Massimiliano Civica

Il “cambio della guardia”. Una nuova stagione del teatro di regia italiano?

Nell’ormai consueto appuntamento con lo Spettacolo dell’anno organizzato su “Doppiozero” da Massimo Marino con una serie di artisti e critici – collaboratori e non della rubrica Teatro –, Massimiliano Civica rileva come nella cartina tornasole della scena italiana che sono i Premi Ubu si sia manifestato un “cambio della guardia” nel nostro teatro di regia. I premi 2017, oltre che allo stesso Civica (miglior regia ex aequo, premiato nella stessa categoria due anni fa per Alcesti), sono andati fra gli altri ai lavori di Deflorian/Tagliarini (per le luci di Gianni Staropoli ma Il cielo non è un fondale era in finale anche come miglior spettacolo, musiche, attrici), di Roberto Latini (miglior attore, più le musiche di Gianluca Misiti, già premiate nel 2015), di Antonio Latella (miglior attore under 35 Christian La Rosa, protagonista di Pinocchio, e in finale come miglior regia, categoria in cui era stato premiato lo scorso anno con Santa Estasi).
In effetti, si manifesta un vero e proprio “cambio della guardia” rispetto agli ultimi anni. Dopo qualche tempo di riflessione più o meno condivisa, più o meno continuativa, è forse il caso di rispondere all’invito e discutere in qualche modo l’ipotesi formulata dall’artista, se possibile cercando di darle seguito. Singolare che una riflessione del genere venga, non da un critico, ma da un artista del nostro teatro (ma poi neanche tanto strano, visto che oggi come in passato i primi teorici della materia in Italia di norma sono stati gli stessi registi, come diceva Claudio Meldolesi per gli anni Quaranta e Cinquanta).

Che il “cambio” ci sia stato è fuor di dubbio, e il fenomeno è ancor più evidente se si guarda alle rose dei finalisti Ubu (Lucia Calamaro, Frosini/Timpano, Emma Dante, Silvia Calderoni, Federica Fracassi…) o alle terne e ai vincitori delle edizioni degli ultimi 2-3 anni, dove gli stessi nomi avevano già cominciato a prendere posto nella “cartina tornasole” del nuovo corso in categorie-chiave come miglior spettacolo, regia, attore, ecc.; o ancora aggiungendo altre figure vicine che si potrebbero ben inserire nel quadro, tipo quelle provenienti dalla cosiddetta “terza ondata” dei Teatri 90 (dai Motus agli ex Clandestino a Fabrizio Arcuri o Fanny & Alexander) o dalla precedente nouvelle vague degli Ottanta (dalle Albe alla Socìetas).
Però, dice Civica, è un cambiamento sì epocale, ma senza troppi “squilli di tromba” (tant’è che non ha destato particolare attenzione nel dibattito italiano sulle arti sceniche, vuoi perché la rivoluzione era già da tempo annunciata, vuoi perché l’attenzione in questo momento va ad altre e diverse questioni d’attualità). I motivi del mancato clamore possono essere tanti. Civica rileva giustamente per esempio che il passaggio di testimone preparato da anni è stato agevolato dal progressivo “abbandono del campo” da parte degli esponenti storici del nostro teatro di regia; ma anche supportato dalla fertile congiuntura con un parallelo “cambio della guardia” discriminante sia nella critica, come segnala il regista, sia – aggiungerei – nella direzione dei maggiori teatri del nostro Paese. Poi, seguendo il ragionamento, gli “squilli di tromba” sono mancati forse perché gli artisti in questione “non fanno tendenza” fra loro, creando fronti omogenei, né tantomeno in rapporto coi critici, che a differenza delle passate stagioni della ricerca in buona parte non hanno scelto di sostenerne qualcuno in particolare e nemmeno di provare a incasellarlo/i in una qualche griglia interpretativa onnicomprensiva.

Stante l’evidenza del rilievo sul “cambio della guardia”, non si tratta di discutere, consolidare o contestare l’ipotesi, quanto forse di provare a far “squillare la tromba”, seppur sottovoce o magari anche solo in parte: cioè di cominciare a scavare il fenomeno per non lasciarlo passare in sordina, come se nulla fosse, cercando di identificare il suo principio di discrimine e la sua possibile posizione nel sistema delle arti nazionale per comprendere che cambiamenti possa portare con sé – e in caso, tentare di osservarli e sostenerli. Lasciar correre senza confrontarsi su quanto sta accadendo comporta il rischio di contribuire in qualche modo a una eventuale, nuova normalizzazione (che in Italia come sappiamo è sempre dietro l’angolo); di dissipare gli sforzi compiuti finora da questi artisti per la loro crescita e consolidamento, o addirittura per un mutamento del sistema delle arti sceniche nel nostro Paese. Senza voler imporre alcuna forzatura interpretativa, critica, estetica o politica, credo che ascoltarli sia, più che importante, quasi un obbligo etico.

