Selvaggio? Certo. Indecente? Forse. Improponibile, fuori luogo, violento. Nè uomo nè bestia, nè uccello nè pesce. Ma anche schiavo, servo, oggetto di insulto e di sdegno. È Calibano, l’indigeno dell’Isola della Tempesta shakesperiana; con la sua sapienza antichissima, il rapporto non previsto con la natura, l’istinto e la vita.
Tutto il contrario di Prospero, il protagonista naufragato sull’isola che vuole addomesticarla a suon di “civilizzazione”, che fra magia e manipolazione cerca di controllare tutto, incluse naturalmente le forze della natura, imponendo la propria lingua e il proprio ordine a priori. Prospero è il cosiddetto progresso, l’idealismo buono e cattivo del miglioramento occidentale; mentre Calibano ha avuto la responsabilità di rappresentare, nei numerosi riallestimenti dell’opera shakespeariana, l’alterità per eccellenza: attraverso il suo filtro è possibile provare a indovinare quali forme assumesse l’idea del “diverso” in un certo posto, in un tal momento, in una cultura.
Ecco allora che abbiamo orde di attori extra-europei per il ruolo di Calibano. Personaggio il cui nome è tutto un programma (pare etimologicamente l’anagramma di “cannibal”, cannibale, come venivano chiamati gli abitanti dei Caraibi all’epoca), viene rappresentato come instintivo, pericoloso, che minaccia i singoli e l’ordine precostituito, il buon costume e le sue regole.
Certo ci sono Il ritratto di Dorian Gray e le distopie fantascientifiche; in mezzo, tutta una tradizione post-coloniale e post-sessantottina che ne ha tentato (e spesso conquistato) una possibile riscossa, utilizzando la figura di Calibano in chiave sovversiva; forse approfittandone di nuovo, seppure in altri sensi, ben più contemporanei: addomesticandolo ancora una volta alle proprie (anche se altre, diversamente pressanti, pure incontestabilmente giuste) urgenze.
A guardare a volo d’uccello tutte le sue versioni, sceniche e non, resta poco di “salvabile” del povero Calibano, invaso, schiavizzato e deriso; sia che fosse visto come alterità da omologare che come possibilità di riscatto, è comunque una minaccia, considerato il male fino a diventare sinonimo stesso di diabolico, come insegna nientemeno che Il dottor Zivago. Certo le sfumature sono innumerevoli, dall’ubriacone pericoloso al “buon selvaggio” di rousseauiana memoria, ma la storia, in fondo in fondo, è una: Calibano è l’altro, il ribelle da addomesticare, l’indigeno da civilizzare, lo schiavo da controllare. Così è anche nella Tempête!, una delle tre “isole” che compongono La trilogie des iles, progetto multi-linguistico fra Shakespeare e Marivaux che Irina Brook, figlia del celebre Peter, ha allestito nella splendida Chiesa di San Simone per il 56° Festival dei 2Mondi di Spoleto.
Ma che ne è di Calibano, il selvaggio (in)soggiogato per eccellenza, in un’epoca in cui – almeno apparentemente – non ci sono più colonie, le lingue e le culture si mescolano a proprio piacimento e gli equilibri geopolitici sono così cambiati da diventare irriconoscibili? Basti pensare al destino di potenze coloniali come Olanda e Portogallo, al riassetto dei rapporti fra Gran Bretagna e India; a quali sono i paesi che compongono il gruppo dei cosiddetti Bric emergenti (e ai Pigs, invece, in affanno permanente), all’Africa che sperimenta in certi casi forme democratiche, ai nuovi poteri del Golfo Persico, del Medio ed Estremo Oriente.
Non che le cose siano facili o che tutto sia andato a posto, con il ridimensionamento e il formale ritiro del dominio coloniale: il segno di quell’epoca resta chiaramente ben vivo, con le sue implicazioni materiali e culturali, non solo in loco, ma anche in quest’Occidente al tramonto incapace di gestire le conseguenze di una egemonia globale secolare.
In un eterno presente in cui lingue, culture, identità si intrecciano per ridefinirsi di volta in volta, chi è l’altro per eccellenza? In un mondo in cui tutto si mescola, chiunque è straniero, riemergono estremismi e fanatismi non solo geografici, chi va a rappresentare quell’incommensurabile differenza che fu del mostro Calibano? È ancora possibile rappresentarlo come il selvaggio violento e maldicente, insultato e asservito, ribelle e incompreso che ci ha tramandato il Bardo? Risposte e soluzioni facili non ce ne sono, congetture immediate nemmeno. Ma per scoprirlo, forse, basterà aspettare la prossima Tempesta.
Roberta Ferraresi
Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto