Recensione a InFactory – di Matteo Latino / teatrostalla
«Construction area», si potrebbe cominciare da qui per parlare di InFactory, progetto scenico con cui Matteo Latino ha vinto il Premio Scenario 2011 e oggi spettacolo compiuto, portato in scena dallo stesso autore-regista e Fortunato Leccese con il nome di teatrostalla. «Construction area», la scritta che si legge sulla fascetta gialla-nera con cui verso metà spettacolo i due performer recintano tutto il palcoscenico, ci serve qui per tentare di penetrare i vari livelli di azione che interagiscono in uno spettacolo linguisticamente densissimo e talmente unitario che è difficile (e forse ingiusto) provare a sbrogliare.
Il lavoro, come emblematicamente esprime questa scritta, si mostra tramite una serie di passaggi di costruzione live della scena e del testo, che fanno da contrappunto alla partitura “vera e propria”. Basti pensare all’attrezzeria, tutta fatta da strumenti edili o quasi (nastro adesivo, cellophan industriale) o al meticoloso lavoro sulle luci (lightbox, lampieggianti, torce) che sono attivate e stimolate drammaturgicamente come se fossero zoom per mettere meglio a fuoco, da vicinissimo, alcuni dettagli visivi o performativi. Ma verrebbe da chiedersi qual è il percorso legittimo fra costruzione dello spettacolo e messinscena in senso stretto, vista l’equilibrata proporzione che si esprime nella coesistenza tutta particolare fra attore e performer, fra realtà e finzione, mirata − come in altre esperienze della scena emergente − a rivalutare le specificità dell’artigianato teatrale, delle sue grandi magie fatte con poco e forse, come vedremo, a scardinare qualche cliché della dicotomia che vede tradizionalmente opporsi rappresentazione e performatività.
Il recinto poi è uno stimolo tutto concettuale, per parlare dell’assonanza tematica che Matteo Latino, autore del testo e regista, intende proporre fra uomo e animale: lungi da qualsiasi afflato metaforico, il teromorfismo che avvicina neo-adulti umani e vitelli a stabulazione fissa è piuttosto orientato verso una contaminazione inscindibile, dove è impossibile (e forse nemmeno troppo importante) capire quali gesti o quali parole siano da attribuire all’uno o all’altro versante, che diventano, appunto, un orizzonte unitario di ricerca.
La fascetta di «Construction area» è rappresentativa anche della cifra estetica alla base dello spettacolo: pochi, pochissimi colori netti (il giallo e il rosso, il blu e il nero) in un impianto che richiama il minimalismo americano, sia per la sua asciuttezza che per la predilezione per i materiali industriali (soprattutto plastiche).
Quel recinto, infine, è emblema di un modo di scrivere teatro tutto particolare: una ricerca drammaturgica che verifica l’ormai tradizionale circolo fra differenza e ripetizione, ma esplora con avidità tante linee linguistiche, con un testo che deborda dal parlato (spesso schiacciato dall’attacco di sonorità techno) verso altri supporti: a partire da mezzi più tradizionali come la voice off, per arrivare a soluzioni sceniche piuttosto originali, come gli slogan sulle t-shirt, dei loghi o l’uso degli spray, per un testo che si costruisce ovunque in scena, proprio sotto gli occhi dello spettatore.
Certo pienamente post-drammatico − le macerie dei dialoghi si risolvono spesso in frammenti agitati dagli spazi lasciati vuoti o in un contrappunto efficace fra il freeze di un performer parlante e l’azione dell’altro − ma non solo, con buona pace di una definizione che, pur sembrando ancora innovativa in Italia, è stata messa a punto da Hans Thies Lehmann quasi quindici anni fa.
La sinestesia, l’antigerarchia, il pluralismo non sono utilizzati, come forse avveniva alla fine del secolo scorso, per dare forma pubblica al mondo autoriale − l’abbiamo intravvisto, spesso ermetico e chiuso, con la Postavanguardia o i Teatri ’90 − ma piuttosto per rivendicare un ruolo di nuovo sociale del teatro: laddove le istituzioni hanno lasciato un vuoto che pesa come un macigno, il teatro sembra mirare a reinserirsi come spazio di incontro e confronto, di riflessione e indagine. Le giovani compagnie (dai Babilonia agli Anagoor, dai Santasangre a Sotterraneo), in mezzo alla vertiginosa specificità di stili e scelte tematiche, sono inafferrabili: solleticano e immediatamente tradiscono qualsiasi categorizzazione geografica, linguistica o generazionale; non mirano a creare circuiti indipendenti, attraversando con disinvoltura i confini tradizionali (teatri stabili, festival sperimentali, sale comunali…) e facendo così saltare il fardello dei cliché produttivi e distributivi, tanto delle istituzioni che della ricerca. Ma c’è una cosa che sembrano condividere: questi artisti, da cui c’è davvero molto da imparare, hanno saputo portare a teatro un pubblico nuovo, che forse mai e poi mai c’avrebbe messo piede. È un pubblico, anch’esso, che scuote tutte le convenzioni abituali, muovendosi più per risonanze fra le arti che all’interno delle caselline pignole in cui siamo abituati a inquadrare la fruizione dentro e fuori il teatro.
E così tutti quei tratti estetici, ancora felicemente lehmanniani, sono rifunzionalizzati, rivisti, restaurati, allo scopo di raccontare l’attualità e forse potervi intervenire. Di mezzo, infatti, abbiamo youtube, facebook, eccetera: ovvero la concretizzazione, ben oltre quello che si poteva immaginare, di quelle istanze co-autoriali portate avanti dalle avanguardie (letterarie, artistiche) di fine ‘900. La differenza, forse, sta proprio non nella costruzione ex novo di condizioni e mondi utopicamente autonomi, ma nell’attenta rielaborazione e modificazione dell’esistente. Potremmo chiamarla, con un po’ di forzatura, nella proposta di una playlist coscente che non attraversa semplicemente l’esistente ma, con una rinnovata mira socio-culturale, si fa carico di costruire un percorso. Certo leggero, capace di esplorare con libertà e disinvoltura linguaggi e mondi, ma anche profondamente responsabile della ragione per cui si produce e viene fruito.
Ed è proprio su questo crinale che sembra volersi collocare Infactory, con i suoi lirismi e le sue esplosioni post-pop, il suo feroce minimalismo e i suoi momenti di distesa tenerezza. Nell’interpretazione di questi 2 performer, sospesi fra essere autobiografia e immediatamente dopo rivelarsi silhouette ritagliati da un giornale, c’è Super Man e il precariato, poesia e slang, la musica techno e una statua della Madonna a pezzi, la street art e il Commodore 64… Ma non si tratta di opposizioni o contrasti, quanto piuttosto di portare in scena − come nel teromorfismo che invoca la contaminazione che unisce, più che una metafora che, mettendo in relazione, separa − quella tensione tutta attuale che mira a riunire uomo e mondo, persona e altri esseri umani.
Infactory è uno spettacolo potente che all’inizio travolge davvero. Per il taglio concettuale, per le parole, per la ricerca visiva. Per i piccoli trucchi teatrali, per le soluzioni sceniche innovative. Per il modo, allo stesso tempo, profondo e leggero di cui parla della condizione umana attuale, fra individuo e società. E se poi rischia di diluirsi in mediazioni eccessive in quella che potrebbe essere riconoscibile come “seconda parte” − è percepibile un momento in cui i 2 performer sono più vicini, con azioni più concertate che vanno a scolorare l’incisività del contrappunto iniziale − va riconosciuto a teatrostalla l’irriducibile tentativo di dare avvio alla sperimentazione, alla messa a punto e alla fondazione di una ricerca linguistica originale, di cui Infactory trasmette in buona parte l’urgenza e le potenzialità, che si insinua con efficacia fra le pieghe delle tradizionali opposizioni fra cultura pop e poesia, fra testo e immagine, fra io e l’altro.
Visto a StArt Up, Teatro TaTà – Taranto
Roberta Ferraresi