operaestate festival

Tutorial: organizzare un festival

TUTORIAL: come si fanno le “cose” del teatro? Ce lo facciamo raccontare dalle persone che il teatro lo costruiscono o lo immaginano. In maniera veloce, come i trucchi del mestiere, come i consigli degli esperti.

Questa prima uscita, come il tema del trimestre, è dedicata ai “Festival”. Abbiamo chiesto proprio ai direttori artistici e ai curatori, quali siano le 3 cose assolutamente da fare e le 3 da evitare per creare un festival, per cercare di restituire la varietà di approccio che anima il paesaggio teatrale italiano.

 

BARBARA BONINSEGNA
Drodesera / Centrale Fies
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DA FARE DA NON FARE
Aprire gli occhi sul presente, non solo artistico, non solo politico, non solo iconografico. Adagiarsi sul consolidato
Mettersi in relazione col luogo in cui vivi mantenendo alta la proposta artistica senza mai cedere a compromessi rispetto alla facilità di comprensione, ma piuttosto lavorando col e sul pubblico locale. Spendere soldi che non hai
Mantenere l’indipendenza. Intesa come capacità di muoversi liberamente dal punto di vista filosofico, teorico, pratico e politico senza essere mai preda di qualcuno. Non copiare i festival degli altri (:D)
LUCA RICCI
Kilowatt Festival
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DA FARE DA NON FARE
Costruire un rapporto corretto con gli artisti – Qualunque siano le condizioni economiche dalle quali si parte, gli accordi con gli artisti devono essere chiari, rispettosi del loro sforzo creativo e della loro condizione di lavoratori. Si può anche partire con pochissimo (a noi è capitato così, avevamo 2.500 euro per l’edizione 2003, il primo anno) e chiedere agli artisti di investire in un progetto, ma poi è fondamentale ricordarsi di quegli stessi artisti, una volta che il festival è cresciuto. Meno sono le economie a disposizione e più gli artisti devono conoscere i dettagli del budget, di modo da essere in condizione di poter scegliere se partecipare o meno. Scambiare la propria gratificazione con un bisogno diffuso – Se un festival non è costruito intorno a una precisa analisi delle caratteristiche e ai bisogni della comunità di riferimento, non diventa realmente necessario, ma soltanto autorefenziale. Quando parlo di comunità di riferimento lo dico in senso largo: la comunità di riferimento è al tempo stesso quella locale (coi politici, i cittadini), così come quella delle aree limitrofe o degli appassionati del settore, ma anche quella dei colleghi, a livello nazionale.
Costruire un progetto e non una lista di spettacoli – È fondamentale vedere tanti spettacoli dal vivo e tanto materiale video, perché la conoscenza del panorama è un pre-requisito imprescindibile, ma bisogna anche coltivare una visione in base alla quale la sequenza degli spettacoli scelti non corrisponda a un semplice elenco di titoli, ma sia orientata a un obiettivo ultimo, definisca un progetto, disegni una visione. Copiare gli altri – Se una cosa c’è già, non ha senso rifarla; quel che conta è costruire un progetto creativo intorno a una propria idea originale. Abbiamo bisogno di esplorare ciò che è ignoto piuttosto che di piccoli cabotaggi verso mete già conosciute.
Saper dire no – Come in molte cose della vita dire sì a tutti è facile, ma sono i no che fanno la differenza. Anche nei confronti degli artisti che si stimano non serve essere compiacenti: non aiuta il loro processo creativo e men che meno aiuta il rafforzamento del progetto di festival. Farlo per forza – Se non ci sono le condizioni minime, meglio desistere.
SALVATORE TRAMACERE
Il Teatro dei Luoghi Fest
KOREJA
DA FARE DA NON FARE
È importante la chiarezza del progetto artistico proposto e della coerenza del piano di comunicazione: programmare per tempo e utilizzare tutti gli strumenti utili ad un’adeguata promozione. Non disorientare il pubblico, le compagnie e gli ospiti; non trascurare l’accoglienza: precisione, puntualità e disponibilità.
Far convivere una realtà che valorizzi il territorio (non solo tramite la programmazione ma anche attraverso il coinvolgimento attivo di pubblico e realtà locali, associazioni, collaboratori, ristorazione ecc.) per far sì che si crei un senso forte di aggregazione e comunità. Non chiudersi nel provincialismo.
È importante la coesione del gruppo e della comunicazione interna: riunioni interne e di micro-area; divisione dei compiti ma prontezza di spirito e adattabilità a qualsiasi situazione attraverso un’adeguata capacità di problem solving. Evitare malumori nel gruppo e situazioni d’emergenza.
DARIO DE LUCA
Primavera dei Teatri / Progetto MORE
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DA FARE DA NON FARE
Dare una specificità al proprio festival e perseguirla in maniera rigorosa, aliena da concessioni o compromessi. Un festival con una peculiarità ha carattere, personalità e lo rende riconoscibile. Poi, nel tempo, può, e deve, cambiare, evolversi, invecchiare bene insomma, ma facendo un cambio-pelle naturale e fisiologico. Non dare una personalità al proprio festival.
Accogliere tutti (spettatori, compagnie, operatori e critici) con affabilità. Nessuno deve sentirsi a disagio. È come invitare al proprio matrimonio: dove devono convivere ospiti che non si conoscono tra loro o peggio che non possono vedersi. Non abbandonare nessuno. Non far sentire solo o poco considerato l’ospite. Li hai invitati a una festa a casa tua? Ebbene quella festa devono ricordarsela. Un buon gioco di squadra è essenziale per questo punto. Essere disattento o addirittura assente con l’ospite, sia esso spettatore, artista, operatore o critico.
Gli spettacoli e i gruppi o gli artisti singoli devono realmente convincere la direzione artistica. Costruire l’edizione artistica del festival seguendo le reali convinzioni estetiche e il proprio gusto personale tenendo conto della koinè culturale nel quale si inserisce il progetto prescelto. Non trasformare la programmazione in un contenitore di proposte inserite perché: “bisogna tener conto degli artisti del territorio”, “a quelli dobbiamo un piacere”, “quell’artista va per la maggiore”, “tal dei tali ci ha chiesto di prenderli” etc. etc.  Solo così non sarai mai ricattabile e potrai difendere sempre e a spada tratta le scelte fatte. Costruire un progetto nel quale non ci si riconosce ma che tiene conto di “altre dinamiche”.
Avere una squadra tecnica in grado di risolvere tutti i problemi che possono verificarsi durante il festival. Un festival di teatro è fatto per presentare dei lavori teatrali (spesso in prima visione per cui con la fragilità e delicatezza delle piantine appena spuntate) e questi hanno la massima priorità. Una squadra tecnica accogliente, che sappia mettere a proprio agio gli artisti, sia a disposizione e all’occorrenza sappia consigliare per rendere più efficace quello spettacolo in quel determinato spazio teatrale. Che la cortesia, la disponibilità, la professionalità e il comune intento di resa massima della performance non si tramuti o venga presa per genuflessione acritica nei confronti dell’artista demiurgo dell’opera. Lasciare gli artisti soli senza alcun aiuto e/o supporto emotivo.

 

ANGELA FUMAROLA e FABIO MASI
Armunia / Inequilibrio
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1. ANGELA FUMAROLA
DA FARE DA NON FARE
Dedicare tempo alle scelte artistiche, ponderando bene il bilanciamento delle serata, al fine di rendere ogni giorno un’esperienza unica. Omologarsi.
Puntare al senso di ogni spettacolo e alla sua capacità di interagire con lo spazio emotivo, rigenerandolo. Avere ansia e fretta.
Dare valore all’accoglienza, intesa come ritualità, per il pubblico, per gli artisti e per il gruppo di lavoro. Non riconoscere il contesto di riferimento nel quale si svolge il festival.
2. FABIO MASI
Creare le migliori condizioni per accompagnare la versatilità delle varie proposte artistiche in modo da avere un maggior spettro di proposte, senza l’esigenza di una tematica o filone da seguire. Essere meno vetrina e più processi creativi.
Realizzare un ambiente e un “clima” accogliente e facilitatore di intrecci e confronti. Non creare l’ansia di “correre” a vedere gli spettacoli.
Fare di un festival il luogo e lo spazio dell’ampliamento degli orizzonti artistici e culturali grazie ad altre iniziative non direttamente connesse alla programmazione vera e propria.

 

FABRIZIO ARCURI
Short Theatre
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DA FARE DA NON FARE
Evolversi dai propri gusti. Dare priorità ai propri gusti.
Costruire un contenitore in grado di comunicare con la società. Costruire qualcosa a propria immagine e somiglianza.
Essere curiosi di quello che non si conosce, del nuovo. Essere spaventati dal nuovo.

 

