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Un'”Acqua di colonia” tutta italiana: intorno all’ultimo lavoro di Frosini/Timpano

Acqua di colonia, ultimo lavoro di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, è uno spettacolo sulla storia del colonialismo italiano. Sì, ma quale?, visto che è una vicenda durata pochissimi anni, che risale all’ormai ben superata (?) epoca fascista, e non siamo mica stati grandi imperi come l’Inghilterra o la Francia – questo è il luogo comune condiviso –, e comunque nessuno ce l’ha raccontata a scuola o sui giornali, se ne sa poco o praticamente niente: appunto, solo quel che resta di consolatorio e giustificatorio nell’immaginario collettivo. E invece non è così, lo spettacolo centra l’obiettivo fin dal titolo: è una vicenda rimossa, ben più profonda e radicata di quello che crediamo (risale addirittura alla fine dell’Ottocento, ben prima che Mussolini e i suoi andassero alla ricerca di “un posto al sole”) – proprio come un profumo, quell'”acqua di colonia” che resta sulla pelle a distanza di tempo, nell’aria, tutt’intorno a noi oggi che si dibatte tanto di Medio Oriente, migranti e ius soli.

foto di Ilaria Scarpa

Acqua di colonia si fonda da un lato sul montaggio, in una sorta di blob sempre più dilagante, di documenti che certificano la storia di colonialismo istituita e legittimata dal nostro Paese: dalle guide di viaggio dei primi del Novecento, citate parola per parola, alla testimonianza richiamata di personaggi celebri coinvolti nelle guerre d’Africa come Indro Montanelli; dalla creazione delle prime leggi razziali al razzismo veicolato dal cinema anche d’autore – si va dall’inquietantissimo Topolino in Abissinia a Tognazzi, e aprendo lo sguardo oltreconfine da Stanlio e Ollio alla Mia Africa con Meryl Streep – e ancora perpetrato decenni e decenni dopo dalle pubblicità in TV (dalle caramelle Tabù all’iconografia degli appelli delle ong); dalla passione esotista delle grandi opere della modernità (vedi Aida, scritta per l’inaugurazione del Canale di Suez da un Verdi che come Salgari e altri non aveva mai messo il naso fuori dall’Occidente) alle canzoni fasciste (Faccetta nera su tutte ovviamente) a quelle pop degli anni Settanta (basti pensare ai Watussi).
È una vicenda che comincia almeno nella seconda metà del XIX secolo, attraversa tutta la storia e la cultura del Novecento (siamo noi a sperimentare i primi bombardamenti aerei di sempre, in Libia nel 1911), per arrivare all’oggi in un intreccio di opinioni razziste e coloniali che saltano da Immanuel Kant al barista sotto casa, da Rousseau ai pregiudizi di amici e parenti, da Aristotele a youtube. Sarebbe impossibile riconoscere da chi proviene il commento in questione se gli attori dopo qualche secondo non ne dichiarassero la fonte, disegnando così una storia coloniale radicata e antichissima, e tuttora assolutamente operante, all’interno dell’immaginario e delle consuetudini europee; e però anche dichiaratamente, specificamente italiana, se pensiamo – come ci ricorda lo spettacolo – che pur non avendo una tradizione coloniale del calibro di Gran Bretagna o altri Paesi, l’Italia durante la guerra d’Etiopia – impresa sanzionata dal proto-Onu ma lasciata transitare da Suez – in pochi mesi ha impiegato 500.000 soldati, quanto gli americani in 15 anni di Vietnam.

