Recensione a Il Catalogo – Aide-mémoire – regia di Valerio Binasco
Jean-Jacques (Ennio Fantastichini) di giorno è un preciso avvocato, di notte un gran dongiovanni: un’esistenza schiacciata dalla solitudine più moderna che lo ha portato a collezionare ben 134 amanti, tutte ben raccolte nel catalogo che ne ricorda i nomi, le fattezze, tratti di personalità in vece del suo proprietario. Nella sua vita una mattina piomba Suzanne (Isabella Ferrari): non si sa né come né perché, si piazza in casa sconvolgendo la precisione della programmazione di tutte le giornate di lui.
La trama del Catalogo – Aide-mémoire è quanto mai il topic della love story post-esistenzialista: Suzanne entra nella sua vita per stravolgerla, man mano lui se ne innamora ma infine lei lo rifiuta. Non è questo (non solo) al centro dell’impostazione registica, al solito forte di una particolare leggerezza e allo stesso tempo di irriducibile determinazione, di Valerio Binasco, che cura anche traduzione e adattamento.
Aide-mémoire di Jean-Claude Carrière è la storia di un uomo e di una donna, della loro solitudine e dell’incomunicabilità profonda che ne governa le esistenze, di un incontro voluto e mancato, cercato ed evitato. Ma in scena non accade niente e nella versione di Binasco la storia diventa quella di una casa, poco più che un monolocale di pochi metri quadri in cui si svolge tutta l’azione, prima rifugio e poi prigione per i protagonisti, le loro relazioni e le loro vite. La sezione dell’appartamentino – il grande letto al centro, la cucina a destra, un bagnetto a sinistra – impera in orizzontale su tutto il palco. Un profilo scheletrico che taglia la scena a metà, pochissimi mobili e qualche accessorio; colori tenui, legno e celestino, un po’ di bianco, per tratteggiare una dimensione domestica che, all’inizio semplicemente ambiente che accoglie l’azione, diventa presto incarnazione del dispositivo mentale stesso dei due protagonisti, fra istinto della tana e senso di soffocamento.
Siamo di nuovo davanti alla cifra autoriale con cui il regista Premio Ubu 2011 si è fatto conoscere sui palcoscenici di tutta Italia: messinscene apparentemente mimetiche, che piano piano rivelano qualcosa che non va; è proprio questo rassicurante e leggero realismo, spesso imperniato su quel che resta del dramma borghese nella drammaturgia contemporanea, a frantumarsi contro situazioni che, nel corso della rappresentazione, assumono via via connotazioni surreali e astratte, in atmosfere che carezzano la linea che va da Beckett a Pinter ma anche, fuor di teatro, il realismo inquietante di Edward Hopper o della Nouvelle Vague. Ma il riferimento cinematografico non consiste soltanto in questa affinità, nella capacità di sciogliere gradatamente e insospettabilmente una commedia romantica o addirittura brillante nell’angoscia che popola l’individualità e la dimensione relazionale post-esistenzialista: lo spettacolo è intriso di riferimenti alla settima arte, dai lunghi (a volte troppo) bui che separano (piuttosto che unire) una scena e l’altra all’impostazione visiva, che sembra più un set che una scenografia, fino alla provenienza stessa dell’autore – Carrière, dramaturg di Peter Brook, è soprattutto sceneggiatore – e degli attori, un percorso diviso fra cinema e tv che li ha visti entrambi coinvolti in opere dirette da registi come Özpetek. Binasco non è nuovo a questo tipo di scelte che, prima ancora che estetico-poetiche sembrano piuttosto etico-politiche. Allievo di Cecchi, regista che si distingue per consistenti collaborazioni con alcune punte della drammaturgia italiana contemporanea (come Scimone-Sframeli e Paravidino), ha condotto una vita artistica sempre intrecciando cinema e teatro, fino a creare diversi allestimenti che coinvolgono e mescolano i due mondi, sia a livello di linguaggio ma anche e soprattutto in senso materiale. Sembra voler far finalmente re-incontrare teatro e cinema, Valerio Binasco; Il Catalogo non è certo la sua opera più dirompente: in giro da più di un anno, è una commedia leggera la cui dimensione si scopre ben presto essere drammatica, fondata su di una staticità dichiaratamente soffocante e uno scioglimento abbastanza prevedibile, con tempi comici più o meno azzeccati ed emozioni tiepide, una dimensione interpretativa nella norma e un buon apprezzamento da parte del pubblico… Ma questo lavoro diventa qui l’occasione per fare i conti con il lavoro di un artista che sembra percorrere una direzione profondamente originale nel panorama del teatro italiano. E se da un lato si potrebbe pensare che l’incontro fra teatro e cinema è soprattutto auspicabile per ragioni di audience, dall’altro si possono trovare almeno due o tre motivi che svincolano un simile “progetto” da pressioni di botteghino e lo rilanciano in una dimensione civile di più ampio respiro. Teatro e cinema-tv in Italia non si parlano o si parlano poco: nonostante gli attori siano in molti casi le stesse persone prestate al set o al palcoscenico e che molti siano i problemi (soprattutto in termini di pubblico e di finanziamenti) che, magari non sapendolo, entrambe le arti si trovano a condividere. Obbligarle a un “incontro pubblico”, com’è l’occasione della preparazione di un allestimento o della tournée di uno spettacolo, potrebbe far aprire in parte gli occhi a entrambi i versanti, portarli a conoscersi, a ri-conoscersi? E poi c’è forse una ragione eminentemente estetico-poetica: gran parte dei testi scelti da Binasco per i suoi spettacoli osservano un impianto che si può serenamente definire borghese – lui e lei, dimensione domestica e alterità, caso e angoscia, solitudine e inadeguatezza. Ma è da tempo che il dramma borghese ha abbandonato le nostre ribalte, almeno quelle più celebri e frequentate; allora dove andare a incontrare le macerie di quello che resta del grande canone occidentale della classe media, quello che ha presieduto lo scoppio delle rivoluzioni e dei totalitarismi, della nascita della regia e del teatro di ricerca, tanto dei super-iper-mercati che della pop art, proprio quel canone che oggi ci è crollato sotto gli occhi e con cui prima o poi sarà necessario fare i conti? Una risposta può essere: al cinema e in tv, luoghi e linguaggi che hanno saputo nel bene e nel male preservare questa condizione che, grazie alla vita della platea in teatro, può finalmente essere sottoposta a un processo di analisi collettiva e partecipata, non semplicemente subita e assorbita a livello individuale, ogni giorno davanti al proprio schermo.
Visto all’Arena del Sole, Bologna
Roberta Ferraresi