Recensione di Macbeth – regia di Gabriele Lavia
William Shakespeare, nell’Amleto, chiede agli attori di dire la battuta “danzata sulla lingua”, rapida, fluente, sposando “l’azione alla parola, la parola all’azione”. Nel Macbeth di e con Gabriele Lavia questa lezione viene presa alla lettera: il testo scorre rapido, le parole nascono l’una dall’altra in un fiume di emozioni che, in poco più di due ore – il tempo di una candela di consumarsi -, tessono la trama del capolavoro drammaturgico.
Ma è soprattutto un’altra affermazione del Principe di Danimarca a fare da filo conduttore a tutto lo spettacolo: nelle sue indicazioni, che potremmo definire quasi registiche, afferma che il compito del teatro è “porgere, per così dire, uno specchio alla natura”. In un palcoscenico ricoperto di torba, la scena è divisa da un tulle nero: davanti, sui lati, sono disposti un camerino scalcinato e altri oggetti polverosi di attrezzeria, sul fondo vengono invece allestiti diversi spazi che, in un gioco di cambi rapidissimi, vanno a costruire una scenografia – ideata da Alessandro Camera – di una bellezza tutta teatrale: non superficialmente estetica ma di grande forza e coerenza:
La sanguinosa, turpe, vicenda del re Macbeth e della sua consorte diventa una riflessione sulla falsità e l’ipocrisia del mondo, specie se in gioco c’è il potere, la carriera, la politica. I due sono continuamente costretti ad “andare in scena”; solo nell’angusto spazio del camerino possono dare libero sfogo alle loro paure. E quello dell’eccezionale Gabriele Lavia è un Macbeth che ha “tanta paura”, come spesso ripete.
Quando sono ‘dall’altra’ parte, invece, indossano costumi – di Andrea Viotti – ingombranti al punto di risultare quasi ridicoli, indossano tacchi alti e una corona che sembra diventare sempre più pesante e fastidiosa da portare man mano che prosegue la storia, per tornare a essere, alla fine, di cartone, come all’inizio, quando ancora la carriera di monarca era solo un desiderio.
Quello che il regista-attore costruisce è un personaggio fin da subito titubante, spaventato spesso quasi come un bambino; la sua fame di potere non è mai vera audacia, ma sempre folle delirio incalzato da una irresistibile Giovanna di Rauso – Lady Macbeth. Il loro rapporto è morbosamente erotico, in lei sangue, potere e sesso si mescolano creando un personaggio perverso, sensuale e al tempo stesso androgino. L’ambiguità dell’aspetto, resa dal taglio di capelli corti e chiarissimi e dal corpo filiforme, la rende simile per figura e atteggiamenti alle tre streghe.
Un Macbeth umanissimo quindi, corroso dal senso di colpa e terrorizzato dai dubbi, e una Lady quasi disumana, una creatura notturna e nottambula che sembra aver venduto l’anima agli inferi, tanto da non temere di vedersi riflessa in tutte le sue nefandezze sugli enormi specchi che non di rado compaiono in scena, su cui invece il consorte si riflette con enorme turbamento.
Nella seconda parte dello spettacolo, la divisione tra davanti e dietro le quinte si fa meno netta. I due regnanti non riescono più, lentamente, a fingere gioia e rettitudine: i confini di fanno più labili, insicuri. Lady Macbeth si mette a nudo, non solo metaforicamente, nel suo folle sonno, mentre Macbeth è devastato dall’impossibilità di dormire. In questo limbo tra incubo e veglia la loro messa in scena crolla, fino alla sconfitta finale. Malcom (Patrizio Cigliano) rivendica il trono, condannando a morte il traditore Macbeth: ma il potere torna a manifestarsi come qualcosa di profondamente vacuo e finto, fatto di rigidi cerimoniali, ipocrite rappresentanze ed abusi resi in figura da una forte, invincibile corazza che, calata dall’alto nel mezzo del palcoscenico, appare più che altro come una ridicola marionetta. Una corazza che, dopo tutto il sangue versato nel corso del dramma, appare inutile da indossare.
D’altronde: « La vita non è altro che un’ombra in cammino; un povero attore che s’agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato. »
Visto al Teatro Goldoni, Venezia.