festival teatro padova

Amarti m’affatica

Recensione a Tragedia tutta esteriorequotidiana.com

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foto di Claudia Fabris

Ho sentito qualcuno del pubblico dire che questo era lo spettacolo più assurdo visto negli ultimi dieci anni; dove assurdo sta per astratto, ironico e senza senso.
Due persone si guardano negli occhi per un’ora: potremmo descrivere così questo spettacolo. Questa affermazione potrebbe trasmettere un forte dubbio sulla riuscita teatrale dell’opera; ma è così, e funziona. Un uomo, una donna, vestiti di bianco, racchette da ping pong alla mano. Uno spazio – impossibile dire vuoto – bianco e asettico, un cubo di luce. Silenzio. Il primo impatto visivo è forte. È blu, è bianco, è nero: non si sa. Totale incapacità di definire l’immagine: è straniamento. Qualcosa di simile a quello che si prova davanti a Quadrato bianco su fondo bianco di Malevich, ma che assorbe e attira dentro, come il blu monocromo di Klein. Un dialogo, serrato e impersonale, racconta il triste consumarsi di due vite, legate, forse, ma certamente esauste, l’una dell’altra. Un ossimoro, che allontana e al contempo coinvolge; il pubblico ride al cinismo di alcune battute, e ne viene toccato proprio dall’apatia ricercata con cui si esprime questo lento sgretolarsi. La sensazione è quella d’uno stillicidio, violenza compressa, veleno, tacita esasperazione, un amore nato morto, un amore che affatica, che svuota dentro.
Prosegue questo gioco di ruoli, i due personaggi, racchette alla mano si passano “la palla” in attesa della prossima mossa, pronti al massacro: “colpiscimi ed io ti colpirò”. Tutto nella completa assenza, un bianco non bianco, non un inizio né una fine; forse senza senso. Tragedia tutta esteriore, invece, nasce dalla necessità di trovare un senso, di creare una forma che colpisca ancor prima del significato delle parole. Roberto Scappin e Paola Vannoni si dichiarano completamente senza radici «I nostri spettacoli erano politici e pieni di significato, risultavano pesanti. Abbiamo voluto togliere tutto, è stato un atto di rabbia, anche nei confronti del Teatro. Abbiamo pensato di fare una cosa totalmente inutile, priva di riferimenti. Il testo è nato cosi, da solo, stavamo anche venti minuti seduti in silenzio con davanti una telecamera». Inevitabile non pensare a Beckett, in particolare a Finale di partita, nella versione offerta da Franco Branciaroli: stessa luce, stesso bianco asettico. Certo, due esperienze diverse, forse assolutamente sconnesse. L’immaginario beckettiano è forte, nonostante gli artisti neghino ogni influenza esterna. “Senza radici”, ormai, è un concetto troppo astratto, per il teatro contemporaneo ormai lontano da qualunque tipo di derivazione, ma pur sempre ancorato ad un substrato dell’immaginario passato. Quotidiana.com ha dimostrato di saper stupire, di entusiasmare e trasmettere, proponendo il contrario, giocando perversamente sull’attrazione per il vuoto, che muove ogni essere umano, l’assenza, la crisi, l’apatia.

Camilla Toso

 

Nata speciale

Recensione a Una vita importante – Maria Sole Mansutti / Paolo Civati

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

“Signore, non farmi essere speciale. Volevo solo essere me stessa, ma me stessa era speciale”. Una battuta dello spettacolo Una vita importante, che sintetizza il personaggio protagonista del lavoro: Maria, la madre di Gesù. In una scena semicircolare, completamente bianca, un’intensa Maria Sole Mansutti racconta al pubblico una storia molto conosciuta, ma che la riscrittura di Paolo Civati riesce a rendere incredibilmente nuova. Attraverso i vangeli apocrifi, l’immaginazione e la bravura dell’interprete, quella che viene presentata è una Maria appena adolescente, piena di dubbi, speranze, fantasie per un futuro che non sa essere già stato stabilito.
Considerata un dono di Dio fin dal suo concepimento – i genitori per lungo tempo non riuscirono ad avere figli – questa bimba si ritrova, a soli tre anni, ad essere considerata speciale da tutti. Per lei non si può scegliere un marito qualunque, serve un segno divino che indichi l’uomo prescelto. E così Maria, elevata – o ridotta – ad icona da secoli, torna a mostrare il suo lato più umano e realistico, che è proprio quello che la rende una figura così speciale. Si dispera capricciosa, correndo in tondo, gesticolando con poco garbo – su una musica tutt’altro che sacra ma perfetta -, proprio come farebbe una semplice ragazza che vorrebbe una vita normale. La scena dell’annunciazione, poi, superato il momento di sorpresa alla notizie, Maria scoppia in una gioia sfrenata illuminata da una luce strobo per nulla dissacrante, ma, al contrario, esuberante e commovente allo stesso tempo. La Mansutti, inoltre, arricchisce il suo personaggio anche con il suo dialetto friulano, che carica la scena del parto di umanità ed umiltà, riportando il sacro momento ad una dimensione più intima e femminile.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Peccato, forse, per l’apparizione luminosa della croce sul finale, che scaraventa in pochi attimi i vangeli ufficiali sulla scena, ricordando il fin troppo conosciuto destino a cui Maria è predestinata.
Una vita importante si è rivelato, comunque, una vera sorpresa. Riuscire a rendere originale, divertente e commovente una storia che viene ripetuta da duemila anni non era impresa facile, ma Maria Sole Mansutti e Paolo Civati, con creatività, rigore e, forse, un po’ di incoscienza, sono assolutamente riusciti in questa interessante impresa.

Silvia Gatto

 

Libero arbitrio

Recensione a Il silenzio di Dio – progetto di Silvio Castiglioni, produzione Celesterosa e I Sacchi di Sabbia.

Silvio Castiglioni porta in scena Il silenzio di Dio, un progetto in due atti. Il primo, Casa d’altri, è tratto dall’omonimo racconto di Silvio D’Arzo, il secondo Domani ti farò bruciare è ispirato invece al capitolo Il grande inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij.
In scena solo tre microfoni ad asta e rigido, in piedi, vestita di lungo abito ecclesiastico, la figura di un eccessivamente alto prelato echeggia quella del vicario de La monaca di Monza rappresentata nel ’67 da Luchino Visconti. Da lassù, posizione privilegiata, il funzionario di Dio, consiglia, giudica o lascia correre, esercitando la sua professione di sacerdote in un piccolo paese di montagna. Tutto procede senza intoppi fino a quando una vecchietta lo pone di fronte a una domanda a cui egli non può rispondere: e se lei volesse uccidersi? Il tema del suicidio visto con gli occhi di un’anziana signora, stanca delle fatiche quotidiane e spaventata dal protrarsi della vecchiaia, cammino in salita verso la morte, ci appare qui in tutta la sua drammaticità.

Silvio Castiglioni, foto di Andrea Cravotta

Silvio Castiglioni, foto di Andrea Cravotta

Ad essa fa da contraltare lo spregiudicato cinismo di un demone, protagonista del pezzo successivo. Il seguace di Lucifero, intraprende una sagace invettiva contro Gesù Cristo accompagnata dalla comicità con cui cerca di gestire il prorpio corpo, dal fare legnoso, che gli sfugge continuamente. Lo accusa di aver abbandonato gli uomini a se stessi, di aver voluto dare loro la libertà, senza farsi carico del rischio che questa decisione comportava, d’aver deciso per loro ma senza conoscerli, perché se li avesse conosciuti avrebbe capito che, tanto deboli quanto sono, così agendo, li avrebbe condannati, non certo salvati. Ciò che facilmente accomuna i due testi è la mancanza di una risposta “dall’alto”, ma interessante è il loro accostamento anche nel momento in cui questo porta a rileggerli uno in funzione dell’altro. Ed è allora che ci si accorge di come entrambi facciano riflettere, partendo da presupposti diversi, principalmente su due aspetti.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Da una parte l’inadeguatezza della Chiesa e del mondo religioso, da sempre troppo distante dalla vita reale per comprenderne difficoltà ed esigenze, dall’altra il libero arbitrio, strumento che ci rende sì liberi di scegliere, ma che al tempo stesso ci incatena alla logica per la quale unici colpevoli dei nostri peccati saremo sempre e solo noi. Un’arma a doppio taglio che, rende decisamente ostico il rapporto tra umano e divino. Mirabile prova d’attore di Castiglioni che, sebbene parta sotto tono in entrambi i pezzi, poi recupera ritmo e riesce a catturare l’interesse degli spettatori, mostrando anche un’estrema capacità di controllo corporeo, tanto nella ricerca dell’immobilità in posizioni innaturali, quanto nella mimica contorta e nella gestualità scomposta, attentamente studiata, che caratterizzano la sua interpretazione del demone.

