La figura geometrica di un quadrato incontra una sfera e intuisce, con sospetto, che possa esistere un mondo a tre dimensioni: alieno, inestricabile, inconcepibile. Tutto il racconto appartiene interamente a una terra piatta, e con perfetta coerenza descrive l’ambiente e la vita di esseri schiacciati che neanche immaginano un’altra dimensione. Il linguaggio ritrae un mondo complesso, formato da un meccanismo coerente che diventa oggetto di conoscenza: il mondo del piatto. L’assurdità di un mondo mai considerato, se non astrattamente, perché ritenuto monco, anzi impraticabile, è assorbita nella lucidità di una scrittura che descrive la realtà a due dimensioni.
recensione a Passaggio Urbano – associazione Ottavo Giorno
foto di Andrea Cravotta
Una dozzina di attori e i musicisti della Piccola Bottega Baltazar – contrabbasso, chitarra, 2 fisarmoniche e, per un attimo, un hang – creano un percorso nel centro storico di Padova, partendo da piazza Cavour per arrivare alle scalinate del Municipio. Il Gruppo Teatro Integrato è composto da ragazzi e ragazze abili e diversamente abili. In un gioco di improvvisazioni corporee alternate a coreografie prefissate, con il costante sostegno della musica, i silenziosi attori creano immagini di semplice e disarmante poeticità. Una coppia di innamorati si rincorre con un mazzo di fiori, un lento corteo lascia alle sue spalle bigliettini per chi li segue, un tango porta con garbo fino alla danza sui gradini, fatta di imitazioni e variazioni sulla medesima sequenza.
Si assiste al lavoro di questi attori, e lentamente si scopre come ogni corpo abbia un suo personalissimo modo di muoversi nello spazio. Quando il corpo è lasciato libero di esprimersi senza pregiudizi o tecniche prestabilite, non si può più parlare di abilità e disabilità, ma di pura unicità. Questo Passaggio Urbano, lungi da buonismi retorici, aggiunge al festival una piccola ma importante riflessione sul corpo scenico. Una teatralità insita nella presenza umana in scena, ed un’armonia del movimento raggiungibile per le più disparate e meno convenzionali vie di ricerca.
Yoshi Oida nasce in Giappone e, a soli 12 anni, muove i primi passi nel teatro Kyogen e nel teatro Noh (forme di teatro tradizionale giapponese). Nel 1968 incontra a Parigi Peter Brook e poco dopo entra a far parte del C.I.R.T. (Centre International de Recherche Théâtrale) creato dal regista inglese, diventandone uno degli elementi fondanti e partecipando a tutte le esperienze del Centro: dai celebri viaggi, alla maggior parte delle creazioni teatrali. È stato interprete di molti spettacoli di Brook: Orghast, The Conference of the birds, The Iks, The Mahabharata, La Tempête, The Man Who, Qui est là?, Tierno Bokar. Dal 1975 è anche regista e ha diretto numerosi spettacoli teatrali (Interrogations, The Tibetan Book of Deads, The Divine Comedy, Madame de Sade di Yukio Mishima, Finale di Partita di Samuel Beckett), di opera lirica (tra gli altri Nabucco di Giuseppe Verdi, Winterreise di Franz Schubert, Death in Venice di Benjamin Britten, Il mondo della luna di Joseph Haydn, Don Giovanni di Mozart) e di danza (LesBonnes tratto da Jean Genet con Ismael Ivo). Lavora costantemente alla riduzione drammaturgica e alla regia di testi e racconti provenienti dalla tradizione giapponese (Kayoï Komachi, The Story of Kantan e Han-Jo tratti da testi del teatro Noh, Fiori di Riso Fiori di Fango tratto da testi del Kyogen, The Hunting Gun, The Woman in the Dune da novelle giapponesi). Oida è anche attore cinematografico (I raccontidel cuscino di Peter Greenaway, The eyes of Asia di João Mario Grilo). Ha scritto e pubblicato L’attore fluttuante, L’attore invisibile e, recentemente, L’acteur rusé. Da decenni trasmette la sua esperienza teatrale con stage e seminari in tutto il mondo.
Recensione a Sade: opus contra naturam – regia di Enrico Frattaroli
Per incontrare il Marchese de Sade, sinistro ed, ormai, leggendario autore libertino, il pubblico dei Teatri delle Mura deve compiere una sorta di discesa agli inferi nell’antro buio e freddo del bastione Alicorno. Ad attenderli Enrico Frattaroli, regista e protagonista muto di questo lavoro, che, perfettamente calatosi nei panni del personaggio a cui ha dedicato una pentalogia, con agghiacciante disinvoltura ci guida nei meandri più oscuri della filosofia di Sade.
foto di Andrea Cravotta
Attraverso un crescendo di violenze ed abusi ad un rappresentante del clero (Galliano Mariani), il marchese prende voce grazie a due filosofi (Franco Mazzi, Anna Cianca) che, dissertando sulla natura umana, la religione ed il libero arbitrio, tessono in scena un discorso articolato e complesso. Con forza rivendicano il dispotismo nella lussuria come un’inclinazione naturale dell’uomo: non assecondarla sarebbe andare contro natura. Si scagliano contro chi emana leggi atte a vietare o correggere i gusti umani, contro la giustizia e le religioni, in nome di un ateismo elevato pericolosamente a nuova fede. Sembra, infatti, di assistere al sanguinario rito di una setta, che si erge a difensore della natura umana. Un credo che vede l’uomo naturalmente predisposto alla crudeltà, all’assassinio, al sopruso. L’umanità, la pietà, l’amore non sono innate nell’uomo: gli uomini sono sempre morti per le opinioni, fomentate da chi voleva spargimenti di sangue.
È infatti innegabile che immani crimini siano stati compiuti in nome di Dio o di alti ideali, come ci ricorda una ghigliottina – inquietante strumento per diffondere libertà, fratellanza ed umanità – nel macabro sarcasmo del finale. Ma il pensiero lucidamente esposto in scena si incrina di fronte a una presa di posizione priva di sfumature, che dipinge una natura umana abbietta e semplificata: de Sade generalizza il suo essere a tutta l’umanità. Il risultato è un enigma, l’uomo, che resta completamente irrisolto ed inafferrabile; nonostante i numerosi ragionamenti dedicategli nell’opera. Sade: opus contra naturam è un
foto di Andrea Cravotta
lavoro che può scandalizzare, indignare, interessare ma che non può passare inosservato. Non solo per la violenza sessuale crudamente mostrata in scena – senza esibizionismo ma con estrema coerenza con l’opera e la vita del Marchese – quanto per un cast che, tra immagini forti, sfrenate e complicata filosofia, non si risparmia mai, dando vita ad un lavoro di indubbia intensità.
Recensione a Sade: Opus contra naturam – regia di Enrico Frattaroli
L’uomo, per natura, desidera soddisfare delle necessità, tendendo ad essere egoista, ben lungi dall’istinto di occuparsi altruisticamente del prossimo. Nel mondo animale ne è una dimostrazione il cerchio della vita: lo stesso agnello ammetterebbe che il lupo deve mangiarlo, è naturale così come lo è la crudeltà e il piacere che se ne prova compiendola.
foto di Andrea Cravotta
Questi alcuni tra i concetti che Enrico Frattaroli ripropone con SADE: OPUS CONTRA NATURAM, Voyage en Italie, Padova. Tramite estratti dall’opera del Marchese de Sade, il regista propone un dialogo filosofico fuso ad un rituale di erotica e sadica tortura che ha al centro proprio l’uomo e i suoi desideri naturali, nella sua condizione di essere che non ha facoltà di autodeterminarsi, ma che è in balia di un’esistenza che si compie da sé, seguendo equilibri incomprensibili.
Il pubblico è coinvolto fin dal suo ingresso a questo rito, accolto da nude ancelle che sostengono candelabri e osservano imperturbabili gli spettatori cui è stato concesso di assistere. Dopo un primo e crudele assaggio di chi è Sade, dimostrato con il rapido incontro e truce assassinio di una fanciulla, viene portato in scena il principale oggetto e vittima della serata: un prete (Galliano Mariani). A dialogare tra loro e col pubblico, illustrando le teorie libertine – a volte con grande ironia – , sono i padroni di casa: i due filosofi (Franco Mazzi e Anna Cianca), che fungono da testimoni e spettatori a loro volta del rituale. Le discussioni e le azioni che seguono, prendono vita dal confronto tra le opposte ideologie di prete e filosofi. Il marchese – interpretato da Frattaroli – con tremenda volontà di dissacrare e ferire, soddisferà inesorabilmente ogni suo erotico, masochistico e sadico desiderio.
