Ipercorpo. C’è un cartello appeso sul muro sgranato d’azzurro spento, su una parete del Deposito ATR che ospita questo festival forlivese per la prima volta, con su scritto “Attenzione alle trasmissioni”. Certo, mi dico, chi è qui alle trasmissioni fa attenzione, almeno quelle televisive della riconoscibilità coatta e del consenso indicizzato, ma poi sul consiglio rifletto e mi sembra non sia qui il punto: questo è un luogo di contagio, mi diceva tra le cose il suo direttore Claudio Angelini, e allora l’attenzione credo sia proprio a questa trasmissione, quella che stimola a una partecipazione (che non è consenso), ma l’attenzione è che avvenga, non che ne manchi il contagio.
Si fanno all’olfatto vecchi lubrificanti e carburanti rappresi nei muri, l’intonaco graffiato lascia macchie scure e ombreggia un bianco smarrito tanti anni prima, la ruggine attorno alla ferraglia lasciata senza il bisogno che il metallo fosse lucido. Sono quindici anni che è così, questo vecchio deposito di bus che ha conservato un paesaggio, in complicità con il tempo. Questo paesaggio sudato è lo stesso che vedo sugli abiti degli artisti che lo stanno attraversando, si sporcano mentre montano i loro spettacoli, le loro performance e installazioni, passano per uno spazio che risuoni dell’urlo e del silenzio – che dell’arte sono medesima voce – perché se ne attesti presenza futura. Questo è un atto politico. Prendersi responsabilità dei luoghi e tradirli a nuovo uso, il solo modo di rispettarne il senso intimo. Lasciare nei posti una scia smarginata di sé, e insieme portarseli via.
Continua a leggere su Teatro e Critica
Questo contenuto fa parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Teatro e Critica