Il teatro comunità, il teatro sociale e più in generale i progetti culturali pensati per il quartiere o la cittadinanza locale si stanno moltiplicando. “Do it for the community!” dicono gli anglosassoni e sottolineano con queste semplici parole un pensiero e una motivazione etica che è di per sé applicabile a un’infinità di mezzi, approcci e forme d’arte. La comunità è l’obiettivo e il motore dell’azione, le strade per raggiungere l’obiettivo sono pressoché infinite.
Nel 2000 il Comune di Torino ha progettato una serie di interventi finalizzati alla riqualificazione urbana di quartieri periferici come Mirafiori, Falchera e Barriera di Milano. Accanto a questo primo nucleo di iniziative, l’amministrazione ha deciso di promuovere anche la riqualificazione sociale delle aree in questione, creando il PAS, Piano di Accompagnamento Sociale e sfruttando la pratica artistica più vicina all’esigenza di collettività: il teatro. Inizialmente l’intervento ha coinvolto alcuni grandi e affermati artisti, da Alessandro Bergonzoni a Lella Costa, che hanno raccolto le storie degli abitanti, ne hanno costruito drammaturgie e rappresentato in scena il risultato. Il passo successivo è stato portare sul palco i protagonisti stessi delle storie raccontate ed è quindi nato il progetto TeatroComunità. Compagnie locali, circoscrizioni cittadine, un comitato scientifico e circa 130 partecipanti ai laboratori hanno permesso al progetto di svilupparsi fino a diventare un processo permanente pur nelle difficoltà incontrate. Se da una parte infatti, il lavoro con i residenti dava ottimi riscontri sul piano comunitario e partecipativo, dall’altra gli operatori registravano risultati artistici minimi e così nel 2007 TeatroComunità ha chiesto aiuto a Duccio Bellugi-Vannuccini, primo attore del Théâtre du Soleil.
Il progetto biennale prevedeva che le 10 compagnie impegnate sul territorio raccogliessero le storie degli abitanti/partecipanti e, ogni tre mesi, Duccio Bellugi-Vannuccini tenesse un laboratorio settimanale per selezionare i racconti e costruire con gli “attori” i quadri teatrali da portare in scena. Ne è nato, nel 2008, lo spettacolo Di Ciro il mod-ernista e di altre avventure, un’indagine sul fenomeno dell’immigrazione veneta e meridionale a Torino, che nel dopoguerra ha rivoluzionato la vita cittadina. L’esperienza di laboratorio con il Théâtre du Soleil è stata la base per mettere a punto il metodo tuttora usato dalle associazioni Sguardi, Choròs e Scarlattine Teatro che portano avanti il progetto. Nel 2011 infatti, gli interventi di TeatroComunità hanno dato vita allo spettacolo Fare gli Italiani, occasione per raccontare la Storia d’Italia attraverso piccole narrazioni di vita cittadina e per chiudere un ciclo di lavoro culminato con l’attribuzione di una sede fissa: il Teatro Marchesa. Ed è in questo nuovo spazio che è andato in scena il 16, 17 e 18 marzo lo spettacolo Fare gli Italiani, rivisitato e arricchito con alcuni quadri di Ciro il mod-ernista.
Sul palco, persone all’apparenza ordinarie con il forte desiderio di raccontare il loro passato e il loro presente in una città che non sempre è stata ospitale. Tra scenografie di vita quotidiana si alternano giovanissimi ragazzi marocchini giunti da poco in Italia e alle prese con una lingua difficile e anziani migranti del meridione, ormai stabilitisi da anni a Torino senza aver assorbito del tutto la cadenza piemontese. Storie e volti umani, non attori, non miti, non maschere né esempi. Un racconto multiforme di come si è costruita la città ed emblema di come si è fatta l’Italia. Con tutte le sue incompiutezze. Mimmo ammirava il nord, tifava addirittura Juve da ragazzo, ora invece non tifa più. Ad Aurelio il comune di Torino assegnò una casa popolare per la sua giovane famiglia, ma appena arrivato davanti alla sua nuova porta, trovò un altro uomo che tentava di scassinare la serratura. Non aveva una casa, e aveva due figli, proprio come Aurelio. Le due famiglie finirono per condividere la casa popolare. Giovanna invece per sette anni non ha potuto uscire, perché un marito geloso e malato non le permetteva di vedere la città e le strade in cui si erano trasferiti. E c’è poi Antonio, che la casa l’ha persa di recente e a poco più di cinquant’anni s’è ritrovato senza lavoro e senza un tetto, a girare per dormitori pubblici in cerca di una speranza da riconquistare. E ancora molte, moltissime altre storie di vita semplice e ingegnosa, di laboriosa costruzione di identità comunitaria e narrazione di uno spazio, un quartiere o un isolato da esplorare e da ri-trasmettere proprio a chi quel luogo lo conosce e lo abita. Il teatro diventa un’occasione per incontrare davvero i racconti, non solo in scena, ma anche fuori, quando lo spettacolo è finito e gli interpreti scendono dal palco pur continuando ad incarnare se stessi. Ci si ritrova a chiacchierare con i protagonisti delle storie appena ascoltate, a guardarli da vicino come fossero zii, amici o vicini a cui si è fatto visita una sera.
