Recensione di A tua immagine – Odemà
All’inizio A tua immagine, spettacolo di Odemà sul rapporto fra il divino e l’umano e le sue mille possibili variazioni, non ha forma, com’è giusto che sia. C’è prima un dialogo di luci, fra 2 lampadine appese a mezz’aria in centro al palco. Poi tutto succede sotto un lenzuolo che fascia quelli che si scopriranno essere i corpi dei protagonisti, come in una scultura di Christo. A tua immagine fa incontrare le più grandi icone che l’umanità ha voluto ideare – il diavolo, dio e suo figlio – portando in scena con intelligenza e ironia il prologo della creazione della religione cattolica. Il divino e l’umano in tutte le possibili declinazioni e contaminazioni, appunto: dove un dio permaloso è mosso da ambizioni tanto, troppo, umane e la ferocia del diavolo lascia spazio a momenti di piccola umanità. E il figlio? Lui (Davide Gorla), al centro del progetto del padre e del suo antagonista storico, è il punto di vista dell’uomo, è il portatore del buon senso del dubbio. Coinvolto senza volerlo, tirato da un lato e rilanciato dall’altro, strattonato, scavalcato, superato; chiede le ragioni della sua venuta al mondo, le conseguenze del suo cammino, i futuri possibili delle sue azioni. Il padre gli risponde con sconcertante chiarezza, mettendo in luce duemila anni e più di contraddizioni e conflitti della religione cattolica.
Sembra una versione abbastanza consueta delle riletture possibili delle vicende bibliche in chiave moderna. Solo che qui, dio (Giulia D’Imperio) è una donna arruffata e capricciosa, di un’energia rara, mentre il diavolo (Enrico Ballardini) un emblema del cantautorato europeo, che accompagna lo svolgersi dei fatti con canzoni originali che strizzano l’occhio a De André. E anche la collocazione della vicenda è inconsueta: appunto, non una rivisitazione contemporanea della storia e dell’immaginario cattolico, ma un punto di vista tutto originale – il prologo, quindi il momento della progettazione e dell’invenzione, capace di mettere in luce ambizioni e conflitti, compromessi e sopraffazioni. Perché il figlio di dio, in questo spettacolo, non ci pensa proprio ad accontentare il padre: mica vuole diventare il fondatore di una religione destinata a dominare il mondo – come in tutti i più classici confronti padre-figlio. In mezzo, ci sono la brama di potere degli uomini, le loro ambizioni incontenibili; e i martiri, le crociate, le incomprensioni…
Mille e uno sono i registri e i linguaggi attraverso cui questo conflitto si realizza: ci sono momenti di grande lirismo (che a volte rischia leggermente il melodrammatico) e altri decisamente di cabaret, monologhi incalzanti e spazi dedicati alla canzone, teatro d’ombre, avanspettacolo e musica elettronica. Certo l’insieme rischia qualche volta di diventare sovraccarico o cacofonico, ma la dimensione attoriale (vera protagonista di A tua immagine) è sempre lì a ricucire, recuperare, rilanciare. È un gioco d’attore, di gesti e di sguardi, di mimica, pose ed espressioni, che in scena dà vita a una tensione modulata con grande precisione, particolarmente efficace nei momenti di sospensione, un po’ meno quando deflagra in una fisicità che riempie tutto il palco. Assieme alla potenza attoriale, esplorata in tutte le sue possibilità fisiche e vocali, c’è l’altra faccia del teatro, quella della piccola magia che si può ottenere in scena; fra una trovata e l’altra – tutte soluzioni intelligenti nel loro minimalismo e discrezione, polverose come i primi spettacoli di Emma Dante o prossimi all’immaginario di Kantor – il pubblico viene accompagnato nel mondo surreale e sorprendente dell’artigianato teatrale, dove delle mani possono diventare persone, un attore si trasforma in gigante, un dialogo fra due figure sedute cambia prospettiva, mutando il suolo in parete e il muro in nuovo pavimento. È la realtà magica della scena a dominare lo spettacolo e il lavoro dei tre attori, sempre con degli inquietanti sguardi fissi sul pubblico, stralunati e interrogativi, sospesi fra stupore e dubbio.
A tua immagine sembra amalgamare con sapienza un’ampia varietà di fonti (tematiche quanto teatrali, ma anche letterarie, cinematografiche) in un tutt’uno organico ben calibrato e ritmato, in una composizione accorta che non lascia distrarre neanche per un minuto, perché quando la struttura è sul punto di sfilacciarsi e lasciarsi andare è già pronta una nuova trovata a riacchiappare quegli sguardi che si stavano per allontanare. Al centro, un processo preciso e divertente di demistificazione dei dogmi e delle contraddizioni con cui la religione – non solo cattolica – si è imposta come potere secolare; la riflessione sulle strutture fondanti del tuttora inevitabile riferimento che da spirituale tenta l’esclusiva socio-culturale, si rivela immediatamente un attraversamento, sempre puntuale e non didascalico, dei topos della condizione umana (dal conflitto generazionale alla famiglia, dalla dimensione di coppia alla rivalsa del potere individuale). È curioso notare poi, come queste linee narrative e sceniche ben sviluppate, in certi momenti sembrino lasciare spazio a una altrettanto profonda critica degli schemi fondamentali del sistema teatrale, dove il rapporto umano/divino si trasforma in quello fra attore e regista.
I tre attori di Odemà, in un excursus preciso e leggero, sanno così mettere in luce le contraddizioni alla base del pensiero occidentale – religioso, culturale o sociale che sia – usando “solo” un pacchetto di figurine (dei diversi modi in cui sono stati uccisi i martiri cristiani) e tante altre piccole trovate sceniche, senza rischiare il didascalismo né la deriva kitsch. Forse, il vero punto di forza di tutto il lavoro, più che inventare un proprio linguaggio inedito, si trova proprio nella coscienza e nella precisione con cui è affrontato il processo compositivo, che si fonda sull’intreccio fra riferimenti colti e cultura pop, fra differenti generi teatrali e linguaggi artistici.
Li avevamo scoperti grazie alla segnalazione del Premio Scenario nel 2009; li ritroviamo dopo due anni ancora più grotteschi e “guitti”, sempre profondamente irriverenti ed espressionisti, calcati come sono dalle smorfie e dalla ribaltina d’avanspettacolo; fra tutta la sporcizia voluta, la polvere di palcoscenico si potrebbe dire, sono cresciuti guizzi individuali e una sinergia attoriale di tutto rispetto – che ci si augura possa trovare presto nuovi progetti e ulteriori esiti dopo questa prima promessa ben mantenuta nei suoi due anni di maturazione.
Visto a Kilowatt Festival 2011, Sansepolcro
Roberta Ferraresi