo di ritrovo in cui il pubblico è riunito in situazione di convivialità comune, ma seduto a dei tavolini a creare unità indipendenti, la relazione con quest’individuo, così istintivamente invadente, avrebbe forse avuto maggiore impatto.
Il giovane è un individuo che appare instabile, a tratti infervorato e soprattutto rapito dalla necessità di esprimere ciò che ha dentro, ma che non riesce a dire fluidamente e completamente fino alla fine. Emerge il tema del “diverso”, – ancora una volta uno straniero non voluto – il tema dell’individualità incompresa, con un’attenzione politica al rapporto tra società e solitudini marginali che è insito nel testo scritto nel ’76 dal drammaturgo francese. Il brano, tanto divagante, vario, ma legato aripreseda stessi temi e fili conduttori, è in realtà un’unica lunga frase priva di punteggiatura, un flusso di pensieri che riesce a contenere al suo interno racconti, mondi, relazioni, ricordi, speranze.
Dell’intenso spettacolo rimane nella memoria lo sguardo di un ragazzo che ha sete di comunicare, che ha sete di incontro: i suoi occhi sono calamite imploranti, alla ricerca di agganciare attenzione, ascolto, amore. Indimenticabili la frenesia e il costante corpo fradicio dell’attore che – a puntuali riprese – subisce cariche d’acqua che gli impediscono di asciugarsi, riportandolo ad un costante stato di inzuppamento fresco da pioggia.
Recensione a Orson Welles’ roast – Giuseppe Battiston
foto di Andrea Cravotta
Dal fondo del tunnel centrale del Bastione Alicorno, con un sigaro in mano, in accappatoio e stivali neri, è apparso, ieri sera, con passo lento, Orson Welles. L’interpretazione di Giuseppe Battiston nel ruolo del genio del cinema, è stata così impeccabile ed esilarante che quasi si credeva in un ritorno del regista americano, tutto questo grazie al suo physique du rolé e all’impressionante somiglianza, ma soprattutto alla bravura nella costruzione di un personaggio efficace, irriverente e coerente. Ma, d’altronde, la “gente crede a tutto”, come Welles capì già negli anni ’30 e dimostrò con pericoloso sarcasmo con La guerra dei mondi: il finto notiziario radiofonico che, annunciando l’invasione da parte dei marziani, scatenò il panico negli Stati Uniti. Basta solo una melanzana con dei bastoncini a sostenerla, con la giusta illuminazione, per creare un Ufo.
Con Orson Welles’ Roast Giuseppe Battiston e Michele De Vita Conti, firmatario anche della regia, compongono un omaggio in forma di roast – arrosto: una sorta di ironico elogio per iperboli inflitto, nella tradizione anglosassone, alle persone importanti in occasione di celebrazioni che li vedono protagonisti. Lo spettacolo diventa, così, decisamente divertente, ironizzando sul buon appetito di Welles, sulla sua genialità, sulla sua carriera segnata da grandi successi e infiniti ostacoli. Ma lo sfottòlascia spesso il posto, in una drammaturgia perfettamente calibrata, alle parole stesse del poliedrico artista. E così, in una sorta di postuma rivincita, il regista di “Quarto Potere” può tornare sul suo percorso artistico per ricordare i grandi lavori, in teatro, alla radio e al cinema, che “solo pochi si ricordano”. Può raccontare i progetti autofinanziati partecipando, come attore, a produzioni commerciali – “Io facevo ruoli di merda per finanziare i miei progetti. Oggi gli attori fanno ruoli di merda e basta”. Fino ad urlare la sua poetica, l’idea che lo ha accompagnato per una vita intera, il suo statuto di avanguardista – nel senso profondo, vero, originale del termine: “la responsabilità dell’artista di essere consapevole di coltivare terreni mai coltivati”.
foto di Andrea Cravotta
Senza mai perdere la carica ironica a l’attenzione del pubblico – Battiston catalizza gli spettatori con una prestazione attoriale di altissimo livello -, lo spettacolo diviene uno dei migliori omaggi che si potesse fare a Orson Welles. Coerente con il personaggio, dall’acuto sarcasmo e la grande lungimiranza, viene evocato un ricordo senza nostalgia, tessuto un elogio senza lodi, sincero come se i due autori fossero amici di lunga data di questo “genio infinito e grandissimo cialtrone”.
Una meritatissima ovazione del pubblico chiude uno spettacolo che Welles stesso avrebbe sicuramente applaudito.
Un testo appartenente a una realtà lontana, ambientato nella campagna friulana del secondo dopoguerra, viene attraversato nei suoi punti salienti da un solo attore in scena: Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini torna con sfumature neorealiste nel libero adattamento teatrale di Roberto Citran.