foto di Laura Toro

Però, appunto, se ne sa poco o niente, e il senso primo nella visione di questo spettacolo di Frosini/Timpano è senza dubbio la scoperta e la condivisione fra gli spettatori di un rimosso storico comune e importantissimo, sia per il passato che per il presente: “c’abbiamo messo una bella pietra sopra… una pietra tombale”, ci dicono dal palco, su soprusi, abusi, sopraffazioni, distruzioni e guerre tanto che pochi ancora se ne ricordano e ne parlano, e il ruolo di Acqua di colonia è proprio portare a emergere questo rimosso, attenendosi talvolta ai fatti specifici legati all’Africa Orientale Italiana ma poi esorbitando verso quello che di coloniale permane nella cultura contemporanea del Paese, d’Europa e d’Occidente. Già “soltanto” per questa ragione è a mio avviso uno dei lavori del teatro italiano più importanti degli ultimi mesi: capace di intrecciare, com’è nella cifra della compagnia, informazione storica, analitica e verticale, e traiettorie orizzontali, più sfumate e culturali; comicità e – siccome in questo discorso c’è veramente poco da ridere – critica spietata, che non fa sconti a nessuno, nemmeno agli stessi autori e performer.
Perché dall’altro lato – anche questo è un tratto distintivo del lavoro di Frosini/Timpano – al montaggio di scene, fonti, frammenti storici intorno al tema, spesso citati così come sono, da libri, film o canzoni d’epoca, fa da contrappunto la prospettiva individuale degli artisti, in questo caso localizzata soprattutto nel racconto della modalità in cui si avvicinano all’argomento e provano a portarlo in teatro in forma di spettacolo (tutta la prima parte di Acqua di colonia è un “come se” prima detto e poi anche fatto che ha al centro le potenziali soluzioni sceniche per trattare un tema così atroce, mentre torna in continuazione la parola “immaginate” rivolta al pubblico, a tessere un rimando sempre straniato fra scena e platea). Anche se il rapporto fra l’oggetto in questione e la posizione degli artisti a riguardo viene costruito su un piano di meta-discorso teatrale, mentre solo in piccolissima parte la dialettica storia/persona, teatro/performer riesce a esprimersi su un piano più biografico, fuori dai limiti del palcoscenico.

foto di Ilaria Scarpa

Ma il dispositivo in buona parte riesce a funzionare bene, certificando una tappa di sviluppo importante nella messa a punto di un linguaggio condiviso dal duo Frosini/Timpano (prima con un percorso artistico individuale ben marcato) in uno spettacolo che in fondo è fatto di “niente” (si fa per dire): senza supporti scenografici o effetti scenici, possibilità d’ambientazione o rappresentazione, rimangono soltanto gli attori, i loro corpi, i movimenti stilizzati e le loro parole, sopraffatti da un catalogo sempre inaspettato di elementi che rimandano a un colonialismo che si rivela essere non del tutto “post-“, ma sempre attuale, davanti all’incommensurabilità di una storia non voluta e rimossa che forse proprio perciò continua in sordina fino al giorno d’oggi (anche questo un elemento ricorrente e discriminante nel percorso della compagnia rispetto alla scelta dei temi su cui lavorare). E di fronte, per tutta la prima parte dell’allestimento, a una giovane seduta su una seggiolina, che assiste alla rappresentazione scrutando la platea: una persona di colore, diversa a ogni replica, che – ci informano – viene reclutata sul posto ed è ignara dello svolgimento dello spettacolo. Più di tutto il suo sguardo silenzioso è un ammonimento senza scampo, un innesco di straniamento continuo, a tratti lancinante per la giustapposizione a battute particolarmente feroci, che riporta alla realtà impedendo di lasciarsi andare alla messinscena, alle sue trovate sceniche e alle gag comiche che lo costellano.

foto di Laila Pozzo

Se la possibilità della rappresentazione e della narrazione è continuamente negata – l’una tramite i tentativi di messinscena, sempre interrotti, di fatti e figure del colonialismo storico e culturale, e l’altra per la tipologia di montaggio non lineare dei frammenti performativi –, va anche detto che dal punto di vista strutturale lo spettacolo dimostra una linea ben precisa: oltre il livello informativo e politico, pure importantissimo e primario, l’allestimento condivide anche una sorta di racconto di se stesso, in cui il discorso teatrale si apre al pubblico, tramite la messa in scena di alcuni passaggi del percorso di creazione. L’esito è quello di un meccanismo che rende gradatamente chi guarda partecipe di ciò che sta accadendo in scena, in un itinerario che parte dalle condizioni reali per svolgersi lungo un progressivo, graduale sprofondamento nella dimensione della finzione e dell’astrazione, come ad accompagnare il pubblico man mano al dato di sospensione dell’incredulità alla base del teatro che tante volte in epoca contemporanea è stato discusso e anche negato. L’allestimento parte all’inizio da un realissimo straniamento meta-teatrale (gli attori già sul palco che guardano il pubblico, e parlando di come e perché si potrebbe fare questo spettacolo); procede coi vari tentativi di racconto per frammenti della storia del colonialismo italiano fra passato e presente; per arrivare infine nella seconda parte a svilupparsi tramite la concretizzazione delle immagini/scene prima annunciate solo a parole, culminando in un finale di grande impatto visivo ed emotivo – che qui non sveliamo, ma che ci riporta in immagine il tentativo di rimozione da parte dei colonizzatori, mirato ad occultare le atrocità commesse, il fatto che anche l’Italia ha un suo passato squisitamente imperialista, profondamente coloniale. Che però – almeno con questo spettacolo – torna subdolamente a trafiggere le coscienze, instillando un retro-pensiero a cui poi è difficile non ritornare, appunto come un profumo di colonia troppo intenso rimasto dopo giorni e magari anche lavaggi a infestare menti, corpi e abiti di persone che tante volte non se ne ricordano neanche più.

