Recensione a Lotta di negro e cani – regia di Renzo Martinelli
Sospesi e precari su una struttura di tubi innocenti a sbirciare in basso, nell’indefinito ring in cui si svolge la scena, livida e feroce come le contraddizioni che lì si rappresentano.
Renzo Martinelli, regista e direttore artistico del Teatro i di Milano, concepisce una suggestiva e convincente messinscena per Lotta di negro e cani, uno dei testi più allarmanti del francese Bernard-Marie Koltès. Rappresentato per la prima volta nel 1983 da Patrice Chéreau, che rivelò il talentuoso drammaturgo al mondo, è stato affrontato in Italia tra gli altri da Giampiero Solari con la memorabile interpretazione di Remo Girone nel 2002 fino all’affascinante versione di Teatrino Giullare, proprio nella stagione del Teatro i, uno spazio che da anni ormai si distingue a Milano per un cartellone audace e proposte sempre nuove.
Non è da meno questa nuova produzione, realizzata in collaborazione con Face à Face – Parole di Francia per scene d’Italia e Institut français Milano, progetto che promuove la drammaturgia francese contemporanea nel nostro Paese.
Al centro di una narrazione decisamente scarna di eventi, come nello stile di Koltès, c’è la restituzione di un cadavere, tematica cara nella tragedia classica, in cui il diritto di seppellire i propri cari è un atto di legittimità divina riconosciuto anche nelle guerre più cruente. Ma in questa storia non c’è guerra. Siamo in un cantiere francese nell’Africa nera in cui muore un operaio indigeno: il fratello, un severo e inquietante Alfie Nze, portatore di valori ancestrali, ne richiede il corpo gettato nelle fogne dal nevrotico e disgustoso ingegnere Cal, (interpretato da Rosario Lisma) che ne ha causato la morte.
A mediare a modo suo è il direttore del cantiere, Horn, interpretato da Alberto Astorri, tronfio e tuttavia consapevole della propria grettezza, che partecipa suo malgrado a un conflitto insanabile tra un bene presunto e un male sconosciuto.
Ottima interpretazione per Valentina Picello, nei panni di una delicata e umanissima Lèone, sprovveduta ragazza venuta da Parigi che pagherà per i suoi buoni sentimenti.
Martinelli si concentra particolarmente sull’interpretazione degli attori e riesce a ricreare quel clima allarmante, violento, degradato in cui la narrazione si svolge con continui richiami visivi e sonori. Tolto qualsiasi riferimento esotico al continente nero, restano l’impalcatura di un ignoto cantiere e gli uomini che lo abitano, dispotici e arrabbiati, divenuti ormai bestie e pronti a scannarsi per la sopravvivenza.
La scena ricreata sotto i piedi degli spettatori fa sprofondare la storia in un oscuro ventre in cui, secondo le intenzioni registiche, «l’ Africa dovrebbe farsi orizzonte abbastanza ampio da comprendere tutta l’umanità». Infatti, scrive Koltès: «Lotta di negro e cani non ha affatto come argomento l’Africa e i negri; non racconta né il neocolonialismo né la questione razziale. Non ha certo alcun messaggio da trasmettere. Parla semplicemente di un luogo del mondo. A volte incontriamo dei luoghi che sono non dico delle riproduzioni del mondo intero, ma una sorta di metafora della vita, o di un aspetto della vita, o di qualcosa d’altro che ci sembra importante ed evidente».
Così nella lotta di uomini-bestie e negri definiti “bubù” (nelle passate versioni italiane erano “bongo”), arroganti e ritenuti capaci soltanto di sputare fino a inondare il mondo, sembrano annegare i valori umani.
E ancora ululati in lontananza, neon intermittenti, voci fuori scena (o comunque fuori dal campo visivo degli spettatori), suoni metallici ed esplosioni ben ricreano quell’atmosfera cianotica e inutilmente violenta che è alla base del testo, sicuramente un po’ datato ma che conserva ancora intatta tutta la sua forza drammaturgica.
Visto al Teatro i, Milano
Maddalena Peluso