03.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo La Stanza di Pinter, messa in scena da Teatrino Giullare
03.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Perché il cane si mangia le osse di Teatri del Sud/ Deriva film
Abbiamo incontrato Francesco Suriano, autore del testo Perché il cane si mangia le ossa, presentato in prima nazionale a Primavera dei Teatri. Lo spettacolo è il viaggio tra reale e assurdo di un uomo del sud che ritorna a Torino dove per anni ha lavorato, ma dove tutti lo scambiano per un nordafricano senza permesso. Un viaggio per ricordare anche coloro che sono morti lavorando alla Thyssen Krupp.
Dormire, abbandonarsi ai propri sogni, passare dallo stato cosciente a quello ingovernabile di pensieri, desideri e paure. Nel sonno, in modo del tutto incontrollabile, un aggrovigliarsi di sensazioni al limite tra piacere e terrore esce da un terreno impervio e ignoto, che trae la sua linfa dalla nostra vita quotidiana per tirarne fuori gli aspetti più reconditi e dimenticati. La notte, con i suoi abiti scuri e il suo silenzio, è il momento privilegiato delle angosce e delle fobie che come serpi strisciano fuori dalla zona buia in cui vengono confinate; la notte è quel frammento di tempo in cui l’uomo è solo con se stesso, costretto ad affrontare i propri fantasmi.
Ispirato liberamente ai testi di letteratura giapponese La casa delle belle addormentate di Yusunari Kawabata e Sonno profondo di Banana Yoshimoto, Doll is mine di Katia Ippaso – presentato in prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri – affronta un viaggio notturno per mettere in luce situazioni e uomini che in totale panico non riescono a vivere in solitudine questa parte della giornata dove gli spettri ritornano. Proprio per questo, in Giappone, è molto diffusa la professione di “accompagnare i clienti nel sonno”: nel Palazzo delle belle addormentate alcune fanciulle dormono con uomini che si abbandonano totalmente a delle sconosciute pur di riuscire a godere di momenti di calma. Una calma apparente, poiché è impossibile, come sottolinea la protagonista durante lo spettacolo, «tranquillizzare degli uomini posseduti dalla morte».
La sanguigna Cinzia Villari dà vita, sotto la guida registica di Lorenzo Profita, a un monologo intenso, che alterna momenti di pura dolcezza ad attimi di tensione, dati dall’avvicendarsi degli incontri che vengono narrati, casi di uomini affascinanti che vivono tra la veglia e il sonno o casi di psicopatici che tentano anche di commettere un omicidio o violenza sessuale. Accompagnata in scena dal sassofono e clarinetto di Michele Villari e dalla fisarmonica midi di Roberto Palermo, che hanno la capacità di aumentare il carico emotivo intrecciandosi alle parole dell’attrice, Cinzia Villari fa vibrare delle corde interne dello spettatore grazie a un testo pieno di poesia e che lascia, soprattutto nella parte iniziale, una estrema dolcezza.
02.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo L’Italia s’è desta di Stefano Massini / Teatro delle Donne
Recensione a Sapore di sale —Centro Internazionale Arti Contemporanee e l‘Italia s’è desta —Teatro delle donne
Sapore di sale, del Centro Internazionale Arti Contemporanee, voleