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Impressioni dalla “speculazione performativa” di Short Theatre 10

Il Festival

All’inizio di settembre, abbiamo partecipato a Short Theatre che, in occasione del suo decimo anniversario, ha riflettuto sul concetto di futuro. “Il futuro è chance e minaccia. Almeno fin quando la costrizione dell’occhio rivolto al passato, sottrae futuro allo sguardo”, ha scritto il direttore artistico Fabrizio Arcuri che ha scelto come titolo del festival proprio Nostalgia di futuro.
L’offerta è stata variegatissima e aperta a prospettive di internazionalità di grande spessore. Short Theatre 10, infatti, si è inserito in una serie di progetti di scambio italiani, europei e mondiali, stringendo partnership con realtà come IYMA (International Young Makers in Action); Finestate Festival (leggi un approfondimento del 2013); Transarte; Swiss Time; Festival Focus Jelinek (leggi un approfondimento del 2014); Fabulamundi. Playwrighting Europe – Crossing Generations.
Gli spettacoli sono stati molti, altrettanti gli ospiti stranieri e le iniziative collaterali. Di questa grande offerta, abbiamo potuto vedere e assorbire quasi tutto, durante la prima settimana.

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GASP

In questo stesso arco temporale, abbiamo preso parte, ogni giorno, sia come osservatorio critico che come partecipanti, a un laboratorio tenuto da Joris Lacoste e Jeanne Revel del Collettivo W dal titolo G.A.S.P. Gruppo Autorganizzato di Speculazione Performativa. L’obiettivo generale del Collettivo W, ci hanno spiegato le due guide, è analizzare “quale rapporto si instaura tra qualcuno che fa qualcosa e qualcun altro che lo guarda”. L’obiettivo specifico del laboratorio, invece, era quello di portare i partecipanti a discutere, criticare, destrutturare e ricostruire le performance di Short, servendosi di un corollario di giochi e dispositivi inusuali e divertenti, leggeri e intelligenti.
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Il gioco dal titolo Générique, ad esempio, ha trasformato metà dei partecipanti in una compagnia teatrale, l’altra metà in pubblico: i primi – senza poter preventivamente concordare una struttura, o auto-assegnarsi dei ruoli (regista, drammaturgo, attore…) – dovevano difendere uno spettacolo immaginario dalle domande dei secondi e, attraverso esse, creare lo spettacolo stesso. Ne è derivata la storia di un gruppo di pinguini che, su Plutone, tra una tempesta di sabbia e 45 minuti di silenzio, riflettono sul ruolo della donna nella società contemporanea: una serie di cliché, edulcorati nel paradosso.

sedie_3Il Reenactment, invece, consisteva nella riproduzione di una delle performance viste il giorno prima (E-ink di mk). A due dei partecipanti che non avevano potuto vedere il lavoro, veniva raccontato lo spettacolo stesso, o, meglio, il ricordo di esso, con il solo uso delle parole, senza alcun sussidio mimico o gestuale e loro dovevano riprodurlo nella maniera più fedele possibile. Ne è derivata una performance (a cui ha assistito esterrefatto lo stesso Michele Di Stefano di mk) di secondo grado che ha conservato dell’originale solo i caratteri principali, riadattandoli in un contenitore completamente differente: diverse le entrate e le uscite, diverse, in alcuni casi, le relazioni tra i due danzatori, diverso, in sostanza, il racconto. Eppure, simile nelle intenzioni e nelle energie.
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Durante i primi sette giorni di laboratorio non sono mancate anche discussioni semplici su quanto visto, giochi semantici e uno dei giochi che il Collettivo W definisce “critici”. Forse per la nostra formazione, quest’ultimo ci è parso il più stimolante, portandoci a riflettere su alcuni meccanismi che muovono il teatro e la fruizione, sui pregiudizi che ognuno di noi ha nel momento in cui entra in un luogo di rappresentazione e sull’impossibilità dell’oggettività. Il gioco collettivo prevedeva la segmentazione in segni, azioni e dispositivi di uno degli spettacoli visti. Ognuno di questi segni andava poi raggruppato in un insieme ideale di significati, in dopo la definizione di una griglia interpretativa comune. Fino alla più scarna e tendenzialmente oggettiva delle semplificazioni, lo spettacolo veniva spezzato nelle sue parti costitutive e significanti.
L’obiettivo di un laboratorio come questo era, più o meno palesemente, quello di chiedere ai suoi partecipanti: cosa guardiamo? Esiste un grado di oggettività nell’analisi di una performance? Quali cliché vengono attivati durante una rappresentazione? Quali i pregiudizi del pubblico?