La disposizione degli oggetti sul palco riporta alla povertà tipica di quegli anni successivi alla fine del conflitto mondiale: un tavolo con due sedie, una bottiglia di vino, due bicchieri e una bicicletta buttata in terra; tutti elementi che si ricollegano alla storia narrata da Citran, ma che sembrano troppo didascalici e scontati, non aggiungendo nessuna connotazione originale. L’attore-regista, seduto a quel tavolo, racconta la vicenda di tre amici che scelgono di emigrare verso la Jugoslavia durante la giovinezza per trovare lavoro. Aderendo alla ideologia comunista e sperando di trovare in quest’ultima ciò che nella propria patria non riuscivano ad avere, Nini, Eligio e Milio si ritrovano costretti a tornare a casa, perché consapevoli di essersi illusi e di aver trovato, oltre il confine, una realtà non lontana a quella friulana in termini di qualità della vita.
foto di Claudia Fabris
Citran non riesce a fare inserire lo spettatore nella trama del discorso, non coinvolge: racconta mantenendo sempre una certa distanza dalle vicende, non dona una propria vita alla storia, ma piuttosto sembra studiare un racconto strada facendo, con matita alla mano e appunti da consultare appoggiati sopra il tavolo. La stessa scelta di Cecilia – altro personaggio de Il sogno – giovane incapace di donarsi totalmente all’amore, decisa a farsi suora, e la prematura morte di Eligio sono snocciolate dal suo sguardo esterno come se fossero semplici parti di un racconto e niente più. È un teatro di narrazione troppo povero, non riesce a creare un ponte tra la parola detta e quella scritta; non rimanda a nessun collegamento tra la nostra quotidianità e il mondo contadino ormai scomparso, descritto in questo primo testo scritto da Pasolini.
Proiettato sullo sfondo, il video di Armando Panzuto accompagna Citran nel suo viaggio all’interno de Il sogno di una cosa: immagini di verdi paesaggi, spighe di grano e strade ghiaiose sono riprese con un effetto rallentato, da una bicicletta di cui si intravede solamente il manubrio.
Racconto, video e la insicura prova attoriale di Citran non riescono a far decollare l’entusiasmo dello spettatore, non lo lasciano ‘sognare’: il mondo arcaico del testo pasoliniano non viene rievocato e il pubblico si ritrova escluso da questo universo che non gli appartiene.
Recensione a IL CASTELLO DI HOLSTEBRO II – Julia Varley / Odin Teatret
“Non puoi tornare indietro, perché la vita ti incalza, come un grido senza fine” dice Julia Varley ne Il castello di Holstebro II, con la regia di Eugenio Barba – spettacolo originariamente del 1990, scritto e interpretato dall’attrice inglese. Ma forse il passato può restare accanto, come nel caso di Mister Peanut: la creatura con la testa di teschio con la quale l’attrice condivide da sempre la scena in questo spettacolo, e che ha caratterizzato il suo percorso con L’Odin.
Mr Peanut, in questo lavoro, è una presenza da lei inscindibile: ad inizio spettacolo l’attrice gli dà vita nascosta sotto le spoglie di un alto uomo – Morte in frac nero. Solo emergendone gradualmente se ne separa: srotola una gonna da sotto il panciotto, toglie i pantaloni lasciando apparire scarpe col tacco ed eleganti caviglie di donna. Da una graziosa danza dell’ibrido spettrale, ecco, spogliata anche della parte superiore del costume, nascere la protagonista. La relazione tra marionetta ed interprete è fondamentale, a tratti simbiotica, d’amore e tenerezza. I due protagonisti a volte dialogano, ma sono uniti: costume e corpo si fondono in un costante gioco di trasformazione tra i due personaggi che da stessa persona diventano amanti, poi madre e figlio, infine complici amici.
In un flusso di storie e brevi racconti che scorrono seguendo una sequenza apparentemente illogica, si sviluppa una narrazione composta di sogni, pensieri di una donna – bambina che racconta, balla e canta: dando vita a visioni, a spettri. Corpo e voce danno concretezza a queste immagini, ma al contempo nutrono le molte atmosfere oniriche di vibrazioni irreali e suggestive.
Con dolcezza e ironia, a tratti macabra, ma rimanendo candidamente ingenua, l’attrice riporta nuovamente in scena la forza delle immagini e dei suoni che vivono ne Il castello di Holstebro, mostrando a chi non la conosceva, la sua eleganza, pacatezza e la sua forte energia.
Julia Varley è nata a Londra nel 1954 e si è unita all’Odin Teatret di Eugenio Barba sin dal 1976. Oltre ad essere attrice, Varley è particolarmente attiva come regista, pedagoga, organizzatrice e autrice. Dal 1990 prende parte alla ideazione e organizzazione dell’ISTA-Scuola Internazionale di Antropologia teatrale. Sin dal 1986 prende parte al “Magdalena Project”, una rete di donne attive nel teatro contemporaneo. Julia Varley dirige anche il Festival Transit di Holstebro, è editrice di Open Page, magazine dedicato al lavoro femminile in teatro. Tra le sue pubblicazioni si ricordano Vento dell’ovest, romanzo e il recente Pietre d’acqua, taccuino di una attrice dell’Odin Teatret. Suoi articoli sono apparsi anche in «Mime Journal», «New Theatre Quarterly», «Teatro e Storia», «Conjunto», «Lapis» e «Màscara». Julia Varley è stata interprete dei maggiori spettacoli dell’Odin: dagli storici Anabasis, Il Milione, Le ceneri di Brecht, Il vangelo secondo Oxyrhincus, Talabot, Il Castello di Holstebro I e II, Nello scheletro della balena, Mythos, Ode al progresso, fino ai più recenti Il sogno di Andersen,
Don Giovanni all’Inferno, Ur-Hamlet. Come regista ha diretto lavori in Germania, Argentina, Giappone e Italia
(Il figlio di Gertrude, con Lorenzo Glejeses e Il gusto delle arance, con Gabriella Sacco). www.odinteatret.dk