CARLO MANGOLINI
Operaestate Festival Veneto
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DA FARE DA NON FARE
LA PAROLA CHIAVE E’ CONDIVISIONE  LA PAROLA CHIAVE E’ CHIUSURA
ARTISTI / Per costruire i contenuti artistici è indispensabile mettersi in ascolto. Intercettare tutto quello che accade attorno a noi. Costruire un percorso riconoscibile. Comunicare con gli artisti, ascoltarli, interpretarli, capire le loro potenzialità. MAI ESSERE AUTOREFERENZIALI / Evitare di ripetere se stessi.
STAFF / Per rendere efficace il risultato è fondamentale poter contare su un gruppo di persone con le quali condividere idee, pensieri ma anche fatica, sudore e tanto tempo da dedicare al progetto. MAI ESSERE PRESUNTUOSI / Non essere sicuri mai di niente.
PUBBLICO / Per intercettare il pubblico è necessario conoscerlo e farsi conoscere. Spiegare percorsi e direzioni di lavoro, trovare modalità di coinvolgimenti, creare momenti di approfondimento. MAI ESSERE ASSENTI / Prendersi cura di tutti: artisti, staff, pubblico, ma anche stampa, operatori e chiunque entra il relazione col festival .
SILVIA BOTTIROLI
Santarcangelo Festival
santarcangelo
DA FARE DA NON FARE
Viaggiare, frequentare ciò che non si conosce. Fare esperienza della scomodità, del senso di straniamento, del non capire, della stanchezza, del voler tornare a casa, e insieme dell’eccitazione, della curiosità, del puro piacere del viaggio. Porsi nella condizione di non sapere e farla durare, condividendola con il gruppo di lavoro e con gli artisti, perché questa vibrazione di incertezza e desiderio si trasmetta poi anche agli spettatori e ai passanti. Non costruire recinti, non tracciare sentieri nel bosco, non trasformare i sentieri in grandi strade asfaltate. Non addomesticare, non addomesticarsi: se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti e pericolosi, non si troverà mai una balena in una vaschetta per pesci rossi.
Fidarsi. Del caso, della generosità delle persone con cui si lavora, dell’intuito degli artisti, della curiosità esigente del pubblico. Del tempo, degli incontri, del fatto che alla fine tutto è connesso e ogni dettaglio contiene l’intero. Fidarsi, soprattutto, di sé e del proprio istinto. Non accontentarsi. È necessario essere esigenti con gli artisti, perché in un confronto serrato possano far crescere la loro libertà, e con le istituzioni, i partner e gli spettatori, perché possano andare dove da soli non andrebbero, dove non sanno di potere o voler andare. E naturalmente essere esigenti con se stessi, essere scontenti, insicuri, ambiziosi, rigorosissimi.
Darsi delle priorità. Non si riesce a fare tutto, e non si può rispondere a tutte le aspettative che sono poste su di un festival. La vera responsabilità è allora quella di fare delle scelte, di darsi delle priorità e un ordine, da seguire sia nel tempo lungo degli anni in cui si imprime una traiettoria a un’istituzione artistica, sia nel tempo brevissimo delle singole giornate di lavoro. E che le priorità cambino, si sa, è una regola del gioco: rende tutto più difficile ma anche più entusiasmante. Non tentare di compiacere nessuno. Si lavora per l’arte e per niente e nessun altro che l’arte. Non per sé, non per certi artisti, non per le istituzioni o i network professionali, non per il pubblico. E alchemicamente, se si respinge la tentazione del compiacimento e della ricerca di approvazione, grandi cose possono accadere per tutti, anche per chi avrebbe voluto essere rassicurato nella sua visione del mondo e invece ne scopre altre nuove.
EDOARDO DONATINI
Contemporanea Festival
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DA FARE DA NON FARE
È fondamentale che un festival sia aggregatore di un’idea di cultura in continuo movimento, un luogo reagente che raccoglie percorsi artistici provenienti da diverse discipline, un connettore di relazioni in cui la trasversalità dei linguaggi caratterizza in maniera consistente la ricerca compositiva e le metodologie della visione. Non fermarsi all’idea dei grandi eventi che non favorisce la costruzione di una comunità capace di difendere le proprie conquiste, passo dopo passo, acquisizione dopo acquisizione.
Considerare lo spettatore come committente in rappresentanza della sua comunità di riferimento; ed è qui che la creazione ristabilisce il giusto spazio d’incontro tra l’agire della scena e il fruire dello spettatore. In questo senso acquista ancora più valore l’attitudine del festival a costruire ambienti complessi, da cui scaturiscono questioni, elementi attivi che innescano continuamente nuove criticità. Considerare lo spettatore come un soggetto “acritico”, un cliente che non è in grado di giudicare e valutare. Evitare il facile consenso che si ottiene dalla proposta di spettacoli che richiamano solo alla pratica dell’intrattenimento o del semplice accompagnamento.
Assumere la responsabilità delle scelte e delle questioni messe in atto, domande che possono creare disorientamenti, che obbligano il pubblico al confronto con prospettive non sempre immediatamente comprensibili, ma forse, facilmente percepibili. La funzione di un festival non può limitarsi alla sola ricerca del nuovo o al mero elenco degli spettacoli in programma.

Note intorno un coordinamento della scena contemporanea

Note intorno al cambiamento del sistema produttivo
L’allontanamento produttivo dai teatri, che era già iniziato con l’avanguardia, negli ultimi anni si è consolidato e la cosiddetta scena contemporanea  ha trovato nuovi avamposti creativi nell’ambito di festival e residenze. Sono nati molti spazi autonomi e alcune strutture (come Armunia e Centrale Fies) offrono sale prova, durante tutto l’arco dell’anno, per dare spazio alle compagnie che altrimenti non avrebbero luoghi per concentrarsi sulla produzione. Un improvviso ricambio generazionale ha stimolato un drastico mutamento delle poetiche che si è ripercosso sui formati delle opere prodotte: studi e opere in più fasi hanno preso piede popolando le rassegne di tutta Italia. Forti contraddizioni vedono un panorama creativo, sempre più fertile e movimentato, crescere sulle basi di un sistema produttivo altrettanto fecondo ma al contempo instabile: il ricco proliferare dei festival (quasi 30 negli ultimi 2 anni) non ha trovato sostegno nelle politiche di finanziamento che – avendo ridotto drasticamente i fondi agli enti locali – hanno messo alle corde molte manifestazioni.
La frammentarietà delle poetiche artistiche rispecchia pienamente le problematiche di un sistema produttivo che si vede procedere a singhiozzo, sempre costretto ad avanzare per passi e a produrre opere mai complete e sempre spezzate. Logiche di mercato – alle quali spesso le stesse compagnie sono obbligate a ricorrere – che nel migliore dei casi vengono elogiate per ricalcare lo stile del serial televisivo, nel peggiore sembrano voler riproporre il metodo work-in-progress solo per vendere una prima al festival di turno. Equilibri precari e dinamiche che configurano una realtà difficile da identificare, decisamente variegata ed eterogenea, in rapido sviluppo ma sempre più in crisi e a rischio di declino. Proprio per questa sua natura particolare e non identificata, la scena contemporanea rientra a fatica nel sistema di finanziamenti nazionale, difficilmente le viene riconosciuta una natura indipendente e proprio per questo resta ancora sotto la dicitura di “altro”.

La necessità di un’autodefinizione e di un riconoscimento (prima di tutto interno) ha fatto sì che nell’ultimo anno, a partire dal Convegno di Sansepolcro, si mobilitassero delle energie volte all’istituzione di un movimento per la scena contemporanea. In seguito a quell’incontro – che ebbe forte risonanza a livello nazionale con la presenza di un centinaio di operatori da tutta Italia – una quindicina di volontari portò avanti un lavoro volto alla messa in pratica di proposte concrete nate dalle istanze esplicitate nel documento finale di Sansepolcro.

