Recensione di Giorni felici – regia di Bob Wilson
Ritorna al Teatro Mercadante la magia di Bob Wilson con Giorni felici di Samuel Beckett. Wilson conserva l’originalità del testo, così come fu pensato e ideato dal suo autore; ciò che viene inserito è semplice colore e pura magia. Ad inizio spettacolo una tenda bianca brilla, ondeggia, fluttua nel ventoe travolge il pubblico: sembra una danza dai rumori e colori ipnotici; poi uno strappo violento e appare la scena, modernizzata da Wilson. Troviamo, infatti, Winnie – la protagonista che l’opera originariavoleva sepolta a metà nel terreno – immersa nell’asfalto, quale simbolo di epoca moderna, dando un’immagine ancora più violenta e sterile della semplice terra. Le linee si trasformano, tutto è spigoloso e facilmente lacerante. Ma alla piattezza della narrazione beckettiana Wilson dona colori e una scena, un assurdo che incontra il bizzarro. È lo stesso regista a dichiarare che aveva conosciuto tempo prima Beckett e con lui si era confrontato: ora era giunto il momento di “sfidarlo”, facendosi così pittore di un quadro in origine bianco e nero.
Giorni felici è un monologo a due: monologo perché a narrare c’è Winnie, una donna di mezza età, stanca, immobile, piantata nel terreno, che affonda le sue radici nella terra la quale è vita ed origine, ma che non le consente di andare oltre. I ricordi di Winnie si fanno parole al vento: sono foglie che cadono piano. Winnie parla a suo marito Willie che le dà le spalle, succube del continuo parlare di sua moglie.
La presenza dell’uomo è molto significativa per lei, è aria, è l’altro. Winnie vive dei ricordi, identificati negli oggetti che lei stessa ha raccolto nel rituale della quotidianità, che divengono così significativi cimeli per il futuro, quando nulla resterà, quando i giorni felici saranno ormai lontani. Tra i cimeli c’è una rivoltella che Winnie fa passare tra le sue mani, simbolo di una fine che tarda ad arrivare ma che è lì a portata di mano.
Giorni Felici rappresenta un progresso che non arriva, sottolineando quanto siano importanti le origini ma altrettanto pericolose perché sono un ostacolo al futuro. Il passato diventa così una catena che tiene intrappolati ai ricordi e una palla al piede che si trascina con forza, la quale non permette di vivere giorni felici al di fuori di quelli conservati nella memoria.
I sentimenti vengono messi in scena nella loro nudità, lo spettacolo è un urlo chiaro e violento contro gli stereotipi passati, i ricordi sommergono Winnie, la uccidono, in nome delle tradizioni che non le permettono non solo di vedere il futuro ma soprattutto di vivere il presente.
Sono trascorsi 20 anni dalla morte dell’autore Samuel Beckett eppure ancora oggi nulla può definirsi così sperimentale. Lo spettacolo è reso perfetto nella sua bellezza e completezza anche soprattutto grazie al merito di una grande aritista qual è Adriana Asti, attrice sicuramente di stampo accademico e grande esperienza, che riesce a donare al personaggio tutta quella ironia che effettivamente occorre e che le ha permesso di avere una certa sintonia con il regista che ne ha lodato più volte la bravura. Occorreva a fine spettacolo un sincero applauso per uno spettacolo degno di lode, che purtroppo forse non è arrivato a tutti.
Visto al Teatro Mercadante , Napoli
Italia Santocchio