festival teatro radicondoli

Radicondoli – Serata del 1 Agosto

01/08/2010 Radicondoli, Festival Estate a Radicondoli. I commenti a caldo dei due spettacoli di ieri sera.

Passo di Ambra Senatore

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L’origine del mondo di Lucia Calamaro

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TIMEOUT – I Maestri pt.2

Per la seconda puntata di TIMEOUT – I Maestri, ecco cosa ci hanno detto Tommaso Taddei, Simone Nebbia, Alessandro Benvenuti, Fabio Biondi, Valentina Grazzini, Claudia Gelmi, Marianna Sassano, Michele di Mauro e Salvatore Tramacere.

Se vi siete persi la prima puntata, ricordiamo che TIMEOUT nasce in occasione del Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta e a maestri che sanno donare esperienza e saperi. TIMEOUT è un cronometro, una corsa alla risposta nel tentativo di sciogliere nodi e questioni del teatro di oggi e (ri)scoprire i punti di riferimento che dal passato ci muovono verso il futuro. Agli artisti che passano da Estate a Radicondoli chiediamo quindi: qual è/quale dovrebbe essere il ruolo della critica oggi? Quali sono stati/sono i tuoi/vostri Maestri? Il tutto in massimo 2 minuti a risposta!

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Corto circuito fra parole, musica e un re

Recensione a Enrico 4 Michele Di Mauro

«Chi è l’autore? – di Enrico 4, di Enrico IV, dell’immaginario collettivo che ci si può costruire intorno – Son trecento!». È proprio Michele Di Mauro, autore e interprete di Enrico 4, ad indicare, dalla scena, la pluralità in agguato nel suo spettacolo. Nelle Scuderie del Palazzo Comunale di Radicondoli è andato in scena questo monologo musicale all’origine del quale si trova l’Enrico IV di Pirandello, ma che si sviluppa poi secondo un montaggio del tutto personale di brani (teatrali, ma anche letterari, cinematografici, musicali) intorno al tema della follia del re. Del testo pirandelliano è trattenuto soltanto lo spunto, a mo’ di innesco, la vicenda che conduce Enrico alla pazzia: il protagonista, invitato a una festa in maschera, si traveste come il re inglese; in seguito a una caduta da cavallo, batte la testa e, al risveglio, crede di essere proprio il mitico personaggio. Di questo evento rimangono, in scena, poche parole strappate, un cavallino a dondolo di legno e la corona dorata che a volte Di Mauro indossa; oltre, naturalmente, agli occhi allucinati del performer, fissati in una follia senza ritorno. Di qui, un incipit che incornicia la performance, il pubblico è trascinato in un viaggio fra letteratura drammatica e poesia, rivista, cinema e musica: brandelli di testo dalla provenienza più varia si inseguono nell’interpretazione di Di Mauro, che procede per scatti e variazioni improvvise, acrobazie di senso, di tono, di intensità.

Foto di Omar Padilla

Ci sono le canzoni di Petrolini e Sentimento nuevo di Battiato, la scrittura spezzata di Heiner Müller e quella micidialmente lucida di Raymond Carver, e poi la poesia di Leopardi, e poi ancora un affastellamento di citazioni e affondi (testuali, ma anche tonali ed emotivi) di cui non è interamente possibile (né necessario) individuare l’origine. Insieme alla performance vocale di Di Mauro, il delicatissimo lavoro musicale di G.U.P. Alcaro, compositore che propone una partitura di rumori, voci, musiche che inseguono e precedono la follia del re. Lontano dal porsi a semplice intermezzo o commento della narrazione scenica, il tessuto musicale di Enrico 4 è vero e proprio performer (nel duplice senso di personaggio e di presenza che agisce in scena), alla pari dell’interprete tout court. Il dispositivo compositivo sembra fondarsi più su sperimentazioni di avvicinamento al cortocircuito che secondo schemi di montaggio, sia per quanto riguarda i rapporti fra parola e musica, sia all’interno della struttura narrativa. I passaggi fra un testo e l’altro sono sempre meno segnati, in un’interpretazione magmatica che intreccia, in un unico frammento, anche tre o quattro registri differenti, mentre può recuperare, in seguito, lo stesso andamento per più passaggi testuali. Il lavoro sulle sperimentazioni fonetiche acquisisce qualità tattili che vanno oltre la dimensione acustica e si riversano su altri contesti percettivi, modificando, ad esempio, lo spazio (che, prima claustrofobico, a tratti sembra materializzare l’ampiezza di una cattedrale).

