Recensione a Prometheus Landscape II – di Jan Fabre
Fuori dal tempo – attraversando tutte le pieghe in cui si sono annidate nei secoli le tante riattivazioni del mito – e, forse proprio per questo, decisamente nella più precisa attualità, si colloca Prometheus Landscape II di Jan Fabre, che torna all’eroe eschileo dopo più di vent’anni. Il concetto di nodo – ripetuto e rilanciato da ogni azione fra sofisticate tecniche di legatura – è al centro della nuova creazione dell’artista fiammingo, sì per un rigore filologico (dal Prometeo incatenato di Eschilo) ma anche a segnare il dispositivo compositivo e concettuale che ne è a fondamento.
Da un lato, la scena delocata, la cui struttura si sviluppa rizomaticamente fino ad abitare anche gli angoli più remoti del palcoscenico, è intessuta di sincronie e reciproci rimandi, in origine solo lievemente percettibili, poi sempre più segnati e palpabili. Concettualmente, il ‘nodo’ segna una corrispondenza fra l’eroe eschileo e la figura dell’artista, capace di offrire l’opportunità (il primo, col dono del fuoco, all’umanità; il secondo, attraverso l’arte stessa) di forme di conoscenza alternative.
Lo spettacolo è inaugurato da un prologo-manifesto (dello stesso Fabre) cui il regista affida il senso, l’urgenza di tornare proprio oggi al mito: «Where is our hero?» chiede decine di volte Ivana Jozic, esplorando tutte le possibili definizioni e i diversi ruoli della figura di Prometeo fra tradizione e attualità. A far da contrappunto, Gilles Polet: «Fuck you, Sigmund Freud!» e tutti i maestri di quella tradizione ermeneutica di matrice psicoanalista che la cultura occidentale ha voluto imporre come principio elettivo di decodifica.
Il sipario si apre, poi, su un Prometeo appeso a mezz’aria che, su un grande incrocio di corde, accoglie in silenzio tutte le visite previste – Cratos e Bia, il sibilo agghiacciante di Atena, la presenza vibratoria di Io, la partitura di risa di Hermes – dal testo eschileo, qui decostruito e ricomposto da Jeroen Olyslaegers la cui impostazione segue il verso biblico, in cerca della lingua divina che potrebbero parlare gli dei. In scena, davanti a una grande proiezione che ‘ustiona’ i profili del protagonista, si susseguono e si giustappongono continui slanci e blocchi dell’azione, in un climax che – pur arrischiandosi nelle trappole dei canoni dell’estetica postmoderna come ripetizione e differenza, un assedio di dualismi oppositivi, circolarità senza via d’uscita – conduce a far esplodere sia il nodo Prometeo-artista sia quello formale. Momenti di grande, efficace, bellezza – come, a livello visivo, il palco punteggiato d’asce (antincendio) a testa in giù e, in senso compositivo, il crinale presso cui i movimenti agitati degli attori si trasformano in passi di danza, piccoli assoli che si contagiano infine, per qualche brevissimo istante, in una coreografia collettiva – e altri di straniante accennata ironia (il fuoco qui non è permesso per motivi di sicurezza) accolgono tanto il talento magnetico degli attori-danzatori di Troubleyn che la figura di un eroe immobile, allo stesso tempo dominatore e vittima di quello che sta accadendo intorno.
E alla fine, la parola passa a Prometeo, che sembra essere posto a suscitare (nel mito quanto nella vita reale) nuovi eroi ribelli, nuove rivolte: «Io resisto», dice l’eroe, e «non c’è futuro, le possibilità sono infinite». Ed ecco che il decentramento della scena, così come la tessitura di rimandi e reciproche variazioni, si propone come una precisa indicazione di fruizione: a fronteggiare il razionalismo costitutivo di tanta ermeneutica occidentale, Prometeo-Fabre sembra invocare forme alternative di conoscenza e consentire ad ogni spettatore di seguire un proprio personalissimo itinerario attraverso il ‘landscape’ tracciato dal regista. In un mondo (performativo) in cui tutto è possibile, dove c’è un senso – anzi, spesso, più d’uno – in ogni segno scenico, anche il più minimo, è richiesto anche di perdersi nei profili seducenti della materia, fra blob di fumo densissimo e il vento che ne modella le volute. Abbandono e predisposizione trasformativa, più che decodifica e schematizzazione. O, come dice il protagonista stesso alla fine dello spettacolo: «Distruzione non istruzione». Ma, fuori dalle spire dell’ultimo Novecento, resta il dubbio se, al giorno d’oggi, sia proprio di distruzione che abbiamo ancora bisogno.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Roberta Ferraresi