SaraFurlan

Il surreale vuoto dell’esistenza

Recensione di Tragedia tutta esteriorequotidiana.com

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Staticità, lentezza, specularità e vuoto: questi alcuni dei principali elementi di un lavoro fresco, surreale e raggelante. La giovane compagnia dei quotidiana.com crea un lavoro innovativo, che ritrova le sue radici nel teatro dell’assurdo beckettiano, ma che allo stesso tempo si spinge oltre, portando la sua assurdità alla deriva. Tragedia tutta esteriore propone un tipo di surrealismo imbevuto di insensata quotidianità, facendolo diventare la reale rappresentazione di una coppia ormai stanca, che non riesce a comunicare, ma che continua a provocarsi: proprio qui si consuma la tragedia. Un uomo e una donna seduti l’uno di fronte all’altra si sfidano, attendono immobili, si fissano e mai si sfiorano. Roberto Scappin e Paola Vannoni sono semplicemente loro stessi, non fanno una piega; sono bravissimi nel tenere i loro corpi immobili nella stessa posizione, o muoverli in maniera rallentata, in perfetta sincronia per alzarsi o per eseguire piccole gestualità prive di significato, che rendono la situazione ancora più straniante.
Ritorna in mente il film di Michael Haneke Funny Games, dove due giovani entrano in una casa con delle mazze da golf, vestiti rigorosamente di bianco, e giocano gratuitamente al massacro con i proprietari. In Tragedia tutta esteriore i protagonisti, immersi nelle luci fredde dei neon posti lungo la spoglia scena, hanno in mano due racchette da ping pong e dei vestiti candidi; ma non vi è nessuna violenza fisica tra di loro: niente è mostrato visivamente, l’accanimento verso l’altro è esclusivamente verbale, è presente nei loro dialoghi, nelle loro idee perverse, nelle parole dette e nelle domande poste che difficilmente trovano un filo conduttore tra di loro. Gli argomenti trattati spaziano tra diverse tematiche in modo del tutto casuale: si parla di un Dio single, di ritocchi estetici, di Divina Commedia, di categorie sociali privilegiate a cui porre delle punizioni, del proprio corpo come carne d’allevamento e della morte. E poi pause fatte di lunghi silenzi, mentre i due si guardano negli occhi, gelidamente, come se fossero pronti a sbranarsi l’un con l’altra.
Nonostante abbiano delle visioni opposte, riescono ad essere perfettamente speculari, alternando i loro dialoghi spesso ironici e divertenti a frammenti di pensieri ripetuti all’unisono: “Perché mi guardi negli occhi?/Perché tutto è bianco./ Perché mi guardi negli occhi?/ Perché tutto è nero.”
Esprimono il vuoto dell’esistenza, l’inutilità di condurre una vita dove non si è ‘diventati qualcuno’ o dove non si è capito il mondo. Ma come si può averlo compreso, quando è questo il primo ad essere pieno di contraddizioni e assurdità. La vita stessa è un paradosso e nel lavoro dei quotidiana.com essa diventa inutile, una ‘qualsiasi vita di nessuno’, dove la tragedia è della propria esistenza, internamente svuotata di significato.


