Recensione a Il piacere dell’onestà – regia di Fabio Grossi, con Leo Gullotta
L’occasione è di quelle alle quali non si può mancare. La prima a un teatro nuovo di zecca. Un gioiellino moderno, non c’è che dire. All’avanguardia per tecnica e struttura, progettato su modelli architettonici consolidati. Ubicato in un campus universitario. Fantastico. Già, peccato che di universitari, al battesimo del Teatro Auditorium dell’Università della Calabria ad Arcavacata di Rende (CS), non se n’è vista nemmeno l’ombra. Universitari intendendo con il termine l’indicazione studentesca, perché per quel che concerne le alte sfere amministrativo-burocratiche dell’ateneo calabrese, il parterre era al completo, venerdì sera.
E se il rettore ha tenuto a sottolineare, durante il breve discorso introduttivo (“onori di casa”), che: «questo luogo è un teatro, punto» minimizzando qualche scomoda voce sull’utilità di una struttura così mastodontica all’interno di un luogo adibito alla didattica, viene da domandarsi effettivamente perché un “teatro, punto” si trovi in uno spazio deputato agli studenti quando non per gli studenti è stato pensato. Ma non c’è da stupirsi, quel che conta è l’apparenza.
Quell’apparenza costume (perfino valore) da salvaguardare a ogni costo in ambiti tipicamente aristocratici, per tenere su quei meccanismi sociali di cui Pirandello si fa beffa nelle sue complesse costruzioni drammaturgiche. E dunque i nudi volti degli attori in scena de Il piacere dell’onestà non sono che supporti per maschere indossate per necessità di convenzioni.
Uno spettacolo confezionato a modo, Il piacere dell’onestà. Diretto da Fabio Grossi con Leo Gullotta nelle vesti di Baldovino, protagonista della commedia pirandelliana. Due atti dipanati nelle ambientazioni scenografiche di Luigi Perego: una casetta di cristallo (nella sua interezza sul gigantesco palco del teatro auditorium) nel bel mezzo di un paesaggio agreste (fondale) con tanto di sconfinato prato inglese in erba sintetica per lo spazio scenico calpestato. Un paio di sofà, l’arredo dell’interno.
Una famiglia altolocata alle prese con una “vergogna”da riparare: la nascita di una creatura da una madre nubile, “signorina”. Uno scandalo a cui dover porre rimedio… E niente di meglio che trovare un malcapitato, con un passato poco edificante da baro, a cui far recitare la parte dell’onesto marito e tramare intanto l’escamotage per una altrettanto rapida uscita di scena. Le dinamiche però si sovvertono e, pur salvando l’onore riuscendo a tener fede perciò all’obiettivo del marchingegno, a sopperire sono le malefatte a favore di un’onesta apparente. In cui “salvano la faccia” tutti, per mantenere occulti i grotteschi retroscena di una realtà che farebbe dire ben altro. Un’onestà fittizia, per il piacere di sentirsela addosso come marchio sociale.
Uno spettacolo preciso, pulito, formalmente rigoroso. Cotonato. In cui l’ammirazione per la perfezione estetica e drammatica potrebbe risultare l’unico acuto. Riconoscendo senz’altro l’enorme caratura attoriale di Leo Gullotta: eccezionale per mimica, incarnazione, cenno, espressività. Ridondante, talvolta, perché eroe di una platea ammaliata dinnanzi la quale avrebbe potuto concedersi di tutto. Supportato da attori diligenti, ligi al proprio dovere. Senza intoppi né lode.
Insomma, qualcosa di tradizionale, ammiccante al mercato. Deliziosa pietanza per spettatori saziati da altisonanti nomi televisivi e da eco di autori di fama immortale. Il teatro che muta è un’altra cosa.
Visto al Teatro Auditorium Unical, Arcavacata di Rende (CS)
Emilio Nigro