Progressivamente i limiti fra i diversi territori drammaturgici e i percorsi di senso si sfilacciano, fino ad andare a comporre un mormorio continuo e delirante, una lingua che è musica, fra paradossi e allitterazioni, onomatopee e colpi di scena. Lo scollamento fra senso della drammaturgia e natura dell’interpretazione è sempre sottolineato, invocato, giocato e rimescolato. Modulazioni di voce che procedono per strappi, esplorazioni intorno al potere della macchina attoriale, un lavoro sulle varietà possibili della phoné sono gli elementi che fanno della performance di Di Mauro un’esperienza – innanzitutto sonora – travolgente, nonostante lo spettacolo sia composto per affondi che rischiano a volte la dispersione e mettano in difficoltà l’attenzione dello spettatore. Certo è, infatti, che il viaggio vorticoso di Di Mauro non si può seguire appieno: si entra e ci si allontana, si sprofonda e poi si esce di nuovo, pena l’intrappolamento nella follia del re – e le volte che accade lo spettacolo è spaventosamente efficace.

Oltre il leitmotiv della scrittura intorno alla pazzia, la drammaturgia di Enrico 4 mantiene e sviluppa un’altra radice del testo pirandelliano. Scritto alla fine del 1921, nel periodo del “teatro nel teatro” e proprio a ridosso di capolavori come i Sei personaggi, Enrico IV è un esperimento magistrale sulle relazioni (e le possibilità di confusione) fra realtà e finzione. Ed è proprio in questo contesto che emerge il lavoro drammaturgico e scenico di Michele Di Mauro – innanzitutto performer, ma a volte anche personaggio, cantante, attore, autore e forse, in qualche momento, se stesso – che è davvero difficile incastonare in limiti o identità, attoriali, drammaturgiche o culturali che siano.

Visto a Estate a Radicondoli

Roberta Ferraresi

Note a piè di presente

Recensione a GesuinoSimone Nebbia

Viviamo in tempi difficili. E questo si sa. Ma soprattutto ce lo diciamo da anni, forse da sempre. La lotta per un mondo più giusto non ha mai fine, non può trovare una soluzione conclusiva in una realtà che cambia e muta sempre più velocemente. Gli scenari non solo si modificano, ma trasmutano gli uni negli altri, ibridandosi senza mai congelarsi in un’immagine precisa. «La rivoluzione è permanente» — lo dicevano lo stesso Marx e Engels, e ancor prima di loro Trockij — non come millantano i contestatori di questi tempi che per darsi un’importanza e un tono si rifanno alle care vecchie rivoluzioni, “quelle che hanno cambiato la storia”. Definire una buona prassi rivoluzionaria costituisce forse un paradosso storico degno di riflessione. Simone Nebbia con il suo Gesuino porta sul palco questo scenario confuso, parte — purtroppo — di una generazione che la rivolta se la deve reinventare, ritagliandola tra gli attuali mezzi di comunicazione e le nuove strategie di strumentalizzazione delle masse, di qualunque estrazione sociale esse siano. Il palcoscenico si trasforma in un uno spazio apparentemente fuori dal tempo, complici le note della chitarra di Marco Lima e i testi dei brani cantati dallo stesso Nebbia. La storia di Gesuino è una storia che nasce dalla povertà, dalla mancanza di strumenti per sopravvivere in un mondo che non si sofferma ad osservare chi veramente non possiede nulla, se non ricordi attorno ai quali non si possono costruire pareti. Eppure Gesuino ama: ama camminare, ama gli oggetti che lo riconducono alla sua infanzia, soprattutto la musica. Una musica che è assenza di note nelle sue memorie, che è una statuina di un carillon rimasto senza involucro. Libero come quell’oggetto, Gesuino cammina, cammina, cammina sino a raggiungere un mondo fantastico, fatto di uomini con la testa di insetto e un castello di boriosi personaggi, raccolti attorno ad un re e ad una regina che ricordano i nostri più cari politici. Sì, proprio quelli che grazie a giornali e televisioni vogliono “starci vicini” anche se lontani dai nostri bisogni. Un mondo troppo reale, più reale di quello in cui viviamo. Ed è qui che Gesuino diviene parte della rivoluzione. Ma quale rivoluzione? Quella delle masse, il cui disordine presuppone comunque un personaggio che la controlli? O forse quella degli umili, che aspettano il momento più opportuno per far esplodere la rivolta? Gesuino cammina pazientemente, raggiunge l’Amore, dimensione fondamentale per guardare alla vita dalla giusta prospettiva. Ed è la sua pausa, sulle rive di un lago che sembra un mare, dialogando con quella  stessa statuina che gli teneva compagnia nella sua solitudine, che gli consente di osservare con distacco i fatti che si snodano di fronte a lui, costellati di sangue e prevaricazioni. La storia di Gesuino non si conclude con una rivolta vinta, ma con un nuovo inizio. Perché la rivoluzione «ti scoppia in faccia», improvvisamente.

