Recensione a Macbeth – regia di Andrea De Rosa
«Un classico – dichiarava Italo Calvino in un celebre articolo dell”81 – è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Esaltato come croce e delizia dall’avventura postmoderna, questo è il destino riservato in scena alle opere di Shakespeare, così come al suo Macbeth, opera che – soprattutto rifratta nei grandi traumi del “secolo breve” – ha fatto tremare (e riflettere) generazioni. Il re più nero dell’opera del Bardo riempie di sé, della propria ambizione e dei propri massacri la tragedia più breve dell’opera shakespeariana; storico come il Giulio Cesare ma rapito dagli incantesimi dell’individualità come le creature del Sogno, più tiranno di Riccardo III, più ambiguo di Amleto e più sanguinario delle figlie di Lear è stato il rovello d’eccellenza per i tanti pensatori e registi che vi si sono accostati: Visconti, Kurosawa, Orson Welles e Polanski; Jarry, Ionesco e Heiner Müller. C’è chi, naturalmente, c’ha visto una straziante premonizione delle dittature novecentesche e dell’inesorabilità della catena di delitti e sopraffazioni di cui è costituita la Storia: dal Grande Meccanismo di Jan Kott, fino a George Orwell, che identificava la potenzialità degenerativa del potere, più che con Hitler e Napoleone, con l’individuo comune, anche il più piccolo e anonimo, che, stuzzicato nella propria ambizione, non ci pensa due volte a commettere l’errore, pensando che poi la propria sete possa placarsi e tutto tornare come prima. C’è, invece, chi ne ha fatto una tragedia dell’individuo, tutta calibrata su dinamiche interiori: Strehler sicuramente, ma anche Antonio Gramsci e, naturalmente, Freud, che inquadra la tragedia nei termini di una frustrazione interna alla sterilità della coppia Macbeth. In tale pluralità di visioni e riferimenti, è questa l’interpretazione a cui si riferisce, con decisione, il nuovo allestimento di Andrea De Rosa, che già aveva frequentato Macbeth nella versione operistica verdiana.
È tutta una storia di questa coppia senza figli – mai nati o morti non è dato saperlo –, che, appunto per via della sterilità, è costretta a riversare la propria ambizione sull’avidità di potere, commettendo qualsiasi delitto efferato pur di riuscire. Grumi di nera e vivida tensione tornano a emergere – complice la stralunata interpretazione di Giuseppe Battiston nel ruolo del protagonista – in un crescendo che muove da un incipit piuttosto neutrale per riconvertirlo poi a una tensione tragica che arriva soltanto a singhiozzo: esaltata in alcuni passaggi – la scena che precede l’omicidio di Re Duncan, in cui Battiston dialoga con se stesso in un contrappunto di luce e buio – e alleggerita, quasi disinnescata, in altri. Perché c’è da dire che la cifra stilistica di questo spettacolo si risolve in una impostazione che ammicca al pop, passando dal pulp fino allo splatter: le streghe della profezia sono tre bambolotti parlanti (dal salotto di casa, non dai tuoni e lampi della brughiera), partorite – non è una novità – dal ventre stesso della Lady, in una scena in cui feti deformi e insanguinati vengono estratti dalle gambe della Regina; le loro pozioni sono composte da pezzi di pupazzi (il drago di plastica, il lupo di peluches, la biscia di gomma), gli arredi, man mano, si presentano sempre più piccini (le sedioline, le culle) e il tono dei dialoghi regredisce in uno sguaiato fanciullesco, carico di risatine e inciampi. «Se li avessi mostrati come sanguinari fin dall’inizio – dichiara il regista in un’intervista –, li avrei allontanati da noi»; ma se in alcuni momenti, soprattutto iniziali, il contrasto fra la truculenza dei contenuti e la leggerezza del linguaggio funziona, in certi altri passaggi, l’insistenza sulla dimensione ludica e bambinesca rischia di disinnescare la possenza del testo e delle azioni che si compiono. Mentre i personaggi sono tutti chiusi in se stessi, imprigionati in un’autarchia drammaturgica che ne spinge all’estremo i canoni consueti, sovracaricandoli e trasformandoli, con verve espressionista, in cliché di loro stessi.
In questo spettacolo gli schiaccianti contrasti di cui si satura il dramma shakespeariano – soprattutto la fertile opposizione uomo/natura (brughiera/castello, streghe/società, irrazionale/razionale), ma anche chiaro e scuro, realtà e fantasia – sono tutti compressi in un interno, un salotto borghese dai toni pastello (prima acquei, poi violacei e bruni, in un crescendo di buio) che occupa i primi metri di palcoscenico, incorniciato da un gigantesco portale semitrasparente che schiaccia l’ambiente verso la platea, evocando tutti gli altrove – come l’iniziale festa, un lounge dalle luci e musiche soffuse – di cui si nutre il testo shakespeariano. «Il bello è brutto, il brutto è bello» cantano le Streghe, nella loro celebre apertura. Realtà e finzione si mescolano, nella messinscena di un testo che, soprattutto, si inserisce proprio in quegli interstizi che uniscono e separano l’immaginazione, il desiderio, dalle loro ricadute sulla vita reale; e la regia funziona, fintanto che riesce a disegnare un delicato equilibrio fra questi – e altri, come individuo e società, conflitti interiori e dimensione politica – estremi. Non così quando, con qualche punta di visionario compiacimento, cede a calcare il pedale dell’impostazione freudiana e dell’immaginario horror, che attirano a sé tutte le aperture evocative e la pluralità, la sostanziale ambiguità, che ha permesso a generazioni di artisti e studiosi di lasciarsi sedurre, fra condanna e immedesimazione, dalla tragedia di Macbeth.
Visto al Teatro Goldoni, Venezia
Roberta Ferraresi
contenuto originariamente pubblicato su Doppiozero