Carlotta Tringali

L’uomo si fa uomo

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Le previsioni meteo, ieri, promettevano tempesta: i tre spettacoli in cartellone – Una vita importante, di Paolo Civati e con Maria Sole Mansutti; Tragedia tutta esteriore, di quotidiana.com; Il silenzio di Dio, di Silvio Castiglioni – sono stati tutti allestiti all’interno del Bastione Alicorno, con solo brevi intervalli tra le diverse rappresentazioni. Da questa piccola maratona teatrale è scaturita la serpeggiante sensazione di un filo conduttore che ha in qualche modo unito i tre angusti spazi del bastione, aprendo la possibilità – nonostante l’estrema diversità dei lavori – ad una riflessione più generale.
Lo sguardo, in assoluta coerenza con il tema del Festival, guarda al cielo, ma attraversa gli astri per cercare di vedere oltre: cosmologie che si allontanano dalla scienza per interrogare la religione. Se la Mansutti dipinge una Vergine Maria umanissima ed adolescente, i Quotidiana rompono i loro silenzi con le più disparate domande, tra cui alcune, irriverenti ed esilaranti nel loro straniante susseguirsi, sull’esistenza di Dio. Castiglioni, invece, affianca al monologo di un prete, senza parole di fronte una donna che vorrebbe suicidarsi, l’invettiva di un demone dietro cui si cela Il Grande Inquisitore di Dostoevskij.
Lavori che esternano un desiderio di un Dio più umano, credibile, vicino; un Dio con “i piedi per terra’”. In questo anno galileiano in molti sembrano volere puntare il telescopio sul pianeta Terra, anziché guardare all’universo e chiedersi cosa “move il sole e l’altre stelle”. Come se il mistero avesse ormai esaurito tutto il suo fascino, stanchi di un Dio che non risponde alle domande, che non si manifesta se non attraverso riti e catechesi ormai desueti e svuotati. Alla richiesta di elevarsi verso Dio, rinunciando a ciò che della natura umana ci tiene maggiormente ancorati al terreno, si potrebbe rispondere con una domanda: perché non scende, un po’ Dio verso di noi? Forse a lui costerebbe decisamente meno fatica. Ci si sentirebbe, così, meno soli. Una domanda appena sussurrata attraverso il sorriso splendido della Madre di Gesù della Mansutti, che si fa più esplicita nelle dissertazioni psuedoteologiche e ‘tutte esteriori’ di Roberto Scappin e Paola Vannoni, per essere, infine, urlata da Castiglioni.

Quello che viene dipinto è un uomo con le sue necessità più umane, vere, concrete. Un uomo spinto dalle contingenze a guardarsi intorno più che verso l’alto. Un uomo stanco di risposte insoddisfacenti, sermoni e paternali che trova nella libertà di dubitare la sua essenza, la sua forza, seppur, spesso, non la felicità.
Le alte guglie delle cattedrali gotiche non impressionano più, i discorsi alle finestre non convincono, anzi, spesso, risuonano troppo lontani dalla realtà, contro ogni bisogno umano. Il “mentire in maniera intelligente” ammesso con orgoglio dal Grande Inquisitore, rappresentante di un sistema tutt’oggi saldo e potente, forse è un po’ stato smascherato in questa ricerca di un uomo che assomigli un po’di più a se stesso. Un uomo che non si vuole più vergognare delle sue necessità più basse: vengono in mente dei versi di Bertolt Brecht, dalla sua Opera da tre soldi, che, con ironia, spiega questo concetto con sintetica semplicità:

Voi che alla retta via ci esortate
e ad evitare il fango del peccato
prima di tutto fateci mangiare
e poi parlate pure a perdifiato.
Voi che alla nostra ciccia tenete e al nostro onore,
date ascolto, sappiatelo, è così:
solo saziato l’uomo può farsi migliore!

Silvia Gatto

Videointervista a Marina Giacometti – Teatro Integrato

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=RfA3l1jn9ck[/youtube]

L’associazione Ottavo Giorno opera a Padova dal 1997 per realizzare progetti di teatro e danza che favoriscano l’integrazione di artisti diversamente abili sulla scena, attraverso una loro partecipazione diretta all’attività didattica e alla creazione artistica. Scopo di Ottavo Giorno è dare opportunità di espressione alle potenzialità creative di tutte le persone, nel pieno rispetto delle differenze.
Dal 2005 il Gruppo di Teatro Integrato diretto da Nicola Coppo e Marina Giacometti, è impegnato nella realizzazione di spettacoli e performance.

(dal Catalogo del Festival Teatri delle Mura)

L’invidia verso lo straniero

Recensione a Otello – Pantakin

Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Otello è il diverso, lo straniero venuto da un indefinito ‘oriente’ che, convertitosi al cristianesimo, nella Repubblica Veneta riveste un ruolo rispettabile (generale a capo di un esercito) ed è innamorato – ricambiato – della fanciulla più bella della città. Una posizione davvero invidiabile, soprattutto da chi è invece balbettante e in continua attesa di promozione: Iago, il quale, non riuscendo a trovare realizzazione, concentra le proprie energie al solo scopo di distruggere l”immigrato”.

Scegliere di mettere in scena l’Otello di Shakespeare oggi, sopratutto nel nord est d’Italia, dove più è concentrato un pensiero politico di diffidenza e ostilità verso l’altro – l’immigrato extracomunitario –  non può essere una scelta non consapevole. Infatti la compagnia Pantakin da Venezia sceglie, ad esempio, di citare le “ronde”, inneggiate assieme alla Lega dal vecchio veneziano Pantalone.
I livelli narrativi, infatti, sono molteplici: inizialmente il pubblico si scopre ad osservare una compagnia di comici dell’arte che scelgono di mettere in scena l’Otello. Ovviamente a modo loro, con Arlecchino e Pantalone a completare la cerchia dei personaggi shakespeariani.
Utilizzando un interessante e duttile struttura scenografica lignea (che ricorda un castello per bambini), con cambi di costumi e di scena a vista, prende vita la storia nella storia. In una ritmica narrazione non priva di interruzioni causate dagli stessi comici che, per un litigio o un commento, riportano a galla il livello sottocutaneo della rappresentazione. La finzione è esplicita: dall’uso delle maschere messe e tolte in continuazione, a quello della sentinella-fantoccio che ha il solo compito di essere uccisa e spostata, fino ai simbolici nastri rossi sventolati ad ogni pugnalata. È un teatro che vuol condividere, senza celarla, la dimensione ludica e pura della finzione, in una inesorabile e, a volte, crudele trasformazione in sempre nuovi personaggi, che a lungo andare rischia di rendere fantasma ogni attore.

foto di Claudia Fabris
foto di Claudia Fabris

Funziona il lavoro drammaturgico di Roberto Cuppone, che convince nel non facile compito di fondere storie e tradizioni teatrali differenti e riuscendo, al contempo, a rivolgersi al pubblico attuale. Le belle maschere di Stefano Perocco di Meduna e Roberto Ledda sono molto espressive, inquietanti e piene di fascino; i bei costumi di Licia Lucchese sono duttili e fiunzionali. Aiutato dall’innegabile magia del Bastione Santa Croce, lo spettacolo diretto da Michele Modesto Casarin convice e rapisce un pubblico divertito e sinceramente coinvolto che ringrazia di cuore gli abili attori e i caldi musicisti del gruppo Calicanto, che assieme a Roberto Kriscak hanno fatto risuonare il vento notturno di Padova.

Agnese Bellato

Videointervista a Massimiliano Civica

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Reatino, classe 1974, Massimiliano Civica è uno dei più giovani direttori artistici italiani. Dopo una laurea in Lettere, svolge un percorso formativo composito che passa dal teatro di ricerca (seminari in Danimarca presso l’Odin Teatret di Barba) alla scuola della tradizione italiana (si diploma in regia presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”) per poi compiere un apprendistato artigianale presso il Teatro della Tosse di Genova (a contatto con il sapere scenico di Lele Luzzati e la fantasia di Tonino Conte). Da queste esperienze elabora una visione del teatro che esalta il ruolo dell’attore, vero protagonista dell’evento teatrale. 
Prende parte come attore o regista alle produzioni di diversi teatri, come gli spettacoli di massa e all’aperto del Teatro della Tosse (I Persiani alla Fiumara, Gli Uccelli di Aristofane presso la Diga Foranea del porto di Genova; Pantagruele e Panurgo alla Palestra Liberty di Piazza Tommaseo, gli spettacoli estivi al Forte Sperone), gli spettacoli per ragazzi del Teatro del Piccione di Genova, gli eventi internazionali del Teatro Potlach di Fara Sabina nel Progetto Internazionale Città Invisibili. Tra i suoi spettacoli come regista la prima nazionale di Serenata di Slawomir Mrozek a Genova, il saggio di diploma dell’Accademia L’Arte d’Amare al Teatro Valle di Roma, lo spettacolo Un leggero malessere di Harold Pinter. Nel 2002 produce e dirige lo spettacolo Andromaca di Euripide, con Andrea Cosentino, cui fanno seguito Grand Guignol e La Parigina. Vince i premi Lo Straniero e Hystrio – Associazione Nazionale Critici Italiani, nel 2007, per la sua attività teatrale. Nello stesso anno affianca Tonino Conte alla direzione artistica della Tosse; il suo ultimo spettacolo, Il mercante di Venezia (prodotto dalla Fondazione Teatro Due di Parma), ha vinto il Premio Ubu 2008 come migliore regia.

