Gianandrea Poletta

Ripensando a Justice di Mara Cassiani

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Un momento idilliaco: la visione della Venere di Botticelli accompagnata da una musica soave, rinascimentale, delicata e armoniosa. Si apre così Justice, ultimo lavoro della coreografa marchigiana Mara Cassiani, presentato a Civitanova Danza. L’ombra del corpo della performer proiettata sopra il celebre dipinto – la stessa Cassiani, in versione Venere post-digitale, decadente – è inizialmente impercettibile, perché lo splendore dell’immagine è tale che riempie gli occhi. Si fatica a smettere di ammirare l’opera di colui che ha fatto dell’imperfezione la sua forza: è noto come il corpo della figura quattrocentesca sia sproporzionato e non tenga conto dei canoni accademici; ma nonostante ciò il dipinto è stato definito un capolavoro e ha influenzato tutta la pittura successiva, spingendo ogni volta alla contemplazione, forse anche per la sua simbologia nascosta, per la sua bellezza irregolare che ha attraversato le epoche. Ma possiamo oggi parlare di contemplazione? È una caratteristica che non ci appartiene perché richiede lentezza e concentrazione; niente di più lontano dal mondo caotico e veloce in cui viviamo, dove migliaia di immagini ci investono e su cui ci soffermiamo solo pochi secondi, il tempo di uno scroll (su instagram, facebook, sui siti web più vari) o di un passaggio in metropolitana (la pubblicità che invade le nostre città). Il tempo dell’ammirazione diventa merce rara, soprattutto sembra trasformarsi in sopportazione: l’inizio di Justice ben gioca su una dilatazione temporale che sembra protrarsi in maniera indefinita; i movimenti della coreografa si ripetono di fronte a un’immagine che piano piano – grazie a un imponente lavoro di editing – va perdendo la sua raffinatezza, la sua qualità. Al quadro della Venere vengono infatti sovrapposti alcuni dettagli ingranditi dello stesso dipinto (la mano della fanciulla, il suo occhio): si perde la visione generale, ci si sofferma sul particolare che però viene privato di nitidezza, di qualità: l’immagine diventa sgranata e lascia poi posto a semplici pixel colorati, a una vera e propria decomposizione della visione.

Carlotta Tringali

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