Visto e rivisto al Teatro Ca’ Foscari (Venezia) e all’ITC di S. Lazzaro di Savena (BO)

Roberta Ferraresi

 

Il “cambio della guardia”. Una nuova stagione del teatro di regia italiano?

Nell’ormai consueto appuntamento con lo Spettacolo dell’anno organizzato su “Doppiozero” da Massimo Marino con una serie di artisti e critici – collaboratori e non della rubrica Teatro –, Massimiliano Civica rileva come nella cartina tornasole della scena italiana che sono i Premi Ubu si sia manifestato un “cambio della guardia” nel nostro teatro di regia. I premi 2017, oltre che allo stesso Civica (miglior regia ex aequo, premiato nella stessa categoria due anni fa per Alcesti), sono andati fra gli altri ai lavori di Deflorian/Tagliarini (per le luci di Gianni Staropoli ma Il cielo non è un fondale era in finale anche come miglior spettacolo, musiche, attrici), di Roberto Latini (miglior attore, più le musiche di Gianluca Misiti, già premiate nel 2015), di Antonio Latella (miglior attore under 35 Christian La Rosa, protagonista di Pinocchio, e in finale come miglior regia, categoria in cui era stato premiato lo scorso anno con Santa Estasi).
In effetti, si manifesta un vero e proprio “cambio della guardia” rispetto agli ultimi anni. Dopo qualche tempo di riflessione più o meno condivisa, più o meno continuativa, è forse il caso di rispondere all’invito e discutere in qualche modo l’ipotesi formulata dall’artista, se possibile cercando di darle seguito. Singolare che una riflessione del genere venga, non da un critico, ma da un artista del nostro teatro (ma poi neanche tanto strano, visto che oggi come in passato i primi teorici della materia in Italia di norma sono stati gli stessi registi, come diceva Claudio Meldolesi per gli anni Quaranta e Cinquanta).

Che il “cambio” ci sia stato è fuor di dubbio, e il fenomeno è ancor più evidente se si guarda alle rose dei finalisti Ubu (Lucia Calamaro, Frosini/Timpano, Emma Dante, Silvia Calderoni, Federica Fracassi…) o alle terne e ai vincitori delle edizioni degli ultimi 2-3 anni, dove gli stessi nomi avevano già cominciato a prendere posto nella “cartina tornasole” del nuovo corso in categorie-chiave come miglior spettacolo, regia, attore, ecc.; o ancora aggiungendo altre figure vicine che si potrebbero ben inserire nel quadro, tipo quelle provenienti dalla cosiddetta “terza ondata” dei Teatri 90 (dai Motus agli ex Clandestino a Fabrizio Arcuri o Fanny & Alexander) o dalla precedente nouvelle vague degli Ottanta (dalle Albe alla Socìetas).
Però, dice Civica, è un cambiamento sì epocale, ma senza troppi “squilli di tromba” (tant’è che non ha destato particolare attenzione nel dibattito italiano sulle arti sceniche, vuoi perché la rivoluzione era già da tempo annunciata, vuoi perché l’attenzione in questo momento va ad altre e diverse questioni d’attualità). I motivi del mancato clamore possono essere tanti. Civica rileva giustamente per esempio che il passaggio di testimone preparato da anni è stato agevolato dal progressivo “abbandono del campo” da parte degli esponenti storici del nostro teatro di regia; ma anche supportato dalla fertile congiuntura con un parallelo “cambio della guardia” discriminante sia nella critica, come segnala il regista, sia – aggiungerei – nella direzione dei maggiori teatri del nostro Paese. Poi, seguendo il ragionamento, gli “squilli di tromba” sono mancati forse perché gli artisti in questione “non fanno tendenza” fra loro, creando fronti omogenei, né tantomeno in rapporto coi critici, che a differenza delle passate stagioni della ricerca in buona parte non hanno scelto di sostenerne qualcuno in particolare e nemmeno di provare a incasellarlo/i in una qualche griglia interpretativa onnicomprensiva.

