Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Peppino Mazzotta presente a Primavera dei Teatri con Radio Argo.
1. Come definirebbe il suo teatro?
Faccio un teatro d’attore. Ho sempre inseguito il concetto di attore medium, dove lo stile, la tecnica fosse una minima parte e dove si cercasse di essere un’antenna per rendere leggibile quello che normalmente non lo è ma che c’è (se non c’è un’antenna che lo catalizza non si vede). Essendo legato alla tragedia greca, penso a questo famoso hypocrisys, colui che rispondeva e diceva “mostra il sogno, rendi visibile a una platea di uditori qualcosa che fino a quel momento non lo era”; ecco la funzione medianica di antenna; in questa ottica la figura del regista può essere anche un elemento di disturbo: il cerchio medianico è quello fatto da un medium e da tutti quelli che tengono le mani unite (il pubblico). Un individuo che si mette fuori da questo cerchio potrebbe essere utile o potrebbe essere non utile.
2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Non lo so, io non so come definire il teatro di nessuno. Hanno cercato tanti nomi… Penso che alla fine ci sia una differenza che si fa per ragioni di database; bisogna dare dei nomi e allora c’è il teatro classico e il teatro contemporaneo, poi più di questo non direi perché è difficile andare oltre.
3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Non lo spiegherei. Io penso che anche chi affronta un testo classico, come può essere Tartufo di Molière, deve porsi un problema con il proprio spirito di ricerca che si attiva con quel materiale. Ora, lo spirito di ricerca ce lo hanno tutti, gli attori, i registi e anche le persone che non fanno questo lavoro. È una specie di tendenza che ha l’essere umano che riesce a ragionare su di sé e avere coscienza di sé. Quindi, quando si attiva lo si esercita e nel nostro caso si attiva spesso perché abbiamo una cosa da mettere in scena o un testo o una scrittura scenica… Io la ricerca la intendo così, quanto profondo è lo spirito di ricerca in te come individuo e quanto vuoi andare a scavare in questo tuo bisogno.
4. Radio Argo in una frase.
È la riscrittura de L’Orestea da parte di un poeta vivente e anche giovane perché ha 35 anni. Prende in considerazione quasi tutti i personaggi che entrano nella vicenda anche se non ci sono ma se ne parla, come Elettra ed Elena; per il resto i personaggi ci sono tutti.
5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
È una realtà talmente consolidata che è inutile fare commenti. È uno dei festival più importanti e anche appetibili per chiunque fa questo mestiere, soprattutto in ambito di linguaggio “contemporaneo”. Sicuramente è uno dei festival a cui uno pensa subito o per primo quando deve presentare qualcosa al pubblico o alla critica. Poi – io sono calabrese – il fatto che sia qui in Calabria mi fa particolarmente piacere: abbiamo bisogno che ci siano persone che si impegnino a fare festival del genere perché è l’unico modo di entrare in contatto intanto tra di noi, poi anche con il pubblico – a parte con la critica che si incontra anche da altre parti. Insomma è molto importante, poi è organizzato molto bene.
6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Nessuno, io non amo molto i registi; ci lavoro spesso e ci lavoro anche bene, ma non amo quei registi che vogliono fare in qualche modo i medici, che vogliono convincerti che per entrare nella loro idea devi capire che in te c’è qualcosa di sbagliato. Poi spesso lavoro con registi molto capaci che diventano stimolatori di processi con gli attori e questo mi piace molto. Se fosse un regista cinematografico la mia vita filmata e gestita da Kubrick non mi dispiacerebbe.
7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Tartufo di Molière con la regia di Toni Servillo al Teatro Argentina di Roma perché è stato il primo impatto vero con la grande responsabilità in scena. Io facevo Tartufo, Toni era Orgone e io ero abbastanza giovane, avevo 27 anni. Lì ho capito quanta forza ci voleva per sostenere un certo tipo di responsabilità quando stai in scena, soprattutto quando hai un personaggio come Tartufo nel Tartufo di Molière: devi funzionare perché sennò tutto il resto… Mi ha cambiato la vita anche perché ho incontrato Toni che già era una figura importante nel teatro, era una persona che incontravi e ti rendevi conto che aveva un talento, una dote, un’intelligenza teatrale straordinaria che poi si è sempre più dimostrata negli anni. Poi l’altro spettacolo è Arrobbafumu, testo di Francesco Suriano, con cui sono venuto anche qui (a Primavera dei Teatri, ndr) ed è uno spettacolo in dialetto calabrese che ha avuto tanta fortuna, un testo veramente bello; abbiamo girato 5 anni e facevo il ruolo di una vecchietta calabrese.
8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Io ultimamente faccio solo drammaturghi contemporanei da qualche anno, quindi già è successo. Ho fatto Tomba di cani di Letizia Russo, autrice giovanissima che poi ci hanno rubato gli inglesi perché è andata a scrivere per la Royal Shakespeare Company e che aveva vinto premi Ubu – c’era Franco Quadri che la amava molto. Poi subito dopo ho fatto il testo di Francesco Suriano, che è un drammaturgo molto molto bravo. Poi ho fatto il testo di Mimmo Borrelli, anche lui pluripremiato, dal titolo ‘Nzularchia scritto in dialetto napoletano arcaico, complicatissimo, tutto in endecasillabi. E ora Radio Argo che è un testo di Igor Esposito, un poeta napoletano.
Un po’ è un caso e un po’ me li vado a cercare perché ci tengo a fare la drammaturgia contemporanea; al di là di tutto, se poi viene bene o male, è importante che una comunità si confronti con quelle persone che sono delle antenne e che riescono a essere uno strumento di presenza sul presente; lo scrittore è questo. Poi se mi è piaciuto o non mi è piaciuto, se lo spettacolo era scritto malino o benino non importa perché senti la voce del presente, senti uno che lo fa di lavoro e che con la sua sensibilità riflette su quello che succede a lui in quel momento. Una comunità, oltre aver bisogno dei classici, che sono sempre degli ottimi maestri, ha bisogno anche di sentire che cos’è il presente. Poi una cosa molto curiosa: ieri ho visto quello di Bernhard (Il Presidente per la regia di Carlo Cerciello, ndr) ed è un testo che ragiona di potere, ragiona su un presidente dittatore che fa dei discorsi a un’ipotetica platea di uditori in cui si esprime sinceramente, si manifesta per quello che è. Casualmente Igor Esposito scrive praticamente una cosa sugli stessi temi, c’è un dittatore che parla… Significa che quando si sta nel presente coloro che hanno il compito o la vocazione – come gli scrittori – di ascoltare il presente, poi bisogna fare in modo che la gente li senta perché sono la Presenza e una comunità ha bisogno anche di questo. Per questo me li vado a cercare.
9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Il teatro come sede della compagnia a me non dispiacerebbe, è una cosa che si sta tentando da tanti anni; tutti dicono che bisogna cercare di creare luoghi dove avvengono delle cose piuttosto che andare in giro. Ma ciò non può accadere in Italia, c’è un impedimento, perché l’Italia è molto democratica per ciò che riguarda il teatro: in ogni paesino c’è un teatro; spostare tutto nei centri e fare in modo che poi il pubblico si sposti come succede in tutta Europa – perché in Europa non c’è il teatro di giro – rischia di fare in modo che una quantità di popolazione nonostante abbia il teatro lì non riesce a vedere nulla. Altro motivo per cui non si fa perché al teatro di giro è vincolata un’economia e quindi bloccare quell’economia significa subire le resistenze di chi quell’economia la vuole viva perché gli serve. Il Paese è abituato fortemente a un altro tipo di dinamica, anche del pubblico; in Germania per vedere Stein il pubblico si sposta, si fa anche 300 km perché è normale; in Italia il pubblico non è abituato, deve essere un evento altrimenti non si sposta.
10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Io sono di quelli che pensa che il teatro è morto ma perché è nato morto. La cosa che ancora, sempre di più, renderà il teatro importantissimo è il fatto che è una seduta medianica, è una cosa che avviene in quel momento, non c’è più riproduzione dell’arte attraverso il video, la pellicola, la foto, il suono; è una cosa che ancora avviene solo lì, se stai lì mi senti, in quel momento il mio cuore batte e nello stesso momento batte anche il tuo, se io ho un incidente tu vivi il mio incidente insieme a me… Appena finisce, è finito; lo conserva la memoria che è un pessimo magazzino – si modifica troppo rapidamente ed è troppo legata alla soggettività di ognuno –; diventa un evento della memoria, inizia e finisce un’esperienza. Fare un ragionamento troppo elaborato sullo stile, sulla questione formale del teatro è una cosa secondaria; il ragionamento si deve fare su come far sì che ci sia quell’accadimento; se questa cosa dell’accadimento viene a mancare allora il teatro non serve più ed è meglio il cinema che ha un linguaggio legato al presente perché è giovane ed è nato nel presente.
Biografia di Peppino Mazzotta
Peppino Mazzotta è nato a Domanico, Cosenza. Dopo lo spettacolo Illuminato a morte, è alla sua seconda regia teatrale. A teatro ha lavorato come attore con Toni Servillo, Francesco Saponaro, Carlo Cerciello, Francesco Suriano ed altri. Per il cinema ha lavorato come attore in diversi film tra i quali: Noi credevamo di Mario Martone, Cado dalle nubi di Gennaro Nunziante, Il pugile e la ballerina di Francesco Suriano. Per la televisione è il volto dell’ispettore Fazio nei film Il commissario Montalbano. Ha vinto diversi premi come miglior attore, tra i quali: Prima Fila – Salvo Randone 2003, Film Lab Festival 2005, Corto Viterbo 2007. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)