Recensione a Morte di un commesso viaggiatore – regia di Elio De Capitani
A Milano l’anno si è inaugurato con alcuni titoli di testi americani che, pur essendo stati scritti nella prima metà del ‘900, sembrano oggi più che mai attuali. Perché parlano di sogni irrealizzati, di delusioni avvilenti e di futuri negati. E per sopportare il peso di un’esistenza altrimenti insopportabile, ci si rifugia nel passato. Come per lo Zoo di vetro di Tennessee Williams – andato in scena al Teatro Tieffe Menotti di Milano per la regia di Arturo Cirillo (leggi la recensione) – anche per Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller diretto da Elio De Capitani si vive moltissimo nel ricordo. Nel ricordo di un passato che è esattamente identico al presente, in continua sovrapposizione: protagonista di questo dramma familiare è Willy Loman, commesso viaggiatore licenziato e avvilito che passa le sue ultime ore sognando ad occhi aperti frammenti della vita che fu, intrecciandoli con la quotidianità della sua esistenza. Ma chi è Loman in realtà se non un uomo tradito da un sogno, quello americano, spinto a costruire nella menzogna il proprio Io perché la vita non gli ha dato quello che si aspettava? In cerca di un successo che non è mai riuscito ad ottenere, Willy spera ancora di potersi riscattare attraverso uno dei due figli, il suo caro – nonché preferito – Biff, giovane promessa dello sport, che per un gran senso di colpa e per un trauma legato a un tradimento del padre non accetta il compito di vivere e si ritrova ormai cresciuto senza alcuna prospettiva di futuro.
Se il fratello Happy non è altro che un bugiardo e un volgare donnaiolo – non troppo lontano da come era da giovane suo padre – Linda, la madre di questi due ragazzotti, è una donna che sceglie incondizionatamente di appoggiare il marito in tutte le sue menzogne e anzi fa di più: spinta dal grande amore preferisce il marito ai figli, allontanando questi ultimi dalla loro stessa casa perché visti come un pericolo per la salute – mentale e psicofisica – del padre.
De Capitani – che veste i panni del protagonista e dirige magistralmente tutta la compagnia in scena – rispolvera dalla libreria questo testo, scritto sì nel 1949 ma che presenta una grande attualità: il licenziamento e la disoccupazione, l’assenza della speranza in un futuro migliore, l’incapacità di creare dei figli perfetti e quindi uomini di successo, il grande dolore di sentirsi inutili nei confronti della società e un peso nei confronti dei cari; il suicidio come unica soluzione per poter lasciare una piccola eredità a quei figli sbandati senza lavoro, senza direzione; ma su tutto il tentativo di non perdere la dignità, trattenuta fino in fondo, a costo appunto di morire pur di non svendere la propria persona.
Una scenografia mobile e funzionale e un buon cast su cui spiccano lo stesso De Capitani – un Loman a cui si fatica a perdonare il tradimento “generazionale” e il giovane Angelo Di Genio che veste i panni di Biff, ma che presenta delle ombre, come quella di Cristina Crippa, nello spettacolo la moglie Linda Loman, che non convince, anzi indebolisce alcuni momenti del lavoro; o come alcune scene che si dilungano un po’ troppo sullo stesso concetto allontanando il totale coinvolgimento nella pièce. Si deve però dar atto all’Elfo di aver centrato un altro titolo tutto americano (di cui potrebbe essere un esempio anche il recente Frost/Nixon che ha riscosso un grande successo) che, per affinità al nostro periodo storico, potrebbe diventare, limando delle sfumature e rodando, uno dei lavori più presenti nelle prossime stagioni teatrali italiane.
Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano
Carlotta Tringali