intervista roberto casarotto

Intervista a Roberto Casarotto, neo direttore del Balletto di Roma

Curatore di progetti internazionali di danza contemporanea, consulente artistico per il programma di danza di OperaEstate Festival Veneto per il Comune di Bassano del Grappa, promotore e ideatore di progetti di danza del Centro per la Scena Contemporanea, il programma di residenze, ricerca, produzione e formazione, Roberto Casarotto è stato da poco nominato direttore artistico del Balletto di Roma. Per l’occasione abbiamo intervistato il neo direttore, da sempre dedito alla promozione della cultura della danza e grande sviluppatore di diverse esperienze nella progettazione europea. 

Vorrei iniziare l’intervista proprio con la notizia della nomina a direttore artistico del Balletto di Roma: come è arrivata e come accogli questa nuova sfida?

Roberto Casarotto

Roberto Casarotto

Questa nomina è giunta inaspettatamente: Luciano Carratoni, direttore esecutivo del Balletto di Roma, è arrivato a me tramite Theresa Beattie, freelance inglese nell’ambito della danza che collabora con la Royal Opera House, Arts Council of England e con altre grandi istituzioni. Proprio nel contesto del Royal Ballet ha conosciuto Luciano Carratoni e Paolo Mangiola, artista che ha lavorato come danzatore-interprete per Wayne McGregor ed è stato ospitato a Londra nel 2014 proprio col Balletto di Roma per cui ha coreografato il lavoro We/Part. In quel contesto Carratoni e Mangiola parlavano di sviluppi per il Balletto di Roma, di ricerca, di un percorso di direzione artistica; proprio lì è stato proposto il mio nome. Entrambi si sono recati a Bassano nell’estate 2014 per seguire B.Motion danza, di cui mi occupo, e hanno potuto vedere e toccare con mano tutte le proposte del festival: si sono confrontati con tutte le offerte didattiche, il programma di spettacoli, gli incontri, le attività collaterali. Da lì sono poi partiti i dialoghi che mi hanno portato a essere invitato a lavorare per il Balletto di Roma.

Sei uno degli operatori italiani tra i più attivi nelle costruzioni di rapporti e progetti internazionali, creatore di network importanti e progetti fondamentali per lo sviluppo della danza. Come si rifletterà nel Balletto di Roma questa tua grande capacità? Come ne beneficerà il Balletto?
Ho incontrato il Balletto durante la mia formazione, in ambiti italiani e non, ma è un mondo che sto imparando a conoscere. Il Balletto e le compagnie di repertorio in generale assumono una identità e delle particolarità molto peculiari nel nostro Paese, legate alla nostra storia e alla storia della cultura della danza in Italia. Sto cercando di essere un elemento di contatto tra quella che è l’esperienza nell’ambito della ricerca coreografica indipendente – penso a tutti i progetti fatti nell’ambito del network delle Case della Danza Europee – e la modalità di lavoro che si sviluppa all’interno di un contesto come quello del Balletto. In questo percorso cerco di trovare delle forme di dialogo in modo che non si creino delle conversazioni univoche ma ci si ispiri a vicenda. Questa è la mia sfida.

Un cambiamento costruttivo per il Balletto di Roma?
È una missione molto diversa da quella che ho svolto per Bassano, dove mi è stato chiesto di fare un lavoro legato allo sviluppo della danza italiana, dei talenti, della ricerca coreografica, della sperimentazione. Qui mi viene chiesto di portare verso altri contesti una compagnia che ha cinquantacinque anni di storia e delle caratteristiche molto particolari, che è presente in situazioni molto specifiche nel nostro Paese e ha un pubblico che attualmente apprezza il repertorio esistente. Quindi parte della sfida sarà lavorare su una diversificazione delle proposte artistiche, impegnandosi a esprimere i diversi linguaggi coreografici.
È anche per questo che con la mia direzione artistica ho scelto di avere come coreografi associati delle figure che portassero almeno tre approcci molto diversi alla creazione, alla presentazione di spettacoli. Fabrizio Monteverde ha una grande storia, appartiene al mondo della coreografia italiana: per me sarà molto interessante vedere come dialogare con lui e cercare di valorizzare la sua figura anche in un contesto internazionale. E lo stesso vale per Paolo Mangiola e Alessandro Sciarroni.

Alessandro Sciarroni durante Folk-s

Alessandro Sciarroni durante Folk-s

Mentre Mangiola e Monteverde hanno già collaborato col Balletto, la scelta di Sciarroni è del tutto inaspettata, una scelta che definirei quasi “politica”…
Con Sciarroni abbiamo condiviso un certo percorso, lo invitai a Bassano molti anni fa a seguire dei progetti europei; forse tra questi artisti è la persona con cui in questi anni ho avuto un dialogo più profondo. Qualche anno fa mi manifestò la curiosità e il desiderio di entrare in contatto col mondo del balletto e da lì è nata una serie di pensieri che abbiamo sviluppato nel tempo. Quando ho scelto sapevo con sicurezza di avere vicino un artista con un interesse pregresso e con la voglia di confrontarsi con artisti e danzatori provenienti da un mondo più accademico e più neoclassico.

Quali sono le tue aspettative e come pensi che i due percorsi, quello più classico del Balletto e quello più particolare di Sciarroni, possano accrescersi l’un con l’altro?
Nei lavori del suo ultimo periodo, Sciarroni si è approcciato con grande rispetto ai linguaggi che ha voluto coinvolgere. Con lo spettacolo Folk-s si è avvicinato alla pratica dello Schuhplattler – danza tirolese documentata da più di 1000 anni – e ha lavorato, in un contesto contemporaneo, su dei codici di un linguaggio rimanendo molto fedele a quello praticato in Südtirol. Con lo spettacolo Untitled ancora una volta si è accostato a un determinato linguaggio – quello dei giocolieri – e non ha imposto la sua grammatica. Per questo penso che Sciarroni ricercherà, nel modo che troverà più consono, il suo metodo di avvicinamento a questo mondo; ed è anche per questo che l’ho voluto, proprio per proporre ai danzatori della compagnia una figura che potrebbe portare veramente degli approcci molto diversi, nel rispetto della individualità e dell’essere un gruppo con determinate caratteristiche, proprio come nel caso del Balletto di Roma. Per cui Sciarroni è una scelta non politica ma artistica, che nasce dalla condivisione di alcuni valori artistici che mi sento di dire affini e vicini entrambi. Quello che sarà il lavoro di Alessandro con la compagnia si svilupperà in un percorso triennale, per cui la modalità di conoscenza e di dialogo si articolerà in una serie di appuntamenti prima di arrivare a un processo creativo e alla messinscena di uno spettacolo.

Da qui a tre anni, quali sono i diversi step e gli obiettivi che vorresti raggiungere con il Balletto e con queste tue scelte?
Innanzitutto, per me, c’è il discorso del radicamento nel contesto in cui una struttura opera. Vorrei, da un lato, capire come trovare diverse modalità di dialogo con il territorio in cui il Balletto di Roma è nato e si è sviluppato e che si radicasse nella sua città e in Regione, perché al momento è molto più presente altrove che in Lazio. Da un punto di vista più interno, dall’altro lato, mi piacerebbe costruire un forte legame fra il percorso didattico della scuola del Balletto e il percorso artistico della compagnia; e, parallelamente, lavorare sui bellissimi spazi che ha a disposizione, facendo del Balletto un luogo in cui l’incontro e il dialogo siano gli elementi fondanti con l’idea di “casa” aperta sia al lavoro di artisti che si esprimono con linguaggi diversi, che a tutto l’universo della formazione (dai più piccoli ai professionisti) – in una città in cui, fra l’altro, la disponibilità dei luoghi per la ricerca spesso è molto rara.

"We / Part" del Balletto di Roma, coreografia Paolo Mangiola

“We / Part” del Balletto di Roma, coreografia Paolo Mangiola

Poi, c’è il piano delle collaborazioni internazionali. Ho già annunciato quella con il Cullberg Ballet che inizierà quest’estate: la coreografa invitata – lavorerà con gli artisti del Cullberg, del Balletto e di altri centri europei – è Deborah Hay, insieme alla compositrice-performer Laurie Anderson. Considero anche questo un primo passo verso forme di dialogo – in questo caso tra compagnie legate a un certo contesto artistico – che si costituiscono alla volta di pensare e condividere delle progettualità con altre realtà europee anche dal punto di vista produttivo (pratica che fino ad ora non mi pare sia stata molto utilizzata in questo contesto).
Più ampiamente, nel contesto del dialogo che si sta già creando con altre compagnie di repertorio neoclassico, stiamo ragionando insieme ad altri colleghi direttori sulle modalità di crescita artistica di questo tipo di ensemble e in particolare di individuare approcci nuovi per quanto riguarda lo sviluppo delle professionalità coreografiche – anche qui c’è necessità di nuovi talenti. Si tratta di compagnie e artisti che generalmente hanno forti restrizioni in termini di disponibilità di tempi e spazi per la ricerca e la creazione, perché sono contingentati dai numerosi impegni delle tournée. I danzatori che lavorano in questi contesti hanno ritmi di lavoro molto serrati: devono seguire tutti i giorni una classe tecnica, hanno le prove e poi magari la sera devono andare in scena; si spostano da una città all’altra, hanno stress di viaggio e di fatica per il tour che sono fisicamente molto intensi. Penso ad esempio a un’esperienza che ho potuto seguire, dove all’artista invitato a creare per una grande compagnia di più di venti danzatori sono state messe a disposizione per la creazione soltanto due ore e mezza al giorno per due settimane, e poi lo spettacolo doveva andare in scena. Spesso, sono questi i tempi di lavoro in contesti di questo tipo. Artisti e danzatori sono abituati a lavorare in modalità che, per chi proviene dal mondo del contemporaneo indipendente, risulta abbastanza lontana da una pratica condivisa: ad esempio, dai concetti di residenza e di sperimentazione, che hanno spazi e tempi molto diversi.
Però, qui, si può lavorare con artisti – mi riferisco ai danzatori – con doti tecniche ed esecutive, nonché una capacità di memorizzare, straordinarie. Per cui spero davvero di poter costruire delle opportunità di dialogo, in modo che alcuni coreografi legati a una visione più contemporanea possano farsi ispirare dai danzatori del Balletto e, allo stesso tempo, che questi ultimi possano essere anch’essi ispirati dalle diverse modalità che definiscono i contesti del contemporaneo indipendente.

Da svariati anni sei responsabile dei progetti di danza internazionale del Festival OperaEstate. Come concilierai questi incarichi? Prevedi delle collaborazioni?
Sono già state attivate delle collaborazioni: le due organizzazioni hanno ben accolto la possibilità di dialogare assieme e lo dimostra il fatto che OperaEstate, assieme al Balletto di Roma, sarà il coproduttore dello spettacolo realizzato con il Cullberg Ballet, Deborah Hay e Laurie Anderson. Quello che cercherò di fare sarà certamente di far dialogare le due realtà ma nel rispetto della loro natura e dei loro obiettivi, proprio per non costruire degli artifici nel sistema della danza.
Credo che ci sia la possibilità di dar vita a delle grandi opportunità mettendo assieme le diverse competenze e le diverse specificità; dovrò quindi impegnarmi anche per imparare a costruire questo tipo di dialoghi, spero anche con altre realtà del territorio italiano oltre che internazionale.

Intervista a cura di Carlotta Tringali

Come si lavora a Operaestate: scouting, collaborazioni e progettualità europea

Da qualche anno la creatività emergente delle arti performative del Nord Est si è imposta all’attenzione dei palcoscenici nazionali e non solo, fino a richiamare all’interno di questo territorio anche artisti di altra provenienza, italiana e internazionale. Ma cos’è che spinge tanti giovani artisti della danza e del teatro a venire da queste parti per formarsi, per creare le proprie produzioni e mostrarle?
L’operatività di Operaestate Festival Veneto – che vede alla direzione Rosa Scapin con Carlo Mangolini, mentre Roberto Casarotto è responsabile del Progetto Danza Internazionale – negli ultimi anni si è distinta per energia e vitalità, andando a costituire un caso rappresentativo di sperimentazione e innovazione. La struttura, parte fin dalle origini della pubblica amministrazione, si occupa di aspetti che vanno ben oltre la tradizionale concezione del festival-vetrina e si esprime nei termini di un concetto di produzione allargato. Processi di scouting e percorsi formativi, sostegno alla ricerca e opportunità di mobilità, progettualità europea e interazione con soggetti privati sono alcune delle particolarità che distinguono oggi il lavoro di questa realtà ormai più che trentennale. Siamo andati a incontrarla per comprendere come si siano sviluppate alcune di queste peculiarità, che compongono in parte la base a partire da cui tanti giovani artisti della danza e del teatro veneti e non solo hanno affinato la propria ricerca.

