intervista marco martinelli

La non-scuola approda nel Nord-Est: Eresia della felicità… a Venezia!

Eresia della felicità a Venezia - foto di Marco Zanin

Dopo aver “messo sotto sopra” tante città del Sud Italia, la pratica teatral-pedagogica del Teatro delle Albe è giunta, dallo scorso ottobre, nel Nord-Est, grazie all’attenzione e al sostegno della Fondazione di Venezia e di Euterpe. Due i gruppi di adolescenti coinvolti: il plotone di studenti del Liceo Classico Marco Polo di Venezia, e quello dell’Istituto Tecnico Edison-Volta di Asseggiano.  Sotto la guida di Marco Martinelli, Roberto Magnani e Laura Redaelli, i ragazzi di terraferma si sono uniti a quelli del centro storico, per incontrare e reinventare il testo teatrale di Vladimir Majakovskij, Mistero Buffo. Al coro della non-scuola veneziana si è unito anche un gruppo di bambini della Scuola Media Einaudi di Marghera, per dar voce alle liriche del poeta russo. Venerdì 30 marzo, i 60 adolescenti presenteranno al Teatro Aurora di Marghera Eresia della felicità a Venezia. Affresco non-scuola per Vladimir Majakovskij, mentre il 04 aprile il lavoro approderà al Teatro Goldoni di Venezia. Abbiamo incontrato Marco Martinelli, con il quale abbiamo approfondito alcuni aspetti del percorso laboratoriale e il passaggio del progetto Eresia della felicità dal Festival di Santarcangelo (08 – 17 luglio 2011) a Venezia.

Da quando la non-scuola ha iniziato il suo peregrinare, sono state tante le realtà, italiane e non, a essere contagiate dal metodo anti-accademico delle Albe. Ora siete giunti a Venezia e nel presentare il progetto di Eresia della felicità a Venezia, hai manifestato una curiosità nei confronti dei ragazzi del Nord-Est. Dopo cinque mesi di lavoro, cosa ti ha donato questa realtà?
Mi ha dato tanto. La Romagna da cui veniamo è uno strano Nord, è una sorta di Sud del Nord. Ma qui invece si respira proprio il Nord-Est, quello che ha segnato, disegnato l’Italia negli ultimi 20-30 anni. Dopo tanto Sud, dopo tanta violenza evidente nell’aria, qui ritrovi una oppressione meno clamorosa di quella di Scampia o di Mazara del Vallo o di Lamezia Terme. Qui si declina con un altro alfabeto. Ma così come c’è violenza, c’è anche bellezza assoluta, ci sono profili, volti, voci commoventi. Beatrice, una ragazza del Marco Polo ci ha chiesto: «ma perché con i ragazzi di Asseggiano vi baciate e abbracciate, e con noi no?». Le abbiamo risposto che non è che siamo noi che “decidiamo”, sono loro che hanno questa modalità e noi gli andiamo incontro così come andiamo incontro a quella dei ragazzi del Marco Polo, che è più composta. È avvenuto lo stesso in Senegal, ai “palotini” si dà solo la mano, non c’è abbraccio. C’è una pudicizia che impedisce questo. Diverso a Scampia che è il luogo in tutta Italia, tra quelli frequentati dalla non-scuola, in cui ci si abbraccia e ci si bacia di più, in continuazione, con tutti. Forse non a caso…

Il passaggio di Eresia della felicità da Santarcangelo a Venezia, l’incontro continuativo con i ragazzi in questi mesi, ha reso possibile innanzitutto un lavoro sulla riscrittura dell’opera di Majakovskij. Cosa è scaturito dall’incontro tra la tua scrittura e le parole degli adolescenti?
Eresia a Santarcangelo è stato un unicum, forse irripetibile. Qui, quello che avevamo capito di Eresia, ha incontrato la dinamica di progetti come Arrevuoto e Capusutta. A Santarcangelo avevamo lavorato sul Majakovskij poeta, al quale siamo tanto legati e non potevamo non portarcelo dietro. A Venezia abbiamo cercato un incrocio tra una drammaturgia non-scuola, basata su Mistero buffo (l’opera giovanile dello scrittore russo, ndr), la reinvenzione di una trama attraverso la fantasia e l’improvvisazione dei ragazzi, e quel coro e quelle liriche che per noi sono un faro indicatore per il futuro. Negli occhi del poeta russo quindicenne, che va in carcere solo perché sogna un’altra realtà, c’è rabbia e lucentezza. Quella lucentezza che ti serve per lavorare con i ragazzi: nel caos della prova tento di suggerire delle battute, delle situazioni, delle frasi, però sempre in relazione con quello che loro stanno facendo. Dobbiamo essere aperti tutti, sia io che loro: loro ad accettare le mie indicazioni, io ad essere pronto a vedere dove me le portano, come le trasformano. E spesso le portano là dove io non immagino, e spesso mi sorprendono. Se c’è un cardine nella non-scuola, è proprio questa possibilità di stupirsi; e questa è un’attitudine che poi ti porti dietro nel momento in cui vai a lavorare con gli attori delle Albe. Non immaginarti che nella non-scuola si giochi con la fantasia e nella compagnia si faccia sul serio; in entrambe le situazioni si prende sul serio la fantasia.

Eresia della felicità a Venezia - foto di Marco Zanin

Credo che Eresia della felicità a Santarcangelo abbia attribuito alla pratica teatral-pedagogica una nuova possibilità. La sua unicità riguarda molteplici livelli: dallo spazio, alla moltitudine di ragazzi, fino alla “chiamata pubblica” al Festival che ha portato una nuova scansione temporale nello sviluppo del laboratorio. Pensi che questa dimensione pubblica di Eresia sia stata possibile perché i ragazzi coinvolti avevano fatto precedente esperienza nella non-scuola?
In parte si. Dei duecento, più della metà erano stati precedentemente coinvolti, anche se non li ho contati esattamente (ride, ndr). Dopo Santarcangelo, mi è successo di tentare qualcosa del genere in tutt’altro contesto. Cosimo Severo, regista della Bottega degli Apocrifi, che opera al Teatro Comunale di Manfredonia, mi ha detto: «Perché non vieni qualche giorno a lavorare con 60 adolescenti di Manfredonia che non sono mai saliti sul palco, e vediamo cosa succede?». Abbiamo lavorato per tre giorni sui materiali di Eresia e alla fine abbiamo chiamato il pubblico. È stata una serata sorprendente, il teatro era strapieno e c’era nei “testimoni” una felicità e uno stupore come di chi vedeva una cosa per la prima volta, i ragazzi padroni di uno spazio dei grandi, il Teatro Comunale. E nello stesso tempo quella serata non aveva, non poteva avere i contorni forse davvero irripetibili dell’esperienza vissuta nei dieci giorni di Santarcangelo, in uno spazio come lo Sferisterio, all’aperto, con le persone che arrivavano, se volevano si fermavano, se no andavano via. Io credo che Eresia della felicità abbia dato a tutti qualcosa di unico ma, nello stesso tempo, penso bisogna fare attenzione a non adagiarsi negli esiti felici, che rischiano di trasformarsi in trappole. La scommessa dell’arte, per me come per Virgilio (Sieni, ndr) o per Punzo, quando lavoriamo con non-attori, non-danzatori, è sempre altissima e riguarda in profondità te stesso: se il mondo, il mercato ti chiede di ripeterti vuol dire che hai colto qualcosa di cui c’è bisogno – questo lo senti e in parte lo capisci. Ma l’obiettivo raggiunto non deve trasformarsi in una coazione a ripetere, che ti costringa a fare il pappagallo di te stesso. Un mercante di teatro internazionale tra i più intelligenti in circolazione mi rimproverava amabilmente, giorni fa, perché le Albe spiazzano il mercato, non si ripetono, non hanno uno stile unitario, cosa che invece il mercato esige. Ovvero se fai l’Alcina, e te la riconoscono come un capolavoro, devi continuare a farla per tutta la vita! No, a noi non piace: magari così facendo, così ripetendo, gireresti di più all’estero, e ti guadagneresti sì il mondo, ma in cambio perderesti l’anima. E a noi proprio non piace svenderla, l’anima.

Hai spesso parlato del fatto di creare una coralità anche come forma di tutela per il ragazzo nel momento in cui si trova di fronte a uno spettatore. Questo diviene poi “testimone” dell’evento, ma rimane comunque un primo impatto pubblico…
A Santarcangelo dopo pochi secondi, appena cominciavamo a cantare in coro, ci dimenticavamo del pubblico, a me succedeva così e sono sicuro lo stesso avveniva ai ragazzi. Cominciavamo la canzone Tutte le cose sotto della luna in cerchio, questa era la forma iniziale che ci proteggeva dal dare spettacolo, poi quella forma si apriva e si trasformava in frontalità, quindi inevitabilmente spettacolo. Partire dal cerchio voleva dire protezione, il non dover dimostrare niente a nessuno, l’essere coerenti con l’aver appellato “testimoni” e non “spettatori” i presenti.

Si è parlato tanto, e se ne continua a parlare, di teatro salvato dai ragazzini. Ma in questa possibilità del teatro di uscire da una situazione di crisi, entra in gioco l’intervento di enti e istituzioni. Quale pensi possa essere la via percorribile dalle istituzioni per sostenere questo salvataggio e porre un freno all’omologazione che è in atto nel teatro per l’infanzia? E innanzitutto, trovi che si stia correndo questo rischio di omologazione e mercificazione nel lavoro con bambini e con non-professionisti?
Io vedo pochi spettacoli di teatro ragazzi, perché non ne ho il tempo, non sono in grado di dare un giudizio. Sicuramente quello che dicevamo prima sul nostro rapporto con il mercato, vale anche in relazione alle istituzioni. Si deve essere attenti a non farsi accalappiare, si deve anche saper scegliere le istituzioni giuste, perché non tutte hanno la stessa sensibilità. A Venezia ci siamo trovati davvero molto bene con la Fondazione di Venezia, che non ha solo voluto e finanziato il progetto, lo ha accompagnato con intelligenza, appuntamento dopo appuntamento: Cristina e Stefania e Nicola sono stati per noi dei veri alleati, capaci di coinvolgere insegnanti e operatori sociali, persone preziose nel tenere in piedi un progetto ambizioso come questo, con 60 adolescenti per la prima volta sul palco.

 

Intervista a cura di Elena Conti

Scarica il depliant dello spettacolo Eresia della felicità a Venezia

Agli antipodi dell’insegnamento per la rifondazione della comunità

Intervista a Marco Martinelli – Teatro delle Albe

foto di Stefano Cardone

Ha un sorriso contagioso e penetrante Marco Martinelli mentre parla dei suoi “barbari”: gli adolescenti coinvolti nei laboratori teatrali svolti all’interno di licei ed istituti superiori ravennati e non. Lo abbiamo incontrato alla Fondazione di Venezia in occasione di “Eresia della felicità”, un momento di confronto sulla pratica teatrale della non-scuola del Teatro delle Albe. Il titolo dell’evento rimanda all’azione corale che riunirà in luglio, in occasione del Festival di Santarcangelo 2011 diretto da Ermanna Montanari (co-fondatrice del Teatro delle Albe), duecento dei ragazzi delle diverse “periferie” del mondo, autori delle messe-in-vita della non-scuola: un incontro di culture che lascia emergere un concetto di comunità da tempo accantonato e che genera stupore di fronte alla bellezza della “semplicità” con la quale viene fermamente reclamato.

Il progetto della non-scuola compie vent’anni. Grazie a cosa è nato? Come è stato possibile partire da un gruppo ristretto di ragazzi coinvolti per poi ampliarsi fino a creare un sottosuolo così vivace in particolare nella città di Ravenna?
Nel 1991 il Comune di Ravenna ci diede in gestione il Teatro Rasi, uno spazio comunale, dopo che per anni e anni eravamo stati un gruppo indipendente, nomade, che lavorava dove poteva. Avere in mano un teatro può risultare un cattivo incantesimo, che trasforma un giovane fiero teatrante in un burocrate. Noi accettammo di entrare dentro questa “trappola” con la convinzione – e la presunzione – di non rimanerci impigliati dentro. Si trattava di diventare “stabili”, e nello stesso tempo restare “corsari”. Pensammo fin dall’inizio che dovevamo essere una contraddizione vivente, un luogo dell’Istituzione, sì, in quanto spazio comunale, che però doveva ardere della nostra passione ed essere in questo modo riconosciuto dai cittadini (giovani e non più giovani) come luogo di pensiero e di visioni. All’epoca non sapevamo come dar corso a questa intuizione: tu desideri, ma spesso non sai come portare avanti il tuo desiderio. Non avevamo mai lavorato prima con gli adolescenti: decidemmo di andare nelle scuole perché sentivamo che lì c’erano i nostri complici, i potenziali alleati per continuare ad ardere come teatro. Così è stato. Abbiamo scoperto che i ragazzi che odiavano il teatro e lo vivevano come una tortura, quasi una punizione corporale da cui fuggire – perché a quindici anni i più amano il rock, la discoteca, il calcio, amano mondi dove il corpo e la mente non sono separati, dove l’immaginazione corre – abbiamo scoperto che la loro anarchia poteva essere messa in corto circuito con i grandi classici, con Aristofane, Molière, Shakespeare. Questa è stata la scaturigine della non-scuola, come due legnetti che sfregati assieme fanno venir fuori la scintilla, l’energia: un polo sono gli “asini”, i “barbari”, e l’altro sono le grandi favole della tradizione che non aspettano altro che qualche cuore intrepido le tiri fuori dalla polvere.

Quanto sono cambiati questi “barbari” dal ’91 ad oggi?
Innanzitutto sono aumentati di numero in maniera vertiginosa: se il primo anno erano trenta, nel giro di due-tre anni sono diventati trecento. Ogni anno lavoriamo con un numero oscillante fra i 300 e i 400 ragazzi che a Ravenna con noi “massacrano” i classici; questa epidemia, nel giro di vent’anni, ha modificato il tessuto teatrale della città. Migliaia di adolescenti hanno scoperto che il teatro non è un rito inutile, vuoto, che non ci tocca nel profondo – come tante volte si riduce ad essere. Hanno scoperto che è molto più eccitante di una PlayStation. E da lì non ci siamo più liberati di loro. Il nostro teatro è un porto di mare in cui entrano ed escono, sanno che è un luogo anche loro.

foto di Stefano Cardone

A proposito del massacrare i classici: come avviene tutto questo? C’è un lavoro paritario, non di regista e attore…
La figura che fa da medium tra gli adolescenti e i classici non la chiamiamo “regista”, ma “guida”. L’adolescente che ti trovi davanti non è una nuova pedina che va a ingrossare le fila della società dello spettacolo: l’adolescente è il re, e tu guida sei solo l’umile servitore, il medium tra la sua energia vitale e il testo della tradizione.
All’inizio bisogna trovare – non è una ricetta, è piuttosto un principio orientativo del lavoro – il nodo di quella che noi chiamiamo non la “messa-in-scena” ma la “messa-in-vita”. Occorre cioè trovare una situazione drammaturgica (in relazione con il testo su cui si lavora, beninteso: ma questo è importante che lo sappia la guida…), che sia fortemente legata alla vita degli adolescenti. È la prima fase del lavoro, in cui si mette da parte il testo antico e attraverso le improvvisazioni, il gioco, la creazione di energia, emergono i loro sogni e i loro desideri, quello che non dicono né ai professori né ai genitori – cioè il meglio. Questa è la benzina con la quale cominciare a costruire l’opera: in questo modo i ragazzi percepiscono di essere loro, gli “autori”. In una seconda fase invece – e qui la guida deve avere notevole capacità sul piano drammaturgico – tutto questo materiale va messo in relazione con l’impianto narrativo del “classico” che ancora ci parla. E in tale alchimia può avvenire che tante battute del testo originario, tanti frammenti, a volte anche intere pagine, ritrovino spazio all’interno del nuovo racconto scenico, che mescola in profondo le invenzioni degli adolescenti e la favola antica. Il primo lavoro che facemmo a Scampia nel 2005 con settanta adolescenti sul palco era La pace di Aristofane. In realtà il testo non l’abbiamo mai letto insieme. Gliel’ho raccontato all’inizio del lavoro e loro hanno detto: «questa è la nostra storia». Occorre essere lucidi nel saper creare intarsi e intrecci tra le improvvisazioni e la bellezza, la follia di questi classici.

La non-scuola parte da te e da Maurizio Lupinelli. Come è avvenuto il passaggio di testimone da voi alle guide? Quali sono i requisiti richiesti a queste figure?
All’inizio eravamo io e Maurizio, con una bicicletta in due: lui mi portava, andavamo in giro in questo modo da una scuola all’altra. Per noi la non-scuola è proprio lo spirito della bicicletta. Abbiamo iniziato con tre scuole, poi il lavoro è cresciuto a dismisura e non riuscivamo più a tener testa a tutte le chiamate. C’era in atto una tale “epidemia” che bisognava trovare qualcun altro che partecipasse al progetto, così abbiamo chiesto a degli amici registi di fare da guida all’interno della non-scuola. In questa seconda fase di necessario allargamento c’era però qualcosa che non andava: era come se, dello spirito della bicicletta, riuscissimo a comunicare solo dei principi astratti; e gli amici registi, pur con tutte le loro buone intenzioni, restavano “registi” e non si trasformavano in guide. Poi il tempo, lo scorrere degli anni, ha creato una magia che non avevamo preventivato: alcuni di quei quindicenni che avevano cominciato con noi, i più bravi, i più tenaci e i più ammalati di teatro, quando hanno avuto vent’anni hanno cominciato a lavorare nella bottega delle Albe e sono diventati le nuove guide della non-scuola, guide “ideali” in un certo senso, perché l’avevano appena vissuta da studenti. È come nelle famiglie tradizionali contadine, dove è la bambina più grande che diventa la mamma dei più piccoli – ma naturalmente, nell’intrecciarsi dei legami che formano una tribù, una comunità.
Alla guida viene sì richiesto di avere un sapere teatrale, ma prima ancora le si chiede di possedere il dono dell’ascolto, la capacità di far sentire agli adolescenti che li stai prendendo sul serio. È l’unica cosa che chiedono, non vogliono sapere altro da te, non gliene frega niente se hai vinto cinquanta premi Ubu; non sanno nemmeno che cosa sia il premio Ubu. Per loro sei un “nessuno”, e questa se la sai leggere è una grazia caduta dal cielo, una lezione di umiltà. Penso a Ermanna che a Scampia cuciva gli orli dei costumi dei più piccoli. Ti devi guadagnare la loro fiducia sulla base di qualcosa di molto profondo. La guida deve saper dire-senza-dirle queste poche, essenziali parole: «siamo io e te adesso, siamo qui a fare qualcosa che per me è importante, se lo è anche per te lo sarà per tutti noi». Gli adolescenti non sono quel plotone grigio che descrivono i sociologi: sono creature magnifiche che amano il teatro quando sperimentano in esso un luogo di libertà.

La fascia d’età dei ragazzi a cui vi rivolgete è molto interessante e delicata: la scuola superiore. Hai mai pensato di coinvolgere anche le scuole medie piuttosto che elementari?
Fino ad Arrevuoto, così abbiamo chiamato la non-scuola a Scampia, non lo avevamo mai fatto. Ci siamo andati nel 2005, dopo quasi quindici anni di non-scuola a Ravenna. Eravamo convinti che fosse meglio non lavorare con ragazzi più piccoli, ma anche consapevoli però che non si trattava di esportare meccanicamente un metodo di lavoro, ma di entrare in relazione con l’anima del luogo che ci ospitava. A Scampia un’insegnante, Federica Lucchesini, ci ha chiesto di inserire anche i bambini della scuola in cui insegnava, la media “Carlo Levi.” All’inizio ho fatto resistenza. ma la tenacia di questa insegnante, questa ragazza che veniva da Pavia e che era là come in terra di missione, mi ha commosso e mi son detto «proviamoci!». È stata un’esperienza sorprendente, e da allora anche a Chicago, in Senegal, in Belgio, a Mazara del Vallo – altri luoghi nel mondo in cui abbiamo lavorato con la non-scuola – da allora abbiamo sempre mescolato bambini e adolescenti, trovando in questo un’alchimia preziosa.