Stante l’evidenza del rilievo sul “cambio della guardia”, non si tratta di discutere, consolidare o contestare l’ipotesi, quanto forse di provare a far “squillare la tromba”, seppur sottovoce o magari anche solo in parte: cioè di cominciare a scavare il fenomeno per non lasciarlo passare in sordina, come se nulla fosse, cercando di identificare il suo principio di discrimine e la sua possibile posizione nel sistema delle arti nazionale per comprendere che cambiamenti possa portare con sé – e in caso, tentare di osservarli e sostenerli. Lasciar correre senza confrontarsi su quanto sta accadendo comporta il rischio di contribuire in qualche modo a una eventuale, nuova normalizzazione (che in Italia come sappiamo è sempre dietro l’angolo); di dissipare gli sforzi compiuti finora da questi artisti per la loro crescita e consolidamento, o addirittura per un mutamento del sistema delle arti sceniche nel nostro Paese. Senza voler imporre alcuna forzatura interpretativa, critica, estetica o politica, credo che ascoltarli sia, più che importante, quasi un obbligo etico.

Per cominciare ad articolare l’ipotesi avanzata da Civica, invece che formulare di lì categorie e tendenze nuove o rinnovate che siano, si può provare a campionare alcuni interrogativi che il “cambio della guardia” può porre al teatro, più che di adesso, del futuro imminente e prossimo.
Se è vero che gli artisti in questione – che insieme ad altri andrebbero a comporre un quadro mutante e mosso di un nuovo teatro di regia – nel complesso non dimostrano significative e volute convergenze né a livello estetico, né di pratiche (anche questa è però una tradizione della regia italiana, a partire da quella “critica” in poi), qualche elemento in comune ce l’hanno – senza voler imporre nulla a nessuno né togliere alla necessaria libertà di movimento, sempre da difendere.
In realtà, vorrei azzardare – assumendomi tutti i rischi del caso – che se seguiamo il consiglio di Meldolesi e guardiamo, invece che agli esiti in forma di spettacolo, ai processi dal punto di vista dei modi produttivi, scopriamo – com’è accaduto in passato – che c’è ben più di qualche dato storico-cronachistico-biografico ad accomunare l’approccio di questi artisti. Tutti naturalmente sono impegnati – com’era in passato – in un’impresa di rinnovamento del repertorio drammaturgico, che si basi su forme auto-prodotte, sull’importazione in Italia di nuovi testi stranieri o sulla riscoperta di quelli della tradizione; buona parte viene dalla scena indipendente, con un sostegno negli anni più da parte dei festival che dal teatro ufficiale, mentre negli ultimi tempi  sono finalmente arrivati a superare i confini della produzione stabile in collaborazione con Tric e Teatri nazionali. Fra i quaranta e i cinquant’anni, con talmente tanto lavoro sulle spalle che chiamarli “nuovi” è quasi un affronto, sono artisti cresciuti per decenni nel sottobosco del teatro di ricerca lungo gli anni Novanta e Duemila e quasi tutti impegnati, oltre che nella creazione artistica, in prima linea nell’organizzazione di spazi, contesti, progetti indipendenti che potessero prima accogliere i loro lavori e poi anche le sperimentazioni di chi è venuto dopo.

Questo tutto sommato accomuna la presunta nuova stagione alla storia del teatro di regia in Italia, riformulando una cadenza e uno schema che è stato prima dei registi critici, poi di quelli del teatro di gruppo, e così via. Ma c’è forse una differenza importante da segnalare, ancora tutta in potenza e da cercare di comprendere nei suoi possibili esiti: a scavare fra le diverse esperienze, sembra che uno dei centri veri, condivisi, distintivi sia dal punto di vista etico che estetico si ritrovi a guardar bene nella centralità affidata – ovviamente secondo modi peculiari e diverse misure – al ruolo dell’attore, che diventa spesso centro irradiante del lavoro scenico (tanto della funzione registica, quanto della scrittura drammaturgica che dell’organizzazione dello spazio e dell’ambiente). “Post-regia” l’ha chiamata Marco De Marinis. È forse nell’essere-con gli attori che oggi il teatro cambia, si rinnova, supera le polarità della rappresentazione tradizionale e della sperimentazione performativa per donare agli spettatori un’esperienza ibrida, antichissima e sempre nuova. Segno ancora enigmatico ma evidente che qualcosa, in questo “cambio della guardia”, è senza dubbio mutato in profondità; una trasformazione d’ottica – forse politica prima ancora che estetica – che distingue questa generazione della regia italiana dai suoi precedenti, che – seguendo le analisi di Meldolesi – dimostravano tutto sommato una linea di continuità proprio nel mantenimento di una condizione di subalternità dell’attore.

La domanda, a questo punto, è come valorizzare e sviluppare questi dati di diversità, come portarli a innestarsi e crescere all’interno del sistema ufficiale che in tempi recenti queste figure stanno sempre più popolando; quali mutamenti potranno provocare a livello più ampio e trasversale, quali ostacoli ci saranno da affrontare, quali rischi e quali slanci; e ovviamente quali altri punti di differenza ci sono ancora da individuare, portare a emergere, interrogare.
E poi ci sarà anche da guardare, ancora una volta, in avanti: a cosa possiamo fare noi, artisti e critici venuti dopo, salutati negli anni Duemila come un’altra nouvelle vague del teatro italiano e oggi in cerca di consolidamento, insieme a loro e oltre.
È il possibile “squillo di tromba” del “cambio della guardia” che pone tutte queste – e sicuramente anche ben altre – domande, ancora tutte da trovare.

Roberta Ferraresi

Zombitudine: dall’India a Romaeuropa

Andatura ciondolante e sguardo perso nel vuoto, la scorsa estate si sono trascinati per le strade di Bassano del Grappa. Prima di allora avevano imboccato i tunnel della metro milanese e attraversato le corsie di supermarket genovesi. In questi giorni, messaggi appesi al collo e morte incollata alle gambe, sono nella capitale, da Piazza Navona a Campo de’ Fiori. Sono gli zombie di Corpo Morto, workshop ospitato dal Teatro di Roma nella Sala Enriquez del Teatro Argentina, progetto (qui un approfondimento) che prende le mosse al Teatro India nel 2012 per ritornare, dopo varie incursioni sul territorio nazionale, a Roma, dove tutto è cominciato.
Un seminario per attori non-risolti che si lega, in questo, come in precedenti casi, allo spettacolo Zombitudine, firmato da Daniele Timpano e Elvira Frosini, in scena al Teatro dell’Orologio dal 2 al 23 novembre, all’interno di Romaeuropa Festival. In questa conversazione di fine agosto a Bassano, durante B.Motion, i due attori romani ci hanno parlato dello spettacolo e del clima di stagnazione che lo ha generato.

Daniele Timpano: Tutto è partito da Perdutamente, che è stato l’occasione di mettere il peso su una bilancia piuttosto che su un’altra. Tra le modalità di stare all’India in quel momento c’era la possibilità di dar vita a dei laboratori, e il filone di morte/resurrezione su cui volevamo proseguire poteva essere indagato anche collettivamente (e quindi nella dimensione che il Teatro di Roma aveva voluto per l’India in quel momento). Il nucleo delle azioni urbane c’era già lì, come alcuni testi. Del lavoro fatto a Perdutamente ci sono degli echi nello spettacolo, a partire dalla sensazione di attesa in apertura. Però mentre là c’era una presenza plurima, nello spettacolo, invece, siamo in due.