(dal Catalogo del Festival Teatri delle Mura)

Mala Magna Grecia

Recensione a U Tingiutu – un Aiace di Calabria – Scena Verticale

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Aiace, Achille, Agamennone, Ulisse: questi i nomi dei protagonisti di U Tingiutu, di Scena Verticale, spettacolo andato in scena ieri sera al Bastione Alicorno in prima nazionale. Ma nessuna tragedia greca in versi accademicamente recitati: Dario De Luca, ideatore, drammaturgo e regista del lavoro, scaraventa l’antico mito Sofocleo nella Calabria corrosa dalla ‘ndrangheta. Sangue, onore e cocaina sono i veri protagonisti. Sgarri e vendette si susseguono all’interno di un’agenzia di pompe funebri che è anche sede di una cosca mafiosa.
La particolare costruzione drammaturgica, fortemente cinematografica – con un inizio in flashback e alcuni salti temporali -, accattiva il pubblico che – nonostante alcune difficoltà di incomprensione per l’uso del dialetto calabro – segue con trasporto questa ennesima storia di malavita. Pur intravedendola, perché, esclusa la prima scena, la quarta parete è chiusa per tutto lo spettacolo da tende veneziane. Questa tragedia moderna è sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ma in molti devono, o vogliono, far finta di non vedere. E così lo spettatore si ritrova come ‘al sicuro’ aldilà delle tende, lontano da quel mondo che non gli appartiene, ma non può non lasciarsi coinvolgere emotivamente. Forse un assaggio di quella maledizione che, scrive De Luca, «in Calabria si chiama “contiguità”. Quella cosa terribile che costringe onesti e disonesti, mafiosi e non mafiosi a vivere fianco a fianco».

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

In questo racconto, oltre alle efficaci musiche originali composte da Gianfranco De Franco e Gennaro “Mandara” de Rosa, una radio accompagna le truci vicende, cantando canzonette di Pupo, Vasco e Morandi. E proprio le prime battute di una canzone di Morandi – Un’anno d’amore – assumono improvvisamente, sull’immagine della strage finale, un significato altro, che spiazza: «uno: non tradirli mai, han fede in te» – come se fosse il primo, sacro, comandamento dei clan mafiosi.

Grazie anche ai suoi colleghi di scena (Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani) – tutti decisamente all’altezza dell’impresa con un’interpretazione autentica, De Luca costruisce, con una regia semplice e genuina, quasi un film neorelista. Un bel film, che punta la macchina da presa negli angoli più bui della terra calabra, mettendo a fuoco delle verità scomode che tutti sanno e tacciono. La tragedia, così, si svuota degli eroi per narrare le vicende di una Magna Grecia tristemente più attuale, vivente, straziata da omini che non hanno decisamente nulla di eroico.

Silvia Gatto

 

Videointervista a Chiara Guidi I parte

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=qtpsKtvLfig&feature=related[/youtube]

Chiara Guidi nasce a Cesena nel 1960. Laureata in Lettere Moderne, comincia l’attività teatrale durante gli anni del Liceo assieme ad alcuni amici, tra cui Romeo e Claudia Castellucci, con i quali fonda, nel 1981, la Socìetas Raffaello Sanzio. Si è occupata soprattutto del ritmo drammatico delle rappresentazioni e ha curato diverse regie. Il suo lavoro ha formato tutta la parte recitativa delle opere della Compagnia componendo, insegnando e seguendo il lavoro vocale e recitativo di ogni attore. Nell’ambito di un progetto triennale che la vede collaborare con Enrico Casagrande/Motus ed Ermanna Montanari/Teatro delle Albe, dal 3 al12 luglio 2009 dirigerà il Festival di Santarcangelo di Romagna.

(dal Catalogo del Festival Teatri delle Mura)