I risultati di un anno di lavoro sono stati esposti nel convegno che si è tenuto a Bassano dal 2 al 4 settembre: il gruppo guidato da Luca Ricci (Kilowatt Festival) ha presentato in tre giorni gli intenti e i versanti di studio e d’azione del nascente C.Re.S.Co., comitato per il Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea. Un movimento che si apre a situazioni eterogenee, diverse per linguaggi e problematiche, che si muovono su panorami distanti ma che si possono ancora definire comuni. Quella di Bassano più che una ricerca d’adesioni, è stata una chiamata a raccolta, un appello lanciato a molte delle realtà – operatori ed enti – che praticano quotidianamente la battaglia per il contemporaneo (qualunque forma esso abbia). Una ricerca di condivisione e confronto su tematiche che condizionano profondamente la sopravvivenza delle realtà produttive del teatro d’oggi: dalla proposta di aggiornamento del sistema dei finanziamenti nazionali e regionali al «riconoscimento normativo della natura atipica del lavoratore dello spettacolo». I partecipanti sono stati chiamati ad un dialogo attivo, favorito dalla divisione in gruppi di lavoro, che ha permesso a tutti di condividere la propria esperienza, di riconoscersi e di catalizzare nuove energie e proposte ridiscusse poi in assemblea plenaria.

Tra gli ambiti di confronto che hanno movimentato le giornate bassanesi: innanzitutto il sistema di finanziamento («profondamente ingessato») e le modalità in cui si possa attuare un sostegno capillare e diffuso. L’argomento affrontato da Davide D’Antonio (Teatro Inverso) e Gianni Berardino (Festival Voci di Fonte) è complesso e stratificato. Alcune proposte (accolte come utopie) prevedono la defiscalizzazione e la deducibilità di spese tangibili come i service, le autostrade, etc. Inoltre sono state individuate alcune istanze fondamentali per il rinnovamento quali la trasparenza normativa dei parametri d’accesso ai fondi e la necessità di amplificare l’attività degli Osservatori per migliorarne l’efficacia. Tra le proposte vi è anche quella di una divisione netta tra teatri stabili pubblici e teatri privati, un avvicinamento al sistema francese che renderebbe quello italiano più dinamico e agevole, agendo su due fronti totalmente separati (i teatri stabili dipenderebbero direttamente ed esclusivamente dal ministero, mentre tutto il resto sarebbe da considerarsi privato). Altro tema scottante riguarda il lavoratore dello spettacolo, una figura che fino ad oggi non è quasi stata presa in considerazione dalla legislazione e che necessita di una struttura diversa che comprenda forme contrattuali più agevoli e tutelate.

Per ogni tema trattato (di cui non si vuole fare un resoconto esaustivo) il nucleo base di C.Re.S.Co. ha elaborato specifiche azioni concrete attraverso le quali si potrà, in futuro, arrivare ad una messa in pratica degli ideali esposti. Proprio su questo fronte si muoverà Ugo Bacchella insieme alla Fondazione Fitzcarraldo – di cui è presidente – che si è resa disponibile ad effettuare una ricerca reale rispetto alla posizione del lavoratore dello spettacolo; dati che, si pensa, saranno molto diversi da quelli dichiarati all’Enpals e che non serviranno ad un confronto diretto con le istituzioni, bensì a stilare uno studio di settore che porti alla configurazione di profili e contratti più realistici rispetto alla situazione attuale.

L’impresa sembra decisamente ardua ma i presupposti sono ottimi, a partire da un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le persone ed enti aderenti al C.Re.S.Co., le quali si impegnano a seguire un codice deontologico che agisca sulla base di un “patto tra generazioni”, il cui obiettivo è quello di attuare dialettiche di scambio e partecipazione attraverso politiche di trasparenza e confronto. Molti i dubbi sulla possibilità di riuscire ad aderire pienamente al codice, soprattutto finché la situazione resta quella attuale. Quello che è emerso, dal confronto tra diverse realtà, è che il cambiamento non deve essere lasciato in mano ai giovani (sui quali si sta scommettendo fin troppo) perché sono le dinamiche attuali che hanno portato ad un sistema, ad una generazione, destinati all’estinzione. Se non si procede subito alla salvaguardia di questo fermento – che da tre anni a questa parte si sta facendo sempre più vivo – arrivando a soluzioni concrete, assumendosi la responsabilità di mettere le basi per un reale cambiamento del sistema, stilando delle buone pratiche che non restino inattuate, tutto ciò che conosciamo come contemporaneo potrebbe sparire.

La danza incontra la parola

Approfondimento a Dreams Doubts Debts di Gribaudi/Musso e Nel Lago di Senatore/Mabellini

Dreams Doubts Debts – foto di Giancarlo Ceccon

In uno scambio generazionale, stiamo assistendo costantemente al manifestarsi della necessità di alcuni artisti di relazionarsi con nuove esperienze, di confrontarsi con linguaggi altri che consentano di intersecare poetiche e portare a maturazione – o a mettere in discussione – il percorso artistico. Le frequenti collaborazioni in teatro sono indicative di una concezione di gruppo fondata sulla coralità paritaria e rispettosa del lavoro di ogni componente: questo è ciò che si è visto a B.Motion – la sezione di Operaestate di Bassano del Grappa dedicata al linguaggio teatrale e coreutico contemporaneo – che ha presentato un’interessante anteprima di due progetti nati dalla collaborazione tra coreografe e autori teatrali.

Il primo, presentato l’1 settembre al Garage Nardini, Dreams Doubts Debts, si origina e approda nel sociale. Commissionato a Silvia Gribaudi da MAG Venezia (cooperativa che opera nel campo della finanza mutualistica e solidale), il lavoro ha innescato nella danzautrice il desiderio di coinvolgere l’autrice Giuliana Musso nell’indagine sulle problematiche delle nuove povertà e dell’indebitamento. Il prologo allo studio interpretato dalla Musso – presentazione del progetto, che è anche un avvicinamento al tema affrontato – si colloca nella costruzione drammaturgica come dichiarazione dell’impossibilità del lavoro di aderire interamente alla dimensione teatrale assegnata a spettacoli presentati all’interno di festival: Dreams Doubts Debts, allo stato attuale, è la ricerca di una possibile comunicazione, di un linguaggio che metta a conoscenza dell’esistenza di uno sportello dedicato a coloro che vivono in prima persona il dramma rappresentato. Il percorso che ha portato a questo primo studio si è sviluppato in relazione diretta con gli strati sociali disagiati, in una capacità di ascolto e coinvolgimento che caratterizza la poetica di entrambe le artiste. Il passaggio dal racconto alla rappresentazione del dramma dell’indebitamento si è tradotto in scena nella continua contrapposizione tra pieni “illusori” e vuoti: l’inseguimento di sogni vani, il desiderio di successo e onnipotenza vede Silvia Gribaudi relazionarsi con l’unico elemento scenico presente, una scala di legno al cui vertice è posta una macchina di bolle di sapone. Il disfacimento a cui porta l’attenzione a beni effimeri corrisponde al crescendo espressivo del movimento: ripetizione e accelerazione di gestualità che affaticano e lasciano cadere il soggetto in un vortice dal quale sembra impossibile riemergere. L’apice di un dramma al quale Gribaudi non può aderire perché – come racconta l’autrice – la sua danza è comunicazione, è movimento fisico che intende stimolare movimento di pensiero, consegnando al pubblico la possibilità di scoprire nel dramma un’apertura. E l’apertura di Dreams Doubts Debts si rivela non tanto nell’invito a ricominciare, quanto in una presa di coscienza delle proprie condizioni economiche che, nell’imbarazzo e nella paura di fronte al disagio dell’indebitamento, possa lasciare emergere il coraggio di affrontare la realtà.

Nel lago – foto di Giancarlo Ceccon

Da un teatro sociale ad un metateatro – intriso di slittamenti nella realtà – è il passaggio che si compie al Teatro Remondini sabato 4 Settembre con la presentazione dello studio Nel lago nato dall’incontro tra Ambra Senatore e il regista Sandro Mabellini. L’inevitabile rinvio al balletto più acclamato della storia della danza del XIX secolo, viene sfruttato dagli artisti con un’ironia tagliente e una contestazione artistica che chiama in causa le molteplici versioni dell’opera offerte dai maestri del Novecento. Appropriandosi di un tema radicato nell’immaginario collettivo, Senatore si diverte a comporre una partitura coreografica in cui l’osservazione sul presente si accosta a elementi propri dell’opera originaria (come la struttura in quattro atti), ma dichiarando immediatamente la necessità della scelta nel confronto con Mabellini: la contrapposizione iniziale di ruoli e di formazione esplicitata dal prologo – in scena Senatore, danzatrice e Mabellini, attore – consente di procedere, nei successivi quadri, ad un dialogo serrato in cui relazionare le diverse poetiche. La costruzione drammaturgica si sviluppa alternando la presenza dei due autori, l’uno intento a rappresentare con il proprio linguaggio ciò che gli viene chiesto dall’altro. In tal modo «Ambra chiede a Sandro» di raccontare lo spettacolo visto la sera prima, una versione “contemporanea” del Lago dei cigni: le parole dell’attore ripercorrono la rappresentazione e danno vita a un divertente momento non privo di riflessioni sul teatro. A seguire, nel terzo quadro, «Sandro ha chiesto ad Ambra» di costruire alcune immagini in movimento che evochino concetti quali l’esposizione allo sguardo, la mercificazione del corpo, la cancellazione dell’identità che vede l’individuo cadere vittima di una trasfigurazione animalesca pur di raggiungere visibilità. Il perseguimento di sogni effimeri, influenzati da una cultura massmediatica, irrompe così anche nel lavoro di Ambra Senatore: l’illusione di voler essere un cigno viene ironicamente frantumata in un gioco che dichiara la frivolezza di ambizioni nate da una cultura che ha posto nella perfezione tecnica e nella costrizione del corpo femminile la base di un sapere coreutico. L’anagramma del nome della danzatrice, scritto su un pannello, funge da rivelatore di un concetto chiave del lavoro e dalla scritta ‘Ambivo al cigno. Ambra Senatore’ il risultato a cui si giunge in epilogo è ‘Ambivo al cigno e sembro anatra’. Un’anatra meravigliosa, verrebbe da dire, che con la sua forza e ironia travolge continuamente lo spettatore.

Elemento comune di entrambi gli studi è l’esplorazione delle coreografe nel linguaggio testuale. Le tante parole – che siano presenti perché ritenute necessarie all’espressione o originate dall’intensità del gesto stesso – affiancano il movimento in maniera equilibrata ma in un rispetto che può correre il rischio di fissare a terra anche quei frammenti che la danza lascia poeticamente vibrare.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Elena Conti

Azioni che interrogano lo sguardo

Recensione a La prima periferia Pathosformel

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

In un silenzio dai tratti rituali, all’interno di un quadrilatero chiaro, tre figure sono impegnate a far muovere altrettante creature, che vanno a costruire, successivamente, immagini e (più di rado) azioni. Si presenta quella che si può intuire come una serie di tableaux vivants, anche se gran parte delle composizioni non sono immediatamente riconoscibili o riconducibili alla figura originaria. Ma non è (solo) questo l’importante: La prima periferia è uno spettacolo di una delicatezza particolare, che condensa il coinvolgimento emotivo e percettivo del singolo spettatore attraverso una esile leggerezza visiva, la precisione delle linee compositive e – non ultime – la cura e l’attenzione quasi affettiva di cui è permeata ogni azione.
Protagonista è la fatica che sottende ogni movimento, anche il più piccolo: lo stridere delle articolazioni – che ognuno riconosce, ma nessuno sa – è un leitmotiv acustico talmente efficace da sovrastare il tessuto sonoro abbastanza convenzionale su cui si sviluppa lo spettacolo;
mentre, allo stesso tempo, lo sforzo implicito nella cinetica umana si esprime anche a livello visivo: tre persone possono non bastare a farne inginocchiare una quarta, qui “interpretata” da un modello anatomico umano a grandezza naturale. Proprio in questa dimensione si colloca uno dei tratti di questo lavoro, che – come anche altri di Pathosformel – interroga direttamente lo spettatore (riguardo gli automatismi della propria visione) e il performer (sulle emergenze della propria azione).

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

Di più, La prima periferia è la prima creazione in cui sono presenti attori tout court: tre performer, appunto, impegnati a comporre i movimenti e le pose dei modelli anatomici. Qui la ricerca sull’intuizione e l’immaginazione dello spettatore per cui l’ensemble si è distinto fin dall’inizio è sviluppata secondo un percorso estremamente interessante: smascherata, l’interrogazione sulla percezione e l’interpretazione si amplia fino a coinvolgere ulteriori livelli del discorso performativo e non solo, aprendo quesiti sulla collocazione dello sguardo, sul suo rapporto con l’immagine e sull’azione attoriale che travalicano i limiti della singola creazione. In Volta, come ne La timidezza delle ossa o La più piccola distanza, l’innesco concettuale – pur estremamente affascinante e coinvolgente sia a livello ideativo che nella sua concretizzazione in scena – rimaneva legato ad un dispositivo dichiaratamente spiazzante, destinato a mettere in crisi il ruolo dello spettatore, a interrogarlo e a condurre ognuno a ridefinirlo; la focalizzazione della percezione, pur interrogata e stimolata, restava in qualche modo legata al dispositivo con cui era prodotta, alla “magia” dell’accadimento e, forse, anche alla curiosità che suscitava. Ne La prima periferia invece, complice la presenza fisica dell’attore, sono messe in discussione l’azione e la visione stessa: cosa accade? L’azione (i movimenti dei manichini) o le forze che la determinano (quelli dei performer)? Il quesito posto da questa performance – capace di rivalutare o, quantomeno, di indicare altre possibilità di sviluppo per lo spettacolo live – è a dir poco calzante, soprattutto in questi anni di addomesticamento ai meccanismi televisivi, di fruizione scontata, di co-autorialità invocata ma mai realizzata, anzi sempre più circoscritta anche (e soprattutto) attraverso le ultime frontiere comunicative del web, dagli innumerevoli blog ai social network a youtube e wikipedia. In questo panorama che lavora (consapevolmente o meno) all’omogeneizzazione dell’individuo, La prima periferia è una performance che si inoltra nelle esperienze (attuali e passate) di ogni spettatore, andando ad invocare la singolarità dello sguardo: al di là di qualsiasi approfondimento concettuale, la dimensione emotiva, l’inclusione irriducibile, l’affondo personale sono senza dubbio al centro di questo spettacolo, che riesce a concentrare una così ampia varietà di dimensioni in azioni semplici dall’espressività artigianale. Quando il profilo del pavimento, a fior di palcoscenico, comincia a brulicare di un formicolio di minuscoli oggetti in movimento e, insieme, giganteschi, performer e manichini li osservano e tentano di afferrarli, si compie un’attenzione irriducibile, in una coincidenza fra agente e agito di un certo impatto e coinvolgimento emotivo, di grande resa scenica e di rara lucidità creativa.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Roberta Ferraresi

Ipotesi nebulosa

Recensione a Bestiale improvviso_3a ipotesiSantasangre

Bestiale improvviso_3a ipotesi - foto Adriano Boscato

Procedendo con metodo scientifico, Santasangre elabora, per B.Motion, un’altra ipotesi, la terza, sul suo progetto Bestiale improvviso, che verrà presentato nel suo esito definitivo ad ottobre in occasione di Romaeuropa Festival. Spunto di riflessione ed elaborazione dichiarato è l’energia nucleare, nella sua duplice espressione devastante se manipolata dall’uomo e di infinito e vitale fascino nella sua forma astrale.
Il teatro viene così invaso da una fitta nebbia, nella quale si intravedono figure che si muovono in un tappeto sonoro artificiale e fragoroso. Al diradarsi della coltre, divengono più percepibili i movimenti delle tre performer — Roberta Zanardo, Teodora Castellucci e Cristina Rizzo — che sviluppano una coreografia fatta di gesti rapidi e convulsi eseguiti con estremo rigore, ma che, coinvolgendo principalmente solo la parte superiore del corpo, risulta paradossalmente statica. La scena è mossa da un disegno luci complessissimo e articolato, che, forse ispirandosi proprio alla luce astrale, crea un continuo gioco di chiaroscuro a tratti quasi psichedelico.

Un’ipotesi spettacolare tecnicamente impegnativa e ben studiata, quindi, ma che probabilmente ribadisce un percorso di ricerca linguistico piuttosto che arricchirlo, realizzando un lavoro impeccabile ma forse autoreferenziale e poco azzardato. A farne più le spese è la comunicabilità stessa del lavoro: nonostante la nebbia avvolga indistintamente palco e platea, lo spettacolo non risulta altrettanto coinvolgente, per una gestualità eccessivamente reiterata ed un lavoro che, nel complesso, soffre di una eccessiva cripticità che fa percepire una distanza apparentemente insormontabile per lo spettatore con le premesse  — o promesse — del foglio di sala.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Silvia Gatto

L’immaginario manga arriva in teatro

CollettivO CineticO - XD 1|2 - foto di Giancarlo Ceccon

Spiderman e Superman sono, nell’immaginario collettivo, tra i più celebri supereroi dei fumetti e dei cartoni animati. Una volta regnavano incontrastati: chi da bambino non impazziva nel seguire le loro imprese e chi non cercava, almeno nel beato e divertente mondo ludico, di imitare il comportamento dell’uomo coraggioso che salvava i buoni in difficoltà?

Negli ultimi dieci anni il panorama fumettistico, ma anche il mondo dell’animazione, ha subito un profondo cambiamento: gli eroi americani sembrano appartenere a una generazione ormai cresciuta, che ricorda con entusiasmo, e delle volte anche goliardia, gli uomini dotati di superpoteri; oggi i giovanissimi guardano maggiormente ad altri stili comportamentali, atteggiamenti che appartengono al mondo fantasioso e giapponese dei manga. Questo genere di cartoon venuto dall’Oriente, caratterizzato da personaggi goffi e impacciati, o sensuali e sadici, ha di fatto sostituito il modello del supereroe dotato di muscolatura e lineamenti fisici ben definiti. Piccole e buffe “creature” senza una forma ben definita che suscitano tenerezza e strappano sorrisi o bamboline piene di carica erotica – piccole Lolite dalla falsa innocenza – hanno preso il loro posto e si ritrovano ormai diffusi in tutte le salse: non solo nei fumetti o nei cartoni animati, ma anche disegnati sugli oggetti del nostro quotidiano, una sorta di simpatici scarabocchi sostitutivi a un’immagine realistica. E c’è di più: lo spazio utilizzato per esprimere le proprie emozioni tende a scomparire. Non rimane altro che assumere quei caratteri nipponici stilizzati che sono diventati simboli esemplificativi per la comunicazione, addirittura a livello internazionale. Una sorta di lingua comune per esprimere il proprio stato emotivo. E allora nei messaggi – dalle e-mail agli sms – bastano delle semplici linee sbarrate che sostituiscono gli occhi e una D maiuscola al posto della bocca per indicare una felicità esagerata, o due punti e una barra obliqua per veicolare un disappunto, o due linee e un trattino basso per comunicare la propria desolazione o stanchezza. Ecco fatto un personaggio nipponico.

CollettivO CineticO - XD1|2 - foto di Giancarlo Ceccon

Questo immaginario si è introdotto piano piano anche nel mondo del teatro-danza e lo si può ritrovare nel lavoro di CollettivO CineticO. Pur rimanendo una pièce molto concettuale e piena di rimandi altri (a partire dalle eterotopie foucaultiane fino alla riflessione sullo scorrere del tempo – da indagare magari in altra sede), XD ½ si serve di tutta una serie di atteggiamenti e scritture che appartengono alla tradizione manga. Già dal titolo si entra subito in un’ambientazione dove i bravissimi danz-attori – Andrea Amaducci, Jacopo Jenna, Angelo Pedroni e Francesca Pennini – richiamano i personaggi ironici del mondo del fumetto giapponese. Tra loro ci sono anche Spiderman e Superman, ma non ne rimangono che degli stanchi frammenti, appena una maschera o un simbolo di rimando sugli slip: i beniamini di una generazione passata non sembrano reggere il confronto con queste nuove “creaturine” goffe, ma che emulano a volte i vecchi supereroi, concedendosi però il lusso di non essere perfetti e di vivere anche fuori dagli spazi a loro riservati. CollettivO CineticO, guidato da Francesca Pennini, crea brevi immagini che sembrano scollate tra loro, ma che in realtà girano intorno a questo mondo stilizzato: i baloon – mostrati a volte accanto al corpo della danzatrice in scena – con segni come asterisco e cancelletto sostituiscono le parole; divaricatori dentali servono per restituire un sorriso forzato, tipica iperbole da cartoon; una X orizzontale posta sopra delle fasce da porre sugli occhi annulla tutto quanto può esserci di fisico e di reale nel volto.

Chissà se saranno proprio i manga a mandare definitivamente in pensione quei supereroi sempre pronti a correre nel momento del bisogno? Ma poi chi ci salverà?

Carlotta Tringali

Drammaturgie, Visioni e ora… Spaesamenti

Luca Scarlini

Scorrendo il programma di B.Motion Teatro, nella sezione Spaesamenti, si trovano artisti che creano con i loro lavori continui slittamenti: dalle digressioni spaziali di Luca Scarlini alle incursioni nei trent’anni di Operaestate di Antonio Rinaldi & Jacopo Lanteri, passando per la messa in discussione di ruoli (performer/spettatore) di Fagarazzi & Zuffellato. Ad introdurre questa sezione del festival, allargando le possibilità di significazione del termine, la presentazione di Iperscene2, volume curato da Jacopo Lanteri per la Collana Spaesamenti diretta da Paolo Ruffini per Editoria&Spettacolo. Spaesamenti che si originano nella vita per approdare alla scena e all’editoria, modelli culturali in cui il teatro si intromette per rivelare l’inaspettato.
Il frequente turbamento che viene generandosi nello spettatore in seguito ad una rappresentazione teatrale non può inscriversi in categorie definite, la sua cadenza regolare nella scena contemporanea rende sintomatica una situazione in cui il teatro si dimena alla ricerca di uno scuotimento, di una relazione attiva tra palco e platea, di uno spaesamento che nel suo manifestarsi dichiara esplicitamente la necessità di una presa di coscienza da parte del pubblico. Ma non solo. Spaesamenti si inserisce nella programmazione di B.Motion Teatro come percorso in cui gli spettacoli giocano sull’effetto sorpresa, come ribaltamento di canoni prestabiliti che fin dal secolo scorso ha animato gli artisti. In tale prospettiva, l’uscita dai teatri viene accostata alla necessità di far conoscere testi inediti o poco conosciuti nel progetto di Luca ScarliniAppetizers (aperitivi teatrali).

OperaEstate RemiXXX

Le opere di scrittori che hanno accresciuto l’immaginario culturale e artistico del ‘900, quali Tennessee Williams o Alfred de Musset, vengono interpretate dai partecipanti all’esperienza formativa sull’Attore Performativo svoltasi in occasione di Operaestate 2010. Scarlini travalica lo spazio teatrale e quello della lettura privata presentando cinque testi in cinque mini-eventi nelle librerie della città. Il tassello successivo che compone Spaesamenti si concentra sul rapporto tra spettatore e attore indagato da Fagarazzi & Zuffellato. Enimirc richiede una partecipazione attiva del pubblico, il distacco sociale creato in primis dalla struttura teatrale viene messo in crisi facendo saltare ogni possibile definizione di ruolo. Di uno “spaesamento” storico parla infine il progetto di Antonio Rinaldi & Jacopo Lanteri, Operaestate RemiXXX. In un processo di riscoperta e archiviazione della storia passata del festival, gli artisti presentano ogni sera un frammento dei trent’anni di Operaestate Festival Veneto in una ricostruzione storica che diviene parziale ed effimera non appena si presenta l’intervento della memoria soggettiva. «Se potessimo dimostrare il passato – scrivono gli artisti nel progetto, riprendendo Jean Baudrillard – avremmo ancora dei diritti sul futuro».

Elena Conti

Il nudo è di scena a B.Motion

Approfondimento sul Festival B.Motion Danza 2010

Corpi-carne in esposizione, che vanno verso una decomposizione. Corpi simil-velati, trasparenze verticali che mostrano una giocosa eleganza. Corpi che nascondono la loro natura dietro travestimenti, ingannando l’immaginario collettivo e rivelando la propria fisicità una volta spogliati delle vesti. Corpi che cercano un’identità, cambiando se stessi per passare verso un altro stato, un’altra immagine che rifletta il proprio Io. Corpi che ritornano al primitivo e al bestiale mescolandosi al materico, alla terra-torba da cui provengono e in cui un giorno ritorneranno. Corpi statuari e corpi deboli, indifesi, ma depositari di una purezza disarmante. Il nudo in scena si rivela in molti lavori presentati a B.Motion Danza 2010: la fisicità diventa una fonte inesauribile da interrogare, si sente il bisogno di “mettersi completamente a nudo” forse per trovare un punto di contatto con chi è seduto in platea.

Marco D'Agostin

Una necessità e un modo scelto dagli artisti per trattare argomenti che forse altrimenti non riuscirebbero a comunicare: un corpo nudo è portatore di verità, riesce a parlare anche semplicemente mostrandosi in tutta la sua vulnerabilità. È più semplice da colpire, da attaccare: i segni di violenza rimangono ben visibili e fissi nello sguardo del pubblico. Come in Co(te)lette di Ann Van den Broek dove le tre donne in scena iniziano ad infliggersi dei colpi: impossibile non empatizzare immediatamente, un dolore attraversa il pubblico messo di fronte a tale bombardamento. Riesce a veicolare le proprie emozioni in maniera diretta anche nel momento in cui le parole vengono meno, come nell’altro lavoro We solo men della coreografa olandese, in cui una sorta di boy-band di fronte ai tanti microfoni presenti in scena non può esprimersi a voce, ma solo con il linguaggio dei segni portato all’esasperazione; il corpo e il gesto diventano l’unico mezzo di espressione e di comunicazione. E sempre nella stessa pièce si svela il gioco del travestimento: chi si pensava fosse uomo – con tanto di basette e baffetti al volto e movimenti stereotipati tipici di una popstar – una volta denudato sorprende un pubblico che all’improvviso si ritrova a dover rivalutare tutto ciò che fin lì aveva visto. La sorpresa arriva anche con Marco D’Agostin, il giovanissimo vincitore del Premio GD’A Veneto 2010, che con Viola riesce a mutare il proprio corpo, da uomo a donna, creando l’immagine suggestiva di un corpo androgino che scompare lentamente dentro una luce fioca; in una posizione che ricorda il Cristo in croce, D’Agostin si priva di una sessualità ben specifica che lo caratterizzi, creando un’immagine di piena purezza che ricorda una pittura quattrocentesca. In The son dei greci Oktana Dance Theatre il corpo ritrova la sua natura primitiva: è solo, con la sua nudità, immerso nella torba, in un istinto primordiale che lo spinge a fondersi con la terra e riportare così la propria carne alle origini, alla creazione, ma anche alla sua fine. La matericità diventa simbolo di nascita ma anche di un ritorno definitivo, di morte.

Non è suggestione ma è disarmante la sensazione che suscita Alessandro Sciarroni nel suo spettacolo Your girl: in una tenera semplicità data dal solo mostrarsi nudi in scena in posizione statuaria, i fisici di Chiara Bersani e Matteo Ramponi si fanno portatori di diversità e vulnerabilità. Le due presenze sceniche acquistano un valore aggiunto in quanto diverse tra loro: la “Diversità” non trova un contrasto con la “Normalità” o la “Perfezione”, perché sono proprio queste definizioni qui a cadere; se la chiusura data dalle categorizzazioni mentali spinge a pensare che solo un corpo perfetto – e poi anche qui: che cos’è la perfezione in un corpo? – può farsi carico di emozioni, in Your girl sono le presenze sceniche dei due corpi a riempire di significato la pièce.

Carlotta Tringali