Recensione a Gomorra – regia di Mario Gelardi
Si inscena di mafia sul palcoscenico del Teatro Auditorium Unical. Di camorra. La camorra di strada, selvaggia, violenta, e quella più altolocata, cinica, degli strati vischiosi del perbenismo corrotto, degli insospettabili, dei colletti bianchi.
Gomorra, del regista Mario Gelardi è l’adattamento teatrale del best-seller di Roberto Saviano (sei milioni di copie vendute nel mondo) messo in scena sabato e domenica scorsi sulle tavole del palcoscenico del teatro universitario a Rende. Rappresentando il tessuto criminale da renderlo riconoscibile in una identità universale. Individuabile da vicino. Da far avvertire, in altre parole, un senso rintracciabile nell’immediato circostante. Qualcosa che ci riguarda, qualcosa di cui se ne sente partecipi quali inconsapevoli vittime rassegnate al giogo-trappola come il sostare dentro una teca sottovuoto. Dal quale sarebbe d’obbligo liberarsi. E il teatro, in questa direzione, è cassa di risonanza dove agitare le voci imbavagliate delle coscienze. Azione di sensibilità collettiva, strumento da incamerare e far vibrare nelle occasioni in cui si predilige la parola alla omertosa noncuranza.
Uno spettacolo intenso, Gomorra, allestito con cura, con maestria registica, estetica, attoriale. Scevro da intellettualismi di sorta, orpelli di meccanica scenica o tecnicismi barocchi da teatro di vetrina. Piuttosto tratteggiando le scene, a differenza della trasposizione cinematografica di Matteo Garrone, con quel corposo esplicativo che appartiene alla teatralità vivida, al vitalismo interpretativo. E che solo tra fondale e proscenio acquisisce la forma epidermica più congeniale. Grazie anche all’ottima prova dei sei attori sul palco: Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Giuseppe Miale di Mauro, Adriano Pantaleo, Ernesto Mahieux, a figurare personaggi più o meno “pesanti” nelle gerarchie criminose, estrapolati in ogni caso dalla manovalanza, pesci piccoli dunque, mossi da invisibili (ma con nomi e cognomi) pupari senza volto. Come senza fisicità è il potere più alto, più grosso, in tutti i livelli di forma leciti e non, percepito come qualcosa di astratto a cui sottostare. E di contro altare, ritornando agli attori, impersonando le anime buone portabandiera del comune sentire, la minoranza civile coraggiosa trasposta in scena in un sarto costretto dalla necessità a rivolgersi al “centro per l’impiego” camorra e nello scrittore giornalista Roberto con le sue indagini al servizio della verità.
Storie, così comuni eppure così sconosciute, tenute lontano dalla luce ipocrita dell’apparente divenire. Controllate, come si tiene sotto controllo territorio, espressività, uomini e circostanze. Storie di vita, di strada, di spacciatori e capo decina, di giovani laureati iniziati (e desiderosi) alla ritualità dei clan, di imprenditori “per bene”… di rifiuti tossici. Storie che prendono vita in un cantiere fantasma, tra impalcature e colonne incompiute quale ambiente scenografico. Metafora dell’abbandono, di quell’equilibrio precario delle sospensioni in bilico, del depredare. Ma anche un rimando, sottile, all’impero del cemento quale fetta più redditizia dell’insinuarsi tentacolare camorristico. Retto su dalla manovalanza, operaia e armata. Un fare scenico giocato sulla bidimensionalità, visiva, per raccontare i diversi livelli del crimine, quello più verace di “Pikachu” e “Kitkat”, pusher al soldo, e quello borghese di Mariano e dello Stakeholder, rampanti economisti col fiuto per gli affari sporchi.
In tutto questo fango Roberto, lo sfigato scrittore e giornalista, si muove armato di penna contro i kalashnikov dei suoi conterranei. Rendendo «storie di un luogo d’ogni luogo, una faccia tutte le facce – dichiara Saviano in una recente intervista – e questo è ciò di cui il potere ha più paura».
Visto al Teatro Auditorium Unical, Arcavacata di Rende (CS)
Emilio Nigro