Davanti agli occhi dello spettatore vengono compiuti sia atti di indolore soddisfazione erotica (tramite i sensi di olfatto e gusto), e atti di intensa violenza condensati in immagini di innegabile impatto, attuate utilizzando strumenti di tortura o semplicemente mani e denti. Erotismo inflitto, agito su vittime impotenti o sulle consenzienti collaboratrici all’orgia, compiuti con cura e gustati dal marchese con pesato vigore. Tali azioni e dissertazioni appaiono capricci di nobili personaggi e del loro ospite che partecipa praticamente al loro filosofeggiare, ma senza mai esprimersi a parole. Agisce silenziosamente, concedendo solo un’aspra risata di compianto e disprezzo per l’umanità che lui, in quel momento, si ritrova letteralmente tra le mani.
Il Bastione Alicorno risponde perfettamente alla creazione di un’atmosfera da setta orgiastica, una cantina degli orrori che sembra abituata ad ospitare intime torture. Lo spazio è sfruttato totalmente (dal balcone, ai tre corridoi) scenografia composta dai numerosi candelabri e dagli oggetti di tortura. Il suono, frutto delle composizioni in midi-device di Enrico Venturini, è una componente suggestiva fondamentale che scandisce i ritmi rituali e puntualmente accompagna la dinamica delle tensioni che si animano in scena.
foto di Andrea Cravotta
È innegabile la volontà di sconvolgere lo spettatore, ogni tortura è agita con intento di raggiungere la verosimiglianza, senza allusioni o astrazioni. Il pubblico è conseguentemente scosso (alcuni spettatori abbandonano la sala a differenti ondate) o incredulo, forse alla ricerca di una distanza dalle scene cui assiste, cui non vuol credere, ma si ritrova immobile e impotente testimone. Unica ribellione, la possibilità – appunto – di andarsene.
A termine dal rituale-spettacolo, il pubblico rimanente si ritrova stranito e combattuto: si chiede se dovrebbe applaudire a termine di una tortura culminata in beffante omicidio e quindi se esprimere gratitudine, ammirazione e approvazione a termine di tali e forti atrocità. Ma, dopotutto, chi – meno empatico e sensibile – vede principalmente il compimento di una spettacolo teatrale, non può non riconoscere bravura e preparazione a bravi professionisti. Ecco l’applauso.
Recensione di Flatlandia – lettura drammatica e musicale di Chiara Guidi, Socìetas Raffaello Sanzio
Poco considerata come apertura verso possibilità altre, la voce umana può stupire con le sue numerose potenzialità di espressione e può ricreare uno spazio sonoro, dove ci si può immergere, scoprendo così nuove sensazioni, nuove strade che si possono percorrere con questo strumento che ci appartiene, perché insito nel nostro corpo. È una drammatizzazione sonora quella che Chiara Guidi ha proposto al pubblico del festival padovano; non una semplice lettura del testo di Edwin Abbott, Flatlandia, ma un’interpretazione vocale che riproduce timbri e varie sfumature di tonalità.
Chiara Guidi, foto di Andrea Cravotta
Storica fondatrice della compagnia Socìetas Raffaello Sanzio, la Guidi esplora con le sue doti artistiche un testo che per essere apprezzato ha bisogno della complicità e della fantasia del lettore o, in questo caso, dell’uditore. E durante lo spettacolo non è difficile entrare con la mente dentro Flatlandia, lasciandosi trasportare dall’atmosfera ricreata da questa grande artista, che dà vita a una vera e propria performance teatrale inusuale, facendo affiorare una narrazione nascosta. La storia di un quadrato, abitante della città bidimensionale di Flatlandia, che scopre nel suo percorso la tridimensionalità, è restituita attraverso grida, sussurri, cambi tonali. La Guidi partecipa, con una voce che diventa a tratti quasi piagnucolosa, alla malinconia del quadrato che non viene creduto dai suoi compagni, figure geometriche che preferiscono rimanere nella loro ignoranza bidimensionale, e non conoscere così la diversa possibilità della terza dimensione.
Marco Olivieri, curatore del suono, accompagna l’incredibile voce dell’artista e ricrea musiche d’eccezione riproducendo gli impercettibili suoni e crepitii, prodotti normalmente dalla bocca, che contribuiscono al processo di trasformazione del fiato in parola, come la salivazione o i piccoli schiocchi emessi dalla lingua nel suo sbattere contro il palato. Le musiche assordanti ed elettroniche che si alternano ai suoni propri dell’uomo o della natura – come lo sbattere d’ali dei pipistrelli – diventano fondamentali per amplificare la percezione e avvolgere lo spettatore in questa esperienza uditiva.
Recensione di Flatlandia – lettura drammatica e musicale di Chiara Guidi, Socìetas Raffaello Sanzio
di Chiara Guidi
Chiara Guidi, foto di Andrea Cravotta
In un luogo come i Bastioni Santa Croce, in cui lo spazio trasmette forte la sua tridimensionalità, stupisce ritrovarsi ad ascoltare il racconto di un paese bidimensionale come quello di Flatlandia, mondo inventato nel 1882 dal reverendo e pedagogo Edwin A. Abbott e oggi presentato, in prima regionale, da Chiara Guidi, fondatrice della Societas Raffaelo Sanzio.
L’attrice quasi nascosta dalla scrivania che troneggia al centro del palco, incanta lo spettatore con una lettura su universi altri, dalle diverse concezioni di spazio: dal Paese del Punto, a quello della Linea, a quello del Piano, su fino all’ancora ipotetica quarta dimensione. La narrazione è resa viva e vibrante dal continuo fluire di immagini di varia natura.
Immagini sonore di voce umana, che diventa molteplicità di voci, fatte sottili come le figure geometriche del testo, acute per gli esseri-segmento, o che si scoprono corpose quando escono dal solido del “Maestro sfera”, venuto dalla Spacelandia per rivelare al protagonista i misteri del mondo a tre dimensioni.
Ma la voce è anche parole, parole interrotte, ripetute, mangiate, fino a esprimere, nell’abbassamento del volume, la perdita delle certezze del proprio universo. Grida, sussurri, che si confondono nelle trame musicali di frammenti di opere liriche, di rumori di oggetti rotolanti nei cassetti della scrivania, di ticchettii di metronomo combinati con musiche ad alto volume che scandiscono e accelerano il ritmo dell’onirica conversazione tra il narratore e il re di Linelandia, il Regno delle Linee Rette.
L’oscurità dello spazio è rischiarata da semplici oggetti di luce: fogli luminosi, sfere, cubi colorati, echi concreti di visioni di mondi difficili da immaginare, giochi evanescenti di realtà continuamente messe in dubbio dall’esistenza di altre realtà. La creazione così rigorosa di un mondo bidimensionale scardina le fondamenta della percezione umana: se un paese piatto appare possibile e così straordinariamente razionale, qual è il valore di un corpo? Solo immaginandoci come esseri percipienti da un nuovo punto di vista, quello dell’occhio all’altezza di un piano di tavolino, riusciamo ad entrare in un’alterità che ci rivela a noi stessi.
Ed ecco che del nostro mondo non rimane che la parte più mentale, più piatta: le parole, veicoli di pensieri, che sembrano scintillare nel loro ultimo bagliore di precisione logica, prima di svanire nel fumo del vuoto, portatore di dubbio e del potere nascosto del non detto.
Se, come ha affermato Romeo Castellucci, altro fondatore della Socìetas, la bellezza si può liberare “solo in un incontro su terreno comune tra l’umano e il disumano”, Flatlandia ha sicuramente la forza di rivelarla, in tutta la sua fragilità e potenza.
Recensione a Il mercante di Venezia – regia di Massimiliano Civica
In un suggestivo ambiente decadente, un bastione dimenticato e trasformato in spazio teatrale dal Festival Teatri delle Mura, è andato in scena Il mercante di Venezia, spettacolo primo della ormai stimata rassegna padovana. Si inizia con essenzialità e parole, con un teatro ricercato, possibile da apprezzare solo per chi non ferma il suo giudizio al primo impatto, ma procede oltre, cercando di interrogarsi sul motivo che ha portato il giovane Massimiliano Civica a fare determinate scelte registiche. Dopo aver ottenuto con questolavoro il premio Ubu 2008 per la miglior regia, Civica approda tra le rovine medievali portando un teatro ridotto all’osso – o meglio, alla drammaturgia – invitando alla riflessione il numeroso pubblico presente.