Come definireste Zombitudine, quindi? Un progetto?
D. T.: Lo spettacolo senza le azioni urbane ha forse una maggiore linearità, e in ogni caso funziona da sé. Ma ci piace, quando possiamo, legarlo a quest’altra parte, il laboratorio. Perché non si parla solo di comparse, sono qualcosa di più.
Elvira Frosini: E poi funziona bene. A Genova, in primis, si è creata una forte aderenza delle persone al progetto, anche nel tempo. C’è una potenzialità di sviluppo.
D. T.: L’esito del laboratorio è ambientato nel teatro dove si sta, con gli spettatori intervenuti quella sera. Dall’inizio si sa che è un fallimento, ma si tenta di improvvisare una comunità. Il teatro è come la cantina di un film di zombie: quella dove tutti si rifugiano, ma che invece è una trappola.
E. F.: Il plot dello spettacolo è volutamente il cliché di un film di zombie qualsiasi: siamo convinti di essere in salvo, e invece ci siamo messi in trappola da soli. Siamo partiti da una condizione nostra, biografica.

Foto di Donato Aquaro

Foto di Donato Aquaro

Che ha a che vedere con un certo panorama teatrale, e più in generale, con una situazione generazionale?
D. T.: Sì, mi viene da dirlo perché lo vedo anche in altri spettacoli, come in Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, ad esempio (leggi l’intervista o l‘approfondimento).
E. F.: E anche in quello di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, ndr), con modalità differenti certo, ma c’è l’idea di confrontarsi con una difficoltà epocale, ed esistenziale. Oltre a essere un lavoro, il nostro, è anche una modalità di vita. Il teatro per noi è un rifugio e una trappola. Ci sono piccole ritualità quotidiane, un quotidiano che aspetta e spera. Abbiamo paura delle invasioni, dei corpi estranei che entrano nel tuo mondo, ma c’è quasi un anelito disperato alla distruzione di un mondo, che è già in frantumi. E allora che sia.
D. T.: Il senso dominante è quello di stagnazione, di confusione, di impotenza. Già in Aldo Morto (leggi l’approfondimento), con riferimento ai politici di oggi, parlavo di un senso di impotenza. E l’idea del teatro come cantina, come tomba, come chiusura, come autoreclusione, c’era già. Un’impotenza sentita prima in quanto cittadini, e poi in quanto artisti. È un dato se non generazionale, anagrafico, perché siamo in una sorta di limbo. Non più giovani, ma neanche vecchi, “affermati” ma quasi niente. Non abbiamo figli, probabilmente non li avremo, abbiamo un’economia sempre avventurosa. È un humus dal quale non si esce, e se c’è da un lato la potenzialità di empatia con lo spettatore, dall’altro c’è anche un rischio snobistico, davanti a una cosa talmente familiare, che ti fa dire “già lo so, lo vivo tutti i giorni, cosa c’è di nuovo?”. Zombitudine è in bilico fra queste due cose.
E. F.: Dopo aver riaperto questa ferita gigantesca, un trauma delle coscienze che ci ha messo sotto una cappa di immobilità, Aldo Morto chiude con un vuoto, con un’impotenza totale. Apre un baratro, dicendo che c’è impossibilità di reazione alla reazione. Digerseltz vive di questo vuoto, che cerca di riempire con una bulimia di parole. C’è un senso di grande solitudine, e una sorta di cannibalismo sociale. Zombitudine per noi è quasi ripartire da zero, dal vuoto, dal chiacchiericcio che ci infetta, da un’archiviazione. È uno spettacolo quasi aristotelico, ha un inizio, una fine, c’è unità di tempo e di luogo, ha quasi una circolarità.
D.T.: E non è un caso che sia ambientato in un teatro. Ma è un’idea quasi stereotipata di teatro, con un sipario un po’ retrò, con vestiti anni Cinquanta; anche le battute e il ritmo sembrano anni Cinquanta, non dico che sembra Beckett o Ionesco ma quasi.

Quindi, è un’idea di teatro con un’accezione negativa?
E. F.: Sì, è l’idea di teatro che potrebbe avere un italiano medio. Nel nostro Paese è come se il Novecento non fosse mai passato, come se non si potesse leggere altro. Non c’è stata una crescita, uno scoprire altro.
D. T.: I testi teatrali più recenti che vedo in casa di chi non fa teatro sono quelli di Brecht. È come se nessuno di noi fosse passato alla storia del teatro. Nell’idea comune del teatro – nonostante il palcoscenico, nonostante Rai 5, nonostante Radio 3 – è come se tutto quello che stimi e ami da quando fai teatro, non esistesse.

Non c’è nessuna possibilità di salvezza? Non scorgete una via di fuga?
E. F.: Sì, resistere. Non c’è una forma di nichilismo azzerante. Credo che il teatro italiano oggi abbia forza, capacità, ma è come se non riuscisse ad arrivare alla coscienza nazionale, al dibattito allargato. Le grandi riflessioni, sui giornali, sui media, oggi, quelle che ci riguardano tutti, partono da un evento spettacolare, da un film, mai da un pezzo teatrale.
D. T.: Quando sono stato invitato a Parigi per il convegno L’Histoire derrière le rideau. Ecritures scéniques du Risorgimento, con lo spettacolo Risorgimento Pop, c’era grande attenzione per il film di Martone e grande snobismo per gli autori contemporanei viventi. Sembrava che dovessimo motivare costantemente il nostro lavoro. La letteratura teatrale tardo-settecentesca e ottocentesca non aveva nessun limite di questo tipo, era ampiamente legittimata. Basti pensare che solo quando sono stato chiuso 54 giorni dentro il Teatro dell’Orologio sono stato citato all’Accademia Aldo Moro durante un convegno di studi. Lo spettacolo che ha girato due anni e mezzo, che è stato visto, pubblicato, recensito, da solo non bastava. C’è voluto l’evento per farlo uscire fuori.

Avete citato i lavori di entrambi. Come si riflette il percorso del singolo sul lavoro comune?
E. F.: Digerseltz e Aldo Morto nascono nel periodo in cui nasce la nostra collaborazione. Nel nostro primo lavoro insieme, Sì l’ammore No, del 2009, forse si distinguono ancora le differenze.
D. T.: La struttura dello spettacolo era più “frosiniana” che “timpaniana”, perché partiva dalla scrittura scenica, dall’uso dello spazio, dal creare relazioni tra stati, collegamenti tra cose. Spettacoli come Dux in scatolaAldo Morto hanno una struttura differente perché in mezzo c’è questa collaborazione. Dux in scatola ha un’idea di struttura chiara e un’idea scenica semplice, scarna, che tutto sommato non cambia mai: è un’idea lineare che va dall’inizio, allo svolgimento, alla fine. In Aldo Morto i collegamenti logici coi materiali si realizzano per attività tematica e per ragionamenti, ma sono anche discorsi di scrittura scenica, di immagini, di spazialità, per una modifica progressiva della modalità del pensiero dovuta al lavoro comune. Zombitudine può essere il preludio a direzioni future, ancora da scrivere.

Avete nominato il nordest dei Fratelli Dalla Via, la provincia, il lavoro, la ditta. Nella vostra situazione di stallo quanto influisce il territorio romano?
E. F.:
 Tanto, consciamente e inconsciamente. La situazione di stallo è fortemente legata a Roma. Tutti i giorni ci confrontiamo con l’idea di stagnazione.
D. T.: Un senso di oscuramento è nell’aria della città, e noi siamo spugne di questa stagnazione.

Pensate mai di spostarvi?
D. T.: Io continuamente!
E. F.: È vero che a Roma abbiamo uno spazio, dove facciamo laboratori, dove teniamo tutte le nostre cose. Ma è vero anche ci sono regioni che proteggono i loro artisti. In Lazio siamo orfani.

Il debutto a Genova, poi Rieti e Bassano. Nel 2015 Milano, Napoli e Palermo. Avete girato e girerete parecchio con questo lavoro. E adesso Romaeuropa.
D.T. Dopo Corpo Morto, il laboratorio, e Walking Zombi, le incursioni urbane, andiamo in scena all’Orologio. Con una lunga tenitura, tre settimane. Romaeuropa vuole recuperare, in parte e con alcuni spettacoli, ciò che non può più fare al Palladium, ovvero un festival che fosse anche una stagione.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu