Recensione a Motel. Prima e Seconda Stanza – gruppo nanou
Un interno post-borghese vibrante tutto in bianco e nero − o, meglio, impregnato dai tanti toni di grigio− un tavolo e due sedie, un’ambientazione traslucida fondata su una prospettiva centrale unica, diretta. Poi uno spazio articolato in più zone, divani e poltrone bordeaux. Qui e là, una grande attenzione alla texture, alla trama che rende tattile la visione. Queste la Prima e la Seconda Stanza del progetto Motel del gruppo nanou, entrambe attraversate dalla magnetica coreografia di micro-azioni − fra assoli minuti e qualche enigmatico passo a due, che sembrano pose di differenti stati emozionali − di un uomo e una donna (Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci). Non è la prima volta che la ricerca della compagnia si concentra sulla dimensione relazionale, anzi si potrebbe dire che essa ne va a costituire, sia a livello tematico che linguistico, uno dei tratti distintivi. Ma in questo lavoro, composto da tre differenti episodi, le figure in scena che ritornano − venendo declinate, riprese o tradite dalle diverse Stanze di Motel − vanno a fondare delle specie di macro-personaggi, la cui identità sembra decisamente più ampia rispetto al singolo spettacolo. È così possibile per lo spettatore, nei grandi “spazi bianchi” lasciati all’immaginazione, andarne a rintracciare i caratteri e le funzioni, le emozioni e i comportamenti, in un processo di comparazione che è oggetto di un continuo riassetto di prospettiva.
Entrambi gli episodi di Motel − il terzo e ultimo è ancora in lavorazione − sono costituiti attraverso una struttura che riflette sulla narrazione e sulla sua assenza; beninteso, non che proprio non ci sia la dimensione del racconto, ma la sua accessibilità è continuamente rimandata e messa in discussione, per essere poi squarciata e rimasticata dall’azione stessa. La composizione drammaturgica è ben presente − anzi la sua consistenza è evocata, richiamata e calcata persino fino ad inchiodare alcuni guizzi che trascinerebbero le azioni verso l’evaporazione − ma è come se si potesse intercettarne i nodi solo nei momenti “sbagliati” (meno pregnanti o determinanti). Come se la storia che si sprigiona dalle macerie dell’Occidente si concedesse allo spettatore per tratti, solo parzialmente significativi: al centro della Prima Stanza sembra collocarsi un’attesa cronica, seppure più prossima alla sospensione di tanti quadri di Hopper, che avvicinabile al teatralmente tradizionale riferimento beckettiano; nella Seconda l’accento è posto su un criminemai rivelato, tracce di catastrofi che nessuno ha visto. Le (presunte) azioni-chiave sono negate soprattutto attraverso un montaggio sottolineato da un continuo andirvieni di bui − e quando la luce ritorna, è come se si fosse perso qualcosa di cruciale, uno snodo o una rivelazione fondamentale per la comprensione dello sviluppo della scena, fino a far sembrare Motel più una sequenza di polaroid accostate che un flusso di accadimenti.
Ma non si tratta soltanto di un dispositivo drammaturgico, e la sottrazione della narrazione si concretizza anche a livello performativo. In entrambe le Stanze il ruolo emblematico della negazione è dichiaratamente delegato ad un oggetto − nella prima un tavolo, nella seconda un divano − che inghiotte ripetutamente le azioni dei performer, anche quelle (ipotizzabili) più importanti. Qualcosa è mostrato, suggerito, svelato e rivelato, attraverso alcune soluzioni sceniche davvero affascinanti, come il recupero degli accadimenti celati dal divano attraverso un triplice specchio mobile a fondo scena, che certo in parte mostra, ma soprattutto nasconde ulteriormente, l’identità dell’azione come in un dipinto di Bacon.
Con queste intuizioni compositive e performative, assieme a quelli che la compagnia stessa definisce “residui narrativi”, si può approfondire una prospettiva sulla scena contemporanea: superati la rappresentazione e il post-drammatico, gli artisti sembrano dover fare i conti con quella rinascita della testualità che da qualche anno coinvolge i palcoscenici italiani; ma non si tratta di un recupero della dimensione drammaturgica tout court, né di un affondo nei dispositivi di assemblaggio postmoderni, quanto forse piuttosto di un confluire del processo compositivo nella sua resa spettacolare, di una fusione fra dispositivo ed esito, di un movimento acrobatico e sinuoso che sembra avvicinare dimensione rappresentativa e realtà della scena.
Sarebbe semplicistico ricondurre gli slanci di questo lavoro alle categorie del teatro-immagine − di cui pure conserva notevoli elementi, dall’intreccio linguistico alla potenza della visione, fino a qualche momento in cui il rischio che il fascino iconico possa essere compreso più come esercizio di stile che come tentativo di messa in relazione con il reale. In entrambi gli episodi, infatti, non è proposto un montaggio puramente visivo, ma si pone l’accento sulla dimensione partecipativa dello spettatore, anche attraverso momenti di dichiarata riflessione sulla sostanza della performance: la Prima Stanza è inaugurata da un “gobbo” su cui scorrono frasi come «Benvenuto questo è il posto che cercavi», interrogando il pubblico sulle ragioni per cui attori e spettatori si trovino lì; la Seconda, invece, è introdotta da una voce modificata, comprensibile solo a brandelli: «Non voglio svegliarti, ma c’è qualcosa che devi vedere». E proprio in questi rigurgiti metateatrali, posti ad inaugurare ognuno degli episodi, si può trovare uno slancio che supera i limiti di quello che è riconosciuto come teatro-immagine: a fianco alla finzione scenica nanou colloca la realtà della messinscena e l’ermetismo di certe immagini, o dei riferimenti o degli inneschi, si scioglie nell’enormità di un mistero costitutivamente inaccessibile, della cui comunicabilità parziale sono complici tanto gli artisti quanto gli spettatori.
Tale crinale di sovversione dei canoni rappresentativi − che riesce a fare di un dispositivo drammaturgico una linea performativa e poi una strategia di relazione con il pubblico − si trova forse all’origine dell’impostazione tematica del progetto Motel: la violazione dell’intimità, nell’affacciarsi sui quotidiani segreti nascosti nei meandri dello spazio domestico, è dedicata innanzitutto allo spettatore, che è richiamato con evidenza a un protagonismo partecipativo, attraverso una partitura drammaturgica che ne mette continuamente in crisi lo sguardo “esterno”, fra testimonianza e voyeurismo.
Visto al Teatro al Parco, Parma
Roberta Ferraresi