Le Bolle Nardini – foto di Adriano Boscato

Un primo aspetto distintivo del lavoro di Operaestate si può rinvenire nel contesto di esperienze di collaborazione con realtà private, che vanno ben oltre il tradizionale concetto di “sponsorizzazione”.
Rosa Scapin: Premetto che “sponsorizzazione” è una parola che non vogliamo più sentire da almeno dieci anni, nel senso che non esiste una dimensione di questo tipo: tutti i sostegni offerti dalle aziende al Festival vengono concordati insieme, a seconda dei rapporti che si instaurano e delle esigenze che vengono espresse. Si tratta soprattutto di concessioni di spazi, di progetti di benessere culturale per i dipendenti e, in qualche caso, di relazioni strutturate nei termini della produzione di nuove opere.
L’esperienza esemplare, in questo contesto, è quella che ci lega alla Ditta Nardini, che fa capo a una famiglia con consistenti interessi per le arti e i linguaggi del contemporaneo. Nel 2002 L.i.s. ha creato Grappa alchemica – finora è l’unica esperienza di creazione in azienda, ma è un tema che emerge con i soggetti che abbiamo avvicinato in tempi recenti e che abbiamo intenzione di avvicinare: utilizzare gli spazi e i prodotti, le innovazioni e la vitalità dell’azienda per mettere in atto nuove creazioni che sappiano combinare entrambe le creatività, ossia quella espressa dagli artisti e quella espressa dall’azienda. È un tema all’ordine del giorno, molto interessante e stimolante: come si intersecano industria creativa e la creazione nelle arti performative? Ma è anche difficile da sviluppare: se una prospettiva simile si realizza, deve accadere perché serve sia a noi che all’artista che all’azienda, innescando un processo virtuoso che abbia una ricaduta importante per tutti.
Carlo Mangolini: Infatti l’esperienza di Grappa alchemica non a caso è stato unica finora: il tema dell’alchimia e della distillazione si è tradotto in uno sviluppo artistico a partire dal prodotto, per cui metteva in forte comunicazione i due piani. È rimasto a ora un’eccezione perché non è semplice che i piani si intersechino in modo tale che lo stimolo produttivo diventi poi anche funzionale – è fondamentale che ci sia questa coincidenza – alle politiche dell’azienda. Il che non è assolutamente facile.
R.S.: Poi, la collaborazione con la Ditta Nardini si è sviluppata con il Garage, che ci è stato offerto nel 2007 ed è stato inaugurato l’anno successivo, e con l’utilizzo delle Bolle per gli spettacoli di danza contemporanea.
Già in precedenza avevamo avviato progetti di formazione e residenza, utilizzando il Teatro Astra…
C.M.: Il primo progetto europeo è stato The Migrant Body nel 2006. Ma in realtà, ancora prima era emersa la necessità di utilizzare uno spazio che non fosse teatrale in senso convenzionale. Abbiamo cominciato a cercarlo fin da quando sono arrivato nel 2001, perché c’era la consapevolezza che uno spazio del genere avrebbe fatto la differenza.

Il lavoro di Operaestate da diversi anni si distingue, nel contesto del teatro e della danza emergenti, per percorsi di scouting e di sostegno che vanno ben al di là del tradizionale contributo produttivo e della presentazione di spettacoli all’interno dell’omonimo festival.
C.M.:
Per quanto riguarda il teatro, abbiamo fatto la scelta di concentrarci molto – anche se non solo – sulle realtà territoriali. Lo stimolo è venuto sicuramente dal Premio Scenario – un’esperienza fondante e fondamentale –, la cui operatività si articola in diverse commissioni zonali, costruite per mappare il nuovo sul territorio: ci ha permesso di avvicinare giovani artisti locali, non soltanto quelli che poi sono arrivati alle fasi finali e hanno dunque maturato e strutturato un percorso insieme al Premio, ma anche altre progettualità, cui abbiamo potuto offrire la possibilità di sperimentare fino in fondo la propria ricerca, con tutti i rischi che può comportare.
Alcune di queste realtà non sono state solo capaci di imporsi all’interno del Premio e oltre, ma hanno rappresentato esperienze fondanti per cambiamenti di approccio da parte del Festival: certo noi abbiamo offerto un sostegno, un aiuto, una possibilità in più alle compagnie; ma di contro, la loro presenza ha donato al Festival una riconoscibilità diversa.
Di solito individuiamo forme di sostegno, anche produttivo, differenti, che si traducono poi anche in esiti diversi: di base un contributo e la possibilità di residenza negli spazi del CSC Garage Nardini, ma, ad esempio – per citare due casi particolarmente significativi – per Anagoor il Festival è stato una palestra in cui il gruppo ha affinato e sperimentato una propria cifra, mentre con Babilonia Teatri è stato concordato un percorso di sostegno pluriennale che ha potuto garantire una sorta di continuità.
Ora stiamo valutando un passo successivo, anche in base a quello che ci viene richiesto dalle compagnie: stiamo studiando e verificando le modalità possibili per consentire e facilitare la circuitazione a livello nazionale e internazionale. Nel 2012 è stato attivato il progetto Transarte: assieme a Short Theatre di Roma, il festival di Terni e Contemporanea di Prato abbiamo ospitato alcune compagnie francesi; stiamo lavorando con Olanda e Francia. L’obiettivo a lungo termine è quello di creare flussi bilaterali che diano la possibilità ad alcune compagnie di essere presenti in situazioni internazionali.

Avete, negli anni, individuato delle realtà partner con cui si siano sviluppate affinità o collaborazioni?
C.M.: Con il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, in passato, si è messa a punto una formula di residenzialità: le compagnie facevano un proprio spettacolo e poi trascorrevano un certo tempo in residenza a Venezia, presentando infine uno studio per un nuovo lavoro, che poi avrebbe debuttato al Festival l’estate successiva. Laddove questa modalità così definita – a causa di tagli consistenti subiti dal Teatro – non è più stata possibile, ci sono in ogni caso ragionamenti su alcuni gruppi che ci piacerebbe continuare a sviluppare insieme: il confronto con Enrico Bettinello (il direttore, ndr) è sempre presente e la collaborazione procede nelle forme e nelle modalità possibili.
Sempre per quanto riguarda il versante teatrale, da diversi anni collaboriamo stabilmente con Centrale Fies di Dro, una struttura che ha sviluppato una vocazione produttiva forte e specifica. Un aspetto che va sempre ribadito è che Operaestate – nonostante tutte le specificità che ci siamo guadagnati sul campo – è un ufficio comunale, non è e non potrà mai essere un centro di produzione. In questo senso, la presenza di una struttura come Fies, con una vocazione produttiva e con cui condividiamo diverse affinità, ha aiutato molto.

Act your age

Altra dimensione in cui si concretizzano esperienze di collaborazione consiste nell’ampia progettualità di carattere europeo che negli ultimi anni segna il lavoro di Operaestate, che in questo senso ha sviluppato un’operatività piuttosto eccezionale soprattutto per quanto riguarda la danza.
Roberto Casarotto:
Un elemento per me rilevante è l’attenzione da parte del Festival, oltre che per il contemporaneo, anche per il territorio: una componente fondamentale è stata quella di basarsi su delle necessità vive e realistiche, corrispondenti alle voci che ci arrivavano da situazioni precise.
Altro aspetto distintivo per la danza, fin dal primo progetto, è stato quello di lavorare in una dimensione internazionale: tutte le azioni che si sono promosse e create, hanno visto protagonisti artisti italiani sempre in dialogo con realtà o progettualità almeno europee. Fin da The Migrant Body abbiamo cercato di metterci in linea con le modalità di lavoro europee e, per farlo, abbiamo messo in rete le opportunità, le esperienze e le conoscenze, dialogando con realtà che avessero storie diverse dalla nostra e identificando insieme tematiche che ci stavano a cuore. La più rilevante – tanto nella dimensione italiana che in quella internazionale delle realtà con cui eravamo entrati in contatto – era quella di creare degli spazi, dei tempi, dei luoghi, delle risorse da dedicare alla ricerca, perché crediamo che quello possa essere il punto di partenza da cui attivare la crescita artistica.
Accanto alla ricerca siamo riusciti, con i mezzi che siamo stati in grado di trovare, a dare un sostegno alla creazione che, nel caso di Operaestate, non va oltre la messa a disposizione di residenze e di opportunità di rappresentazione per gli spettacoli: a oggi non abbiamo un fondo dedicato alla coproduzione. Tuttavia, parte della mobilità si è concentrata sulla promozione all’estero di lavori creati da artisti italiani, che poi, attraverso network come Aerowaves, hanno avuto possibilità di crescita: tutto questo ha portato anche a disseminare per l’Europa una serie di lavori di cui magari non siamo stati coproduttori in senso stretto, ma cui abbiamo partecipato cercando delle opportunità.

I contesti e gli obiettivi si sono riplasmati negli anni?
R.C.: Evolvono. Perché credo che le progettualità tengano molto conto di come cambia la realtà in cui operano. Per esempio, nel 2011 abbiamo avuto Choreoroam, progetto europeo che si incentra sulla ricerca coreografica e il dialogo interculturale; nel 2012 sono arrivati Spazio e Act your age: il primo è un progetto che investiga la danza contemporanea in dialogo con le altre arti – per esempio con le nuove tecnologie sviluppate nell’ambito delle arti visive –, mentre Act your age, per me, in questo momento è il progetto più interessante per quello che è la sua rivoluzionaria idea di partecipazione: è rivolto sia a coreografi e danzatori, sia alle comunità delle varie città dei partner, articolandosi in una serie di attività che coinvolgono la partecipazione attiva degli abitanti, impegnati a investigare cosa significa invecchiare nell’ambito delle arti performative. È stato molto interessante vedere come si siano coinvolte le comunità locali delle città in cui finora è stato proposto – Bassano, Maastricht e Lemesos a Cipro – e credo che non si sia mai misurato un impatto del genere rispetto a forme di ricerca legate a questa tematica: immediatamente ci ha ispirato una serie di riflessioni sulle relazioni fra danza e medicina, in cui non si tratta assolutamente di danza-terapia, ma di arte come modalità di studio del proprio possibile impatto in campo medico e scientifico; ha ispirato considerazioni sulla messinscena e la scelta dei luoghi, in particolare su cosa significhi oggi cercare di raggiungere comunità che generalmente non si avvicinano ai prodotti teatrali convenzionalmente proposti. Tutto questo conduce a vedere la danza quasi come una via per creare progetti che abbiano impatti sociali e politici, quindi a sviluppare politiche culturali che veicolino altre finalità e possiedano altre nature di impatto. E questo ci piace molto.

La progettualità è influenzata dunque dalle condizioni di mutamento della società e del settore; e invece per quanto riguarda le sue ricadute dirette e indirette sulla creatività del territorio?
R.C.: Credo che, in questo momento, sia un aspetto di difficile misurazione. Sicuramente sono emersi dei giovani artisti a livello nazionale e internazionale, che hanno sviluppato le proprie idee e i propri network e sono mentalmente propensi a creare un nuovo concetto di produzione artistica. Molti dei giovani che hanno iniziato con noi, ora concepiscono la loro come una identità europea; spesso sono coinvolti in coproduzioni internazionali… Tutto questo, in un ambito temporale di quattro anni, per me è un risultato abbastanza eccezionale. Quindi c’è indubbiamente un discorso misurabile in termini di quantità di lavori prodotti e di produzioni attivate attraverso questa realtà e l’estero; però c’è anche un aspetto del lavoro che fino a ora non è misurabile in termini quantitativi, ma è legato a una dimensione qualitativa, quella della crescita del pubblico: tramite la modalità della residenza – nel 2012 ne sono state attivate 24, 12 con artisti italiani e altrettante per gli internazionali – presentiamo ogni volta al pubblico i work in progress che vengono realizzati al CSC; c’è un numero sempre in crescita di spettatori, il tempo dedicato alla conversazione che segue il lavoro spesso è più lungo di quello impegnato per la presentazione; è possibile percepire come cresca la modalità con cui il pubblico guarda allo spettacolo. Entrando nella storia degli artisti, entrando nelle diverse modalità di creazione, confrontandosi con linguaggi che vengono da tutto il mondo, il nostro pubblico piano piano si abitua a costruire una propria modalità di accesso a una forma che spesso viene vista come particolarmente comunicativa rispetto a quelle più tradizionali o convenzionali.