Simone Nebbia solo apparentemente si spoglia dai suoi panni di critico teatrale per portare sulla scena la sua voce, divisa tra la narrazione e la canzone: una voce di protesta, un atto politico estremo che guarda al presente con  straordinaria lucidità, lasciando lo spettatore in una sospensione, in attesa che tutti i televisori si spengano liberandoci da ipocrite e false parole.

Visto a Estate a Radicondoli

Giulia Tirelli

Frankenstein tra scienza e realtà

 Recensione a Doctor FrankensteinCantieri Teatrali Koreja

 

foto di Omar Padilla

Una scena meticolosamente curata fin nei minimi particolari, un laboratorio tecnologico a metà tra l’ottocento e il tremila, attira lo sguardo dello spettatore che si perde tra gli ingranaggi di meccanismi sconosciuti e le teche in vetro ricolme di strumenti chirurgici e parti anatomiche. L’impatto visivo è decisamente  forte e colpisce anche l’occhio più disattento. È il laboratorio del Doctor Frankenstein, una rilettura del testo di Mary Shelley, messo in scena dai Cantieri Teatrali Koreja – storica compagnia pugliese che da dieci anni opera in Salento e che da qualche tempo si è costituita come Teatro Stabile di Innovazione, un passo importante per lo sviluppo della creatività in un territorio “bisognoso” di nuove risorse.

Francesco Niccolini rilegge il testo dell’autrice inglese ispirandosi ad altre saghe, da Blade Runner a Io, robot: la creatura nata dalla scienza che vuole riscattarsi e avere una vita vera è ormai ricorrente nel panorama fantascientifico. L’inumano che diventa umano, l’uomo che dipende da una macchina: tematiche che sfiorano le realtà più inquietanti della ricerca medica attuale. Il testo scorre in frammenti ripetuti, la stessa scena si replica con piccole varianti, in un loop claustrofobico che descrive un rapporto malato che non trova sviluppo o via d’uscita – il dottore che vuole uccidere la sua creatura e l’impossibilità di farlo. Fabrizio Saccomanno e Fabrizio Pugliese si spingono in un’interpretazione forte, recitano la strana coppia e lo fanno con una pratica attoriale precisa. Il mostro interpretato da Pugliese si distingue per una fisicità spinta da spasmi e tic, accompagnata da una voce tra il tenero e il diabolico, frutto di una psicologia malata.
Il rapporto che si stabilisce tra i due protagonisti è cristallino, ma forse meno chiaro è il percorso drammaturgico e lo scopodei contenuti. I voluti riferimenti all’attualità, ai recenti sviluppi in fatto di morte assistita e di ricerca genetica, rimangono solo accennati senza approfondire tematiche che arricchirebbero l’interessante chiave di lettura della regia, curata da Salvatore Tramacere e dallo stesso Pugliese. Forse l’attenzione all’immaginario fantascientifico sovrasta i rimandi alla realtà che scoloriscono, persi in secondo piano rispetto ad un impianto scenografico decisamente imponente.

Visto a Estate a Radicondoli

Camilla Toso

Radicondoli – Serata del 30 Luglio

30/07/2010 Festival Estate a Radicondoli. I commenti entusiasti dopo gli spettacoli di due giovani artisti, Simone Nebbia con Gesuino e Tommaso Taddei con Quanto mi piace uccidere.

Gesuino

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Quanto mi piace uccidere

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Intervista a Emiliano Bravi e Gabriele Rizza

Abbiamo incontrato il sindaco di Radicondoli Emiliano Bravi, il presidente dell’Associazione RadicondoliArte Paolo Radi e il direttore artistico Gabriele Rizza che insieme hanno contribuito alla riuscita della ventiquattresima edizione della rassegna. Qui di seguito alcune considerazioni sul rapporto con il territorio, la nascita dell’associazione e le linee principali di questa edizione di Estate a Radicondoli.

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Trappole di parole

Tommaso Taddei

La lingua di Quanto mi piace uccidere… all’inizio è quella sinuosa, liscia, insidiosa della politica, incarnata nei ringraziamenti di un giovane neo-eletto ai propri cittadini: in una parlata che alterna pacatezza e slanci passionari, ammiccamenti e scatti d’ira, si susseguono tanti cliché che caratterizzano la retorica politica contemporanea, dai classici richiami alla patria e alla famiglia, a stratagemmi che invocano ai valori tradizionali dell’amore e dell’uguaglianza. Parole che scivolano e fanno scivolare, incarnate nella precisa gestualità di Tommaso Taddei; convince, quasi, di essere una possibilità di riscatto o una svolta o almeno una speranza di miglioramento per i suoi elettori (e spettatori). Poi il linguaggio si fa più duro, più esatto nella sua tenerezza e atrocità – quando si scopre che l’acclamato e benvoluto giovane politico, ovviamente anche industriale di successo, è un efferato omicida, iniziato ai crimini più atroci in tenera età. Qui le tonalità morbide degli affetti d’infanzia (amore materno, giochi, animali domestici) sono sapientemente intrecciate con i dettagli più macabri, raffinatezze culinarie con immagini di una violenza inaudita. Da piccolo, il protagonista è stato iniziato alla violenza in famiglia, uccidendo prima i gattini di cui si era preso cura, poi arrostiti sotto la guida esperta della madre, poi cuocendo il cadavere della madre stessa e quello del padre, per passare infine al vero e proprio omicidio seriale, in un crescendo di violenza, orrore e follia.
Con il volto ormai deformato in una maschera di ferocia, la voce di Taddei tende lunghe frasi micidiali e incalzanti, quasi a restare senza fiato: lo spettacolo diventa un fiume di emozioni (docili, tremende, dolorose – tutte insieme), con momenti di straordinaria poesia che travolgono il senso inconcepibilmente crudo delle vicende.
Un progressivo crescendo (di lirismo e ferocia) rapisce lo spettatore attraverso la lingua poetica, travolgente, di Virginio Liberti (autore e regista di Quanto mi piace uccidere…) e l’interpretazione calibratissima di Tommaso Taddei che, insieme, tracciano un inquietante ritratto per contrasti, in cui è poi difficile andare ad identificare i propri limiti e le origini delle proprie prospettive. Carezze e perversione, vaporosità e sprofondamento, lirismo e follia sono elementi che accompagnano tutto lo sviluppo dello spettacolo: presenti fin dall’inizio – in cui sono lievemente imposti, con pacata eleganza, nella retorica politica più convenzionale – vengono poi assaporati ed esplorati per gradi nei primi momenti dei ricordi d’infanzia, attraverso mutamenti d’intensità minimi e progressivi, fino ad una lacerazione che fa a brandelli i confini dell’orrore, della presenza e dell’identità. La discesa nell’abisso è impostata secondo ritmi talmente lievi e impercettibili, attraverso contrasti così organici (di senso, di voce, di mimica) che si intrecciano, crescendo assieme, lungo tutto lo spettacolo che quando lo spettatore si rende conto di trovarsi di fronte non ad una promessa della politica ma ad uno spietato serial killer con la passione per il cannibalismo è troppo tardi per tirarsi indietro. Il coinvolgimento, che smuove al ripugnante e allo stesso tempo invoca all’immedesimazione, è magistralmente preparato dalla scrittura di Liberti e dall’interpretazione di Taddei, che colgono la partecipazione dello spettatore in un ambiguo sprofondamento individuale all’interno del tessuto dello spettacolo: quando si desidererebbe allontanarsi dalle efferatezze del protagonista, farsi da parte, fuggire forse, la trappola di parole e voce, di espressioni e immagini, è già scattata da un pezzo.

Roberta Ferraresi

Visto a Estate a Radicondoli

La comicità di Benvenuti

Foto di Omar Padilla

Secondo Emerson – studioso che tentò di perfezionare la teoria aristotelica del comico – se si separasse qualunque oggetto o uomo dalla connessione delle/alle cose e li si contemplasse singolarmente, tutt’a un tratto diverrebbero comici. Prendete un uomo, la vita di un uomo e raccontatene gli aneddoti più tristi senza il minimo segno di compianto, ma con un certo ritmo ed un accento familiare, scandendola in rime e raccontandola come fosse un film; e vedrete che anche la più tragica vita si trasformerà in commedia. Fatelo in un luogo sicuro, dove è certo che ciò che state raccontando appartiene ad un altro mondo, fatelo su un palco di fronte una platea numerosa: ché a teatro si raccontano storie. E vedrete che la gente ne riderà di cuore. Ecco allora che la disperazione di un uomo di mezza età, la disoccupazione, il declino fisico e psicologico, l’alcolismo e la malattia — messi su carta dalla penna di Alessandro Benvenuti e trasformati nelle tragicomiche vicende della storia di Cencio — si allontanano dalla realtà per sciogliersi in risate.
Me medesimo
è un testo autobiografico dell’autore fiorentino scritto nel 2005 e pensato per l’attore Andrea Cambi, scomparso prematuramente pochi anni fa. È uno sfogo rispetto una vita ingiusta fatta di fallimenti e peregrinazioni emotive, di fregature e crudeltà. Quando Benvenuti ne parla lo presenta come un testo sul dolore, scritto in un periodo di profonda rassegnazione, ma espressione esso stesso di una profonda volontà e fiducia nel domani. La distanza dalla propria condizione è il primo passo verso la rinascita, è così che nasce il racconto di Cencio. Un pezzo di vita, delle molte vite di tutti quegli uomini che — presi dalla disperazione e dalla crisi — si ritrovano “ridotti a un cencio”, uno straccio appunto. Uomini comuni, padri di famiglia, cassintegrati, plurilaureati, disoccupati con problemi di salute e patologie immaginarie. Classiche problematiche da crisi di mezza età: dolori all’ernia, sovrappeso e fisime sulle dimensioni dei propri genitali. Impossibile non disegnarne una caricatura.
Le vicende si accavallano l’una sull’altra in un frenetico e continuo flashback cinematografico di vite raccontate in forma di sceneggiatura. Primo piano, piano sequenza, campo lungo: come sarebbe pensare la propria vita al di là della macchina da presa. Cencio è il primo a tentare di distanziarsi dalla propria esperienza, per riderci su, tentare almeno un timido sorriso che in mano ad una platea si trasforma in risata fragorosa. Punto indispensabile per scatenare la comicità è creare «qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore» scriveva Bergson nel suo saggio sul riso. La distanza che divide palco e platea, autore e personaggio, è fondamentale per stimolare la comicità ricercata da Alessandro Benvenuti. Tagliente e cinico, l’autore toscano usa una scrittura rimata di grande poesia per descrivere situazioni caustiche. Abusando ed esagerando nell’uso di vocaboli ed aggettivi , battute, giochi di senso e allusioni, costruisce un iperbole tragicomica che sfocia nella confessione stessa della condizione d’autore: «adesso basta qui ci metterei un bel punto!», quasi a voler sottolineare che almeno ciò che scrive, Cencio-Benvenuti, è perfettamente sotto il suo controllo.

Camilla Toso

Visto a Estate a Radicondoli

La morte ti fa donna

Foto di Omar Padilla

La morte e la solitudine: temi cari, forse ossessivi nella scrittura di Bernard-Marie Koltès, giovane autore morto nel 1989, a 41 anni. La sua opera è stata riscoperta, esplorata e portata sulle scene in Italia, come simbolo di un macabro incastro tra arte e vita, biografia e creazione. E, in un gioco inquietante di coincidenze, è proprio della morte che parla il testo ritrovato in una tasca dei suoi vestiti, incompiuto come la vita dell’autore. Coco descrive gli ultimi istanti di vita, non ancora infranta ma già sottratta, del personaggio che ha fatto delle sue spigolosità e della sua durezza una leggenda. Gabrielle Bonheur Chanel in arte Coco, sul letto di morte è sola, nella sua casa, incapace di godere di tutti i piaceri della vita di cui si era circondata. Solo Consuelo, la sua serva, le è accanto. Questo il punto da cui partono Alessio Pizzech e Dario Marconcini dell’Associazione Teatro Buti, per dialogare, servendosi della scena, sul senso della morte, della solitudine e delle gerarchie. I due registi portano sul palco due differenti letture del testo, a cui hanno lavorato separatamente, con musiche e scenografie distinte. Punto di contatto tra le due messe in scena Elena Croce e Giovanna Daddi, le due attrici che, in uno scambio schizofrenico di identità, interpretano alternativamente entrambi i ruoli, mostrandosi nella duplice veste di schiava e padrona. Un artificio che rispecchia perfettamente il gioco drammaturgico su cui Koltès costruisce il testo: laddove la vita aveva consacrato Coco come “regina”, ora la morte la relega in una condizione di umana sofferenza, difficile da accettare, ma della quale non può liberarsi, mentre Consuelo la osserva e le parla incurante delle critiche che la padrona le rivolge e del dolore che la sta divorando. Un sottile capovolgimento che i due registi portano sulla scena secondo visioni differenti. Se Pizzech vede in Consuelo un’umanità che le permette a tratti di avvicinarsi alla sua padrona, fino a farle coincidere nella stessa figura, entrambe sdraiate, entrambe con lo sguardo rivolto al pubblico, mantenendo però quella gerarchia che vede Coco sopraelevata, sul letto di morte, rispetto alla serva ancora ai suoi piedi; Marconcini relega Coco in una posizione immobile, a tratti statuaria nella sua veste bianca, mentre la sua schiava si muove libera sul palcoscenico sovrastandola e guardandola da quell’alto in basso di cui è forte chi sovrasta e prevarica.

foto di Omar Padilla

Elena Croce nella parte di Consuelo per la regia di Dario Marconcini

Scenografie di impianti opposti rispecchiano esattamente queste discordanti visioni. Per la Coco di Pizzech un letto bianco, immacolato, dietro il quale si innalza una parete che la celebra, incorniciandola come in un grottesco fotoritratto, mentre Consuelo siede ad un tavolino, immerso nel nulla, dall’altro lato del palco. Più monumentale, seppur nella sua essenzialità, l’allestimento di Marconcini, che vede due blocchi bianchi convergere in un unico punto, lo stesso dal quale Consuelo osserverà con compiaciuta freddezza la sua padrona, lasciando trapelare la sua natura di sciacallo, mentre Coco muore lentamente, sulle note e sulla ancor più straziante voce di Barbara, cantautrice francese che affianca nella storia della musica il nome di Edith Piaf.

Grazie alla bravura delle due attrici e la semplicità delle messinscene, Pizzech e Marconcini rivelano con questa doppia regia la duplice natura umana e crudele della morte, in un confronto dialettico la cui sintesi è affidata all’esperienza personale dello spettatore.

Giulia Tirelli

Visto a Estate a Radicondoli