Per cominciare ad articolare l’ipotesi avanzata da Civica, invece che formulare di lì categorie e tendenze nuove o rinnovate che siano, si può provare a campionare alcuni interrogativi che il “cambio della guardia” può porre al teatro, più che di adesso, del futuro imminente e prossimo.
Se è vero che gli artisti in questione – che insieme ad altri andrebbero a comporre un quadro mutante e mosso di un nuovo teatro di regia – nel complesso non dimostrano significative e volute convergenze né a livello estetico, né di pratiche (anche questa è però una tradizione della regia italiana, a partire da quella “critica” in poi), qualche elemento in comune ce l’hanno – senza voler imporre nulla a nessuno né togliere alla necessaria libertà di movimento, sempre da difendere.
In realtà, vorrei azzardare – assumendomi tutti i rischi del caso – che se seguiamo il consiglio di Meldolesi e guardiamo, invece che agli esiti in forma di spettacolo, ai processi dal punto di vista dei modi produttivi, scopriamo – com’è accaduto in passato – che c’è ben più di qualche dato storico-cronachistico-biografico ad accomunare l’approccio di questi artisti. Tutti naturalmente sono impegnati – com’era in passato – in un’impresa di rinnovamento del repertorio drammaturgico, che si basi su forme auto-prodotte, sull’importazione in Italia di nuovi testi stranieri o sulla riscoperta di quelli della tradizione; buona parte viene dalla scena indipendente, con un sostegno negli anni più da parte dei festival che dal teatro ufficiale, mentre negli ultimi tempi  sono finalmente arrivati a superare i confini della produzione stabile in collaborazione con Tric e Teatri nazionali. Fra i quaranta e i cinquant’anni, con talmente tanto lavoro sulle spalle che chiamarli “nuovi” è quasi un affronto, sono artisti cresciuti per decenni nel sottobosco del teatro di ricerca lungo gli anni Novanta e Duemila e quasi tutti impegnati, oltre che nella creazione artistica, in prima linea nell’organizzazione di spazi, contesti, progetti indipendenti che potessero prima accogliere i loro lavori e poi anche le sperimentazioni di chi è venuto dopo.

Questo tutto sommato accomuna la presunta nuova stagione alla storia del teatro di regia in Italia, riformulando una cadenza e uno schema che è stato prima dei registi critici, poi di quelli del teatro di gruppo, e così via. Ma c’è forse una differenza importante da segnalare, ancora tutta in potenza e da cercare di comprendere nei suoi possibili esiti: a scavare fra le diverse esperienze, sembra che uno dei centri veri, condivisi, distintivi sia dal punto di vista etico che estetico si ritrovi a guardar bene nella centralità affidata – ovviamente secondo modi peculiari e diverse misure – al ruolo dell’attore, che diventa spesso centro irradiante del lavoro scenico (tanto della funzione registica, quanto della scrittura drammaturgica che dell’organizzazione dello spazio e dell’ambiente). “Post-regia” l’ha chiamata Marco De Marinis. È forse nell’essere-con gli attori che oggi il teatro cambia, si rinnova, supera le polarità della rappresentazione tradizionale e della sperimentazione performativa per donare agli spettatori un’esperienza ibrida, antichissima e sempre nuova. Segno ancora enigmatico ma evidente che qualcosa, in questo “cambio della guardia”, è senza dubbio mutato in profondità; una trasformazione d’ottica – forse politica prima ancora che estetica – che distingue questa generazione della regia italiana dai suoi precedenti, che – seguendo le analisi di Meldolesi – dimostravano tutto sommato una linea di continuità proprio nel mantenimento di una condizione di subalternità dell’attore.

La domanda, a questo punto, è come valorizzare e sviluppare questi dati di diversità, come portarli a innestarsi e crescere all’interno del sistema ufficiale che in tempi recenti queste figure stanno sempre più popolando; quali mutamenti potranno provocare a livello più ampio e trasversale, quali ostacoli ci saranno da affrontare, quali rischi e quali slanci; e ovviamente quali altri punti di differenza ci sono ancora da individuare, portare a emergere, interrogare.
E poi ci sarà anche da guardare, ancora una volta, in avanti: a cosa possiamo fare noi, artisti e critici venuti dopo, salutati negli anni Duemila come un’altra nouvelle vague del teatro italiano e oggi in cerca di consolidamento, insieme a loro e oltre.
È il possibile “squillo di tromba” del “cambio della guardia” che pone tutte queste – e sicuramente anche ben altre – domande, ancora tutte da trovare.

Roberta Ferraresi

Recitazione svuotata. E Shakespeare ringrazia

Recensione a Il mercante di Venezia – regia di Massimiliano Civica

In un suggestivo ambiente decadente, un bastione dimenticato e trasformato in spazio teatrale dal Festival Teatri delle Mura, è andato in scena Il mercante di Venezia, spettacolo primo della ormai stimata rassegna padovana. Si inizia con essenzialità e parole, con un teatro ricercato, possibile da apprezzare solo per chi non ferma il suo giudizio al primo impatto, ma procede oltre, cercando di interrogarsi sul motivo che ha portato il giovane Massimiliano Civica a fare determinate scelte registiche. Dopo aver ottenuto con questo lavoro il premio Ubu 2008 per la miglior regia, Civica approda tra le rovine medievali portando un teatro ridotto all’osso – o meglio, alla drammaturgia – invitando alla riflessione il numeroso pubblico presente.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Nessuna scenografia, ma solo quattro sedie sul palco, dove gli attori silenziosamente e impassibilmente attendono il proprio turno con delle maschere sul volto, prima di alzarsi e interpretare la propria parte. Rappresentano semplicemente i personaggi principali del famoso testo shakespeariano: il generoso Antonio, cristiano che presta denaro ai suoi amici solo per altruismo, Bassanio, amato e soprattutto appoggiato da Antonio nell’impresa di conquistare e sposare la bella e sagace Porzia, regina di un regno inventato, e Shylock, l’ebreo usuraio che viene umiliato per infine perdere tutto e ritrovarsi solo, senza affetto né alcun bene materiale. Una trama fatta di vendette e di promesse, dove la felicità di coppie innamorate si contrappone alla solitudine degli sconfitti.

Il regista rietino propone una fedelissima drammaturgia, restituendo un testo che risulta perfetto nella sua purezza. Non vi è alcuna immedesimazione degli attori, la recitazione è svuotata di qualsiasi coinvolgimento emotivo. Civica sembra voler presentare uno Shakespeare gelido, senza anima; ma è proprio qui che spunta un paradosso: impossibile far suonare vuote le malinconiche e rassegnate parole di Shylock, quando nel suo celebre monologo si chiede se anche un ebreo non abbia occhi o non soffra come un qualsiasi altro uomo; impensabile rendere privi di dolcezza i versi recitati e sussurrati da Jessica, la figlia dello strozzino, scappata di casa per amore di un cristiano, dopo aver rinnegato suo padre, sangue del suo sangue. Nelle battute finali del Mercante, quando i dialoghi racchiudono ogni tipo di dramma umano e forti sentimenti enunciati con parole che dilanierebbero qualsiasi anima, sembra quasi che gli stessi attori, Oscar De Summa, Mirko Feliziani e Angelo Romagnoli, fatichino nel trattenere il proprio pathos, cercando di mantenere la distanza e quell’essenzialità fortemente voluta. L’unica a non cambiare mai tonalità è Elena Borgogni, che si estrania totalmente, come fosse una marionetta, lasciando il suo sguardo perso nel vuoto.

Di fronte a un teatro paradossalmente freddo e distante, è il testo a uscirne vincitore: spicca tutta la poeticità piena di amara dolcezza di uno Shakespeare impossibile da mettere da parte, perché la sua scrittura piena di umanità non conosce tempo. Il mercante di Venezia acquista una forza incredibile, come se fosse elevato all’ennesima potenza: la nuda bellezza delle parole rapisce e conduce per mano verso un poetico e indefinito altrove.

Visto a Bastione Santa Croce, Padova

Carlotta Tringali

 

L’enigma o l’azzardo?

Recensione a Il Mercante di Venezia – regia di Massimiliano Civica

foto Teatri delle Mura

foto di Andrea Cravotta

Parlando de Il Mercante di Venezia, il regista, Massimiliano Civica, lo paragona ad un enigma, e si domanda il perché si sia sempre convinti di dover trovare una risposta, perché è implicito che vi sia una soluzione. «L’enigma non è una domanda, ma una certificazione della realtà». Parte da qui l’interpretazione fedele del testo, nessuna riduzione o rilettura troppo drastica, se non la scelta di lasciare in scena solo quattro attori. Uno spazio vuoto, quattro sedie per quattro maschere. Inizia e finisce così, in totale semplicità, l’intenso intreccio della trama del Mercante. Quello a cui assiste lo spettatore è lo srotolarsi calmo di una spirale, lentamente si sciolgono i nodi e la storia procede. Le scelte dei pretendenti di Porzia (Elena Borgogni), a far punti d’ancoraggio e svolta, la ricerca della giustizia e la punizione finale a chiudere il cerchio. La lettura che ci propone Civica non lascia spazio al gioco dell’attore, ma lo scava fino al midollo, per renderlo completo servo del testo: mai visto un monologo di Shylock, (un impeccabile Oscar de Summa) recitato tutto d’un fiato, mai visto un attore non cedere alla tentazione della scenata. Ma è qui la chiave, dichiaratamente svelata, una recitazione che è una semplice constatazione della realtà, del testo questa volta. A primo impatto lascia a bocca asciutta, un po’ di stupore, forse uno strano senso di disorientamento. Ma poi si riflette ancora, perché in fondo questa essenzialità disarma. «Chi scrive semplice pensa complesso» ci ricorda Italo Calvino, non senza ragione. Forse avremmo voluto passione e rabbia, forse si era pronti a congiungersi a Shylock nel suo urlo di protesta, ma è arrivato altro; qualcosa di meno coinvolgente, ma di valore. Un’analisi minuziosa e pacata di meccanismi complessi, uno svelamento dei fatti lavato da ogni passione; ma la passione si insinua tra le parole più sussurrate, scivola tra le frasi dette così impersonalmente, mostrando la potenza di un testo magnifico e la maestria di William Shakespeare.