foto di Andrea Cravotta
Nessuna scenografia, ma solo quattro sedie sul palco, dove gli attori silenziosamente e impassibilmente attendono il proprio turno con delle maschere sul volto, prima di alzarsi e interpretare la propria parte. Rappresentano semplicemente i personaggi principali del famoso testo shakespeariano: il generoso Antonio, cristiano che presta denaro ai suoi amici solo per altruismo, Bassanio, amato e soprattutto appoggiato da Antonio nell’impresa di conquistare e sposare la bella e sagace Porzia, regina di un regno inventato, e Shylock, l’ebreo usuraio che viene umiliato per infine perdere tutto e ritrovarsi solo, senza affetto né alcun bene materiale. Una trama fatta di vendette e di promesse, dove la felicità di coppie innamorate si contrappone alla solitudine degli sconfitti.
Il regista rietino propone una fedelissima drammaturgia, restituendo un testo che risulta perfetto nella sua purezza. Non vi è alcuna immedesimazione degli attori, la recitazione è svuotata di qualsiasi coinvolgimento emotivo. Civica sembra voler presentare uno Shakespeare gelido, senza anima; ma è proprio qui che spunta un paradosso: impossibile far suonare vuote le malinconiche e rassegnate parole di Shylock, quando nel suo celebre monologo si chiede se anche un ebreo non abbia occhi o non soffra come un qualsiasi altro uomo; impensabile rendere privi di dolcezza i versi recitati e sussurrati da Jessica, la figlia dello strozzino, scappata di casa per amoredi un cristiano, dopo aver rinnegato suo padre, sangue del suo sangue. Nelle battute finali del Mercante, quando i dialoghi racchiudono ogni tipo di dramma umano e forti sentimenti enunciati con parole che dilanierebbero qualsiasi anima, sembra quasi che gli stessi attori, Oscar De Summa, MirkoFeliziani e Angelo Romagnoli, fatichino nel trattenere il proprio pathos, cercando di mantenere la distanza e quell’essenzialità fortemente voluta. L’unica a non cambiare mai tonalità è Elena Borgogni, che si estrania totalmente, come fosse una marionetta, lasciando il suo sguardo perso nel vuoto.
Di fronte a un teatro paradossalmente freddo e distante, è il testo a uscirne vincitore: spicca tutta la poeticità piena di amara dolcezza di uno Shakespeare impossibile da mettere da parte, perché la sua scrittura piena di umanità non conosce tempo. Il mercante di Venezia acquista una forza incredibile, come se fosse elevato all’ennesima potenza: la nuda bellezza delle parole rapisce e conduce per mano verso un poetico e indefinito altrove.
Recensione a Il Mercante di Venezia – regia di Massimiliano Civica
foto di Andrea Cravotta
Parlando de Il Mercante di Venezia, il regista, Massimiliano Civica, lo paragona ad un enigma, e si domanda il perché si sia sempre convinti di dover trovare una risposta, perché è implicito che vi sia una soluzione. «L’enigma non è una domanda, ma una certificazione della realtà». Parte da qui l’interpretazione fedele del testo, nessuna riduzione o rilettura troppo drastica, se non la scelta di lasciare in scena solo quattro attori. Uno spazio vuoto, quattro sedie per quattro maschere. Inizia e finisce così, in totale semplicità, l’intenso intreccio della trama del Mercante. Quello a cui assiste lo spettatore è lo srotolarsi calmo di una spirale, lentamente si sciolgono i nodi e la storia procede. Le scelte dei pretendenti di Porzia (Elena Borgogni), a far punti d’ancoraggio e svolta, la ricerca della giustizia e la punizione finale a chiudere il cerchio. La lettura che ci propone Civica non lascia spazio al gioco dell’attore, ma lo scava fino al midollo, per renderlo completo servo del testo: mai visto un monologo di Shylock, (un impeccabile Oscar de Summa) recitato tutto d’un fiato, mai visto un attore non cedere alla tentazione della scenata. Ma è qui la chiave, dichiaratamente svelata, una recitazione che è una semplice constatazione della realtà, del testo questa volta. A primo impatto lascia a bocca asciutta, un po’ di stupore, forse uno strano senso di disorientamento. Ma poi si riflette ancora, perché in fondo questa essenzialità disarma. «Chi scrive semplice pensa complesso» ci ricorda Italo Calvino, non senza ragione. Forse avremmo voluto passione e rabbia, forse si era pronti a congiungersi a Shylock nel suo urlo di protesta, ma è arrivato altro; qualcosa di meno coinvolgente, ma di valore. Un’analisi minuziosa e pacata di meccanismi complessi, uno svelamento dei fatti lavato da ogni passione; ma la passione si insinua tra le parole più sussurrate, scivola tra le frasi dette così impersonalmente, mostrando la potenza di un testo magnifico e la maestria di William Shakespeare.
« È un Festival dedicato alla ricerca, al popolo degli scontenti, a coloro che non si accontentano mai di reinventare nuove forme e nuovi linguaggi, sempre pronti a sorprendere e a lasciarsi destabilizzare ».
Bastione Santa Croce
Queste le parole del Direttore artistico Andrea Porcheddu pronto a rivendicare una coerenza interna per il programma del festival che andrà in scena a Padova dal 14 al 24 Giugno. Numerose chiavi di lettura per questo evento in completa controtendenza rispetto all’ orientamento nazionale, caratterizzato da una sempre crescente corsa-ossessione verso la novità giovane. Teatri delle Mura guarda ai punti fermi, gli astri che da anni illuminano la via del teatro di ricerca e non solo. Nato da un iniziativa regionale e maturato negli anni, giunto alla sua quinta edizione quest’anno il festival si apre ad orizzonti Internazionali, ospitando alcuni tra i più importanti gruppi di ricerca teatrale europei.
Percorsi diversi, quindi: la ricerca con l’Odin Teatret di Eugenio Barba, il Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards, la Societas Raffaello Sanzio e Yoshi Oida. Conferenze, dimostrazioni di lavoro e laboratori trasformeranno la manifestazione in un vero e proprio osseravatorio, dove sarà possibile osservare ma anche essere osservati.
Ad inaugurare la rassegna saranno due interessanti riletture di Shakespeare, Il Mercante di Venezia di Massimiliano Civica (Premio Ubu 2009) e l’Amleto di Denis Fasolo, poi sarà la volta di Otello di Pantakin. Si guarda anche alle nuove drammaturgie, i giovani Babilonia Teatri, attivi da circa due anni ma già famosi a livello nazionale, la compagnia romana Accademia degli artefatti rivolta verso drammaturghi stranieri e i Quotidiana.com realtà emiliana emergente e interessante. Non ci si dimentica però del fervido sottosuolo veneto, delle compagnie che lo popolano e che rappresentano una realtà sveglia e attiva: i Carichi Sospesi compagnia di casa in continua crescita e TamTeatroMusica sempre attivo nel padovano con la sperimentazione tra linguaggi visivi e musicali. Non mancheranno sorprese e discussioni, arriva infatti a Padova lo stravolgente lavoro su De Sade di Enrico Frattaroli, ultima tappa di un viaggio tra le città visitate dal Marchese. A far da teatri naturali saranno i bastioni Alicorno e Santa Croce, ma oltre a questi due spazi caratteristici ci saranno anche altri spazi tradizionali quali il Teatro alle Maddalene, il Teatro Studio, il Teatro San Clemente e il Centro Culturale Altinate.
Edizione 2008
In dieci giorni piu di venti spettacoli e personaggi tra cui ancora il gruppo Motus, Claudio Longhi, Vitaliano Trevisan, Roberto Citran, tre laboratori, due dimostrazioni di lavoro, che renderanno Padova ancora più viva e attiva. A chiudere la manifestazione sarà un concerto di Giuliano Scabia e Mario Brunello.
Un programma ricco e stimolante, per l’anno di fine mandato del Direttore artistico Andrea Porcheddu, il quale chiude la conferenza stampa con una riflessione: «Abbiamo voluto dare un segno alla città, non limitarci a portare il teatro ai padovani, ma portare i padovani a teatro, perchè “fare teatro” ha ancora un senso, nonostante molti vogliano negarlo: è il senso profondo dell’incontro, dello scambio, dell’ascolto. Della parola che si fa arte ».