Short ha, dunque, rappresentato per noi un momento di visione e, allo stesso tempo, di allenamento dello sguardo critico. La visione di molti spettacoli, sommata alla partecipazione al laboratorio ci ha lasciato una sensazione di sincronia e sovrapposizione. Di questa sensazione, vorremmo trovare il modo di lasciare una traccia che può riassumersi tutta nell’assunto, apparentemente banale, che segue: non esiste una fruizione teatrale oggettiva. Lo affermiamo in tutta tranquillità, sapendo che molti, prima di noi, hanno sostenuto a ragione e con strumenti più approfonditi dei nostri il medesimo assunto, e ammettendo i debiti intellettuali che questo assunto ha rispetto a un laboratorio di analisi che, con diversi dispositivi, ha tentato provocatoriamente di dimostrare il contrario di quanto affermiamo.

Effetto domino

domino-12Ogni spettacolo può incontrare un gusto e una passione, smuovere eventi autobiografici, o non farlo. Ogni spettacolo, quindi, in una sorta di effetto domino, porta con sé una serie di salti di pensiero che sono assolutamente personali, derivano dalla propria esperienza, dalle cose viste e vissute, dalle proprie conoscenze. Esso è costituito da una drammaturgia multi-livellare: attore, testo, luci, musica, scenografia, uso dello spazio vengono organizzati in maniera tale da creare un tutt’uno significativo e coerente. Eppure, nella percezione di ognuno di noi, è spesso uno solo di questi elementi a guidare la ricomposizione del quadro generale, contribuendo a creare l’impronta che quello spettacolo lascerà, facendo da bussola e orientando nella lettura. Vedendo, ad esempio, MDLSX dei Motus si può rimanere colpiti dalla soundtrack che scandisce i capitoli della performance, oppure dai passaggi letti in scena del romanzo di Jeffrey Kent Eugenides che ha ispirato in parte lo spettacolo, oppure dalla grazia dolcissima e violenta di Silvia Calderoni: così, musica, testo o attore guideranno la ricostruzione di una lettura complessiva. Un pensiero è stato messo in moto e ha prodotto un’apertura, una curiosità altra, una domanda: di chi sono le musiche della soundtrack? Chi è Jeffrey Kent Eugenides? Come l’attrice ha lavorato sull’intrecco tra l’autobiografia e il testo dell’autore americano? Ancora una volta, un effetto domino. Dunque, in una ricostruzione interpretativa, ognuno di noi può ricorrere a delle fonti, attingendole dal proprio bagaglio di conoscenze e competenze pregresse o che andrà a ricercare, documentandosi. Vedendo The Rite of Spring as performed by She She Pop and their mothers ogni spettatore passerà in rassegna nella sua mente, prima, durante o dopo la visione, tutte le Sagre della primavera che conosce, creerà paragoni e ponti e riuscirà, così, a individuare, nello spettacolo che ha davanti, elementi di originalità o di citazione più o meno esplicita. Esiste, in conclusione, una divaricazione sostanziale tra un giudizio e una pratica e teoria critiche. Tra l’uno e le altre hanno sede, ancora una volta, gli strumenti di osservazione maturati nel tempo e quelli di cui ci dobbiamo ancora dotare.

Nicoletta Lupia e Carlotta Tringali

Teatri Di Vetro 2012: assalto a una città

“Assalto ai limiti”. Mai come quest’anno un titolo più azzeccato per la nuova edizione del festival organizzato da Triangolo Scaleno Teatro. Nove giorni di spettacoli, performance, mostre e installazioni tra il quartiere della Garbatella, l’Angelo Mai e il Teatro Palladium.

Torna per il sesto anno consecutivo Teatri di Vetro: a Roma negli spazi urbani della Garbatella si “consuma” l’arte scenica contemporanea, abbracciando il proprio territorio, ascoltando e indagando un quartiere e una città che mai come ora hanno bisogno di essere presi, investiti, conquistati. Nove giorni di spettacoli a pieno ritmo (dal 17 al 25 maggio) con due giornate dedicate alla danza, un laboratorio di organizzazione, per un festival fittissimo che si dichiara fin da subito “ai limiti”.
A partire dalla programmazione che pone il suo punto focale sull’inatteso, sul giovane e imperfetto: «se volessimo l’eccellenza, allora ragioneremmo per categorie e vedremmo in scena grandi maestri», dichiara la direttrice artistica Roberta Nicolai. Se invece volessimo guardare il teatro e nella moltitudine trovare la possibilità, allora potremmo indire un bando. È così che si è aperta, qualche mese fa, parte della programmazione di TDV e più di quattrocento artisti hanno risposto alla chiamata. È così che in scena abbiamo compagnie più o meno conosciute, emergenti; meno prosa e più danza, ma anche video-teatro, progetti sperimentali e installazioni.

Assalto ai limiti è il sottotitolo di questa edizione, mai come quest’anno prendere d’assalto è l’unica arma che sembra avere la cultura italiana, per rispondere e non essere – a sua volta – “presa d’assalto”. La precaria condizione economica ha imperversato anche sulla capitale, non risparmiando la rassegna che si è vista costretta a rinunciare a parte della programmazione e a chiedere la collaborazione delle compagnie presenti. Basti citare il ringraziamento pubblico del festival: «…vogliamo ringraziare tutte quelle compagnie e quegli artisti che in tempi di crisi, malgrado la crisi e soprattutto dando l’assalto alla crisi, sono convinti che i processi di produzione artistica non abbiano limiti, di spazio, di tempo di luogo, politici, economici, sociali, culturali, poetici, filosofici, antropologici, architettonici…».

L’occasione che offre questa iniziativa, così decisa e determinata a resistere, è uno spunto per riflettere sulla situazione attuale.
Quante volte, abbiamo sentito parlare di rassegne e teatri chiusi, morti e sepolti; e solo ultimamente iniziano ad arrivare notizie anche sulla stampa nazionale. Per anni hanno chiuso spazi e festival, uno dopo l’altro, morti nel silenzio, nessuno ne ha fatto parola; solo ora, che la vera crisi si fa sentire, iniziamo ad ascoltare e – allo stesso tempo – a parlare: ammettere che le risorse non sono sufficienti, che i tagli sono obbligati e che ridimensionare significa resistere, quando a volte sarebbe più facile mollare.
Cosa vuol dire fare teatro ai limiti del possibile? Quanto coraggio ci vuole e quanta volontà, per non lasciare tutto e rinunciare?

La crisi economica per prima pone queste domande e spinge su un crinale, dove la linea tra fare e non fare è sottilissima, dove la questione ha radici ben più profonde della sola economia, dove rinunciare è il primo passo verso l’estinzione. Ecco che resistere diventa la nuova forma mentis: resisto, dunque sono. Ma a che prezzo? Sembra che un festival oggi sia in qualche modo costretto a “essere” nell’unica forma dei grandi numeri: molti spettacoli per serata, innumerevoli giorni e altrettante attività collaterali. La nitida immagine del “tanto” proietta un’ombra sempre più nera, che costa condizioni lavorative impensabili per la moltitudine di artisti, tecnici e organizzatori che dignitosamente incassano il colpo. E “resistono”, appunto.

Si arriva dunque a chiedersi se non sarebbe meglio abbassare i numeri e alzare la qualità dei rapporti lavorativi. Perché, in fondo, dei limiti esistono, se non politici e culturali, sicuramente economici. Negare l’esistenza di un minim, oltre il quale fare cultura diventa impossibile, significa negare la possibilità futura di ottenere le giuste risorse, che siano esse pubbliche o private. Lasciar passare l’informazione che tutto sia fattibile anche con meno, che la cultura sia un bene a ribasso, è un rischio troppo grande, soprattutto in questo momento storico.

Abbiamo divagato fin troppo allontanandoci da Roma e dimenticando il punto di partenza: Teatri di Vetro, il festival che ha preso d’assalto la crisi, deciso a non mollare, che ha rinunciato a qualcosa per dare spazio alla possibilità.

Camilla Toso