Abbiamo incontrato Laura Corazza, di Associazione Sguardi, per capire come, nella pratica, si lavora con gli abitanti e li si trasforma in attori. Come avete trovato e convinto i partecipanti a raccontare in scena le loro esperienze?
Laura: nella maggior parte dei casi abbiamo contattato le organizzazioni di quartiere e con il loro aiuto abbiamo incontrato le persone che hanno poi partecipato al laboratorio. I due giovani ragazzi marocchini, ad esempio, li abbiamo contattati nelle scuole che frequentano. Non bisogna pensare che sia scontato il loro raccontarsi, hanno un’età e un breve passato che di solito tendono a dimenticare per poter ricominciare in questo nuovo Paese e affrontare tutte le difficoltà che incontrano. Gli anziani invece salgono sul palco spinti dalla voglia di proseguire un percorso che è a tutti gli effetti etico. Non avrebbero mai accettato di stare in scena per interpretare un testo classico, in altre parole, non hanno alcun interesse nel fare teatro per fare teatro. Li muove il desiderio di raccontare i luoghi del loro vissuto, di presentarli agli altri, di tessere relazioni e approfondire il senso collettivo dell’essere una comunità. Sentono di regalare una parte di se stessi e lavorare in quartieri difficili non fa altro che aumentare il loro grado di interesse e partecipazione.
Durante lo spettacolo, pur riconoscendo la non professionalità degli attori, si coglie un lungo lavoro di costruzione del testo, dei movimenti e dei gesti che modellano delle vere e compiute presenze sceniche. Come siete arrivati a questo risultato?
Laura: il lavoro che abbiamo portato avanti con Duccio è stato senza dubbio di grande aiuto. È stato meraviglioso e molto divertente osservare l’incontro tra un grande attore, uomo di cultura e conoscenza performativa, alle prese con un gruppo eterogeneo di abitanti di quartiere senza esperienza di recitazione e con riferimenti culturali popolari. Lavoriamo a partire dai limiti dei partecipanti, assecondando le loro predisposizioni e difficoltà e costruendo per ognuno un percorso di accompagnamento. Nella pratica gli espedienti sono semplici quanto efficaci: se ad esempio lavori con una persona che non riesce a tenere ferme le mani mentre racconta il suo testo, non puoi costringerla a concentrarsi ed evitare che si muova, semplicemente perché a quel punto non riuscirà più a parlare. Bisogna invece assecondare questo suo “difetto” e darle concretamente qualcosa da fare che sia coerente con il suo racconto. Alcuni sono incredibilmente portati per l’improvvisazione, altri invece si concentrano totalmente sul testo da imparare a memoria. Occorre a volte incentivare o viceversa limitare le naturali predisposizioni. La condizione essenziale per poter lavorare è avere molto tempo a disposizione. Creare le condizioni perché le persone si aprano e raccontino storie intime e spesso difficili, richiede disponibilità all’ascolto e pazienza.
Cosa spinge invece voi operatori a proseguire questo percorso?
Laura: Personalmente credo moltissimo nel teatro fatto da e per la comunità. Penso che il teatro che racconta la collettività sia una delle forme più antiche e radicate di intendere la scena e la sua utilità. Nel corso del ‘900 il teatro si è sempre più destrutturato e allontanato dalle realtà di riferimento. Il nostro lavoro invece promuove un uso della pratica teatrale e della scena che recupera senso. Che costringe ed incoraggia a mettere in gioco se stessi nella relazione con l’altro, con il vicino prossimo. Questo tipo di performance ovviamente ha i suoi limiti, non può andare in tournée ad esempio. È impossibile fare molte repliche e in generale non si può contare su una disponibilità dei partecipanti di tipo professionale. D’altra parte però, è un genere teatrale che recupera appieno la dimensione rituale del racconto collettivo e mette a confronto linguaggi e culture diverse in una condivisione che ricalca la realtà abitativa dei luoghi in cui operiamo.
Con lo spettacolo Fare gli italiani si è chiusa la prima fase decennale del lavoro di TeatroComunità, quali novità future sono in cantiere?
Laura: Abbiamo in programma un festival di TeatroComunità che si svolgerà a Torino tra la fine di giugno e la prima metà di luglio. Tra pochi mesi, il 2 maggio abbiamo organizzato e promosso un convegno sul Teatro Comunità: un’occasione per riflettere sulla metodologia e sui risultati di questi dodici anni di lavoro e per confrontarci con realtà di altre regioni che seguono percorsi lavorativi simili. Subito dopo, dal 3 al 6 maggio Duccio Bellugi-Vannuccini tornerà a condurre un seminario intensivo gratuito all’auditorium Marchesa. Sul fronte artistico stiamo cominciando a lavorare sulla Turandot con i ragazzi del quartiere Barriera di Milano, concentrando il laboratorio sull’uso della maschera. Abbiamo infine pensato agli operatori e preparato per loro un corso intensivo sul Teatro Comunità intitolato “La bottega d’arte” che si svolgerà dal 6 settembre al 3 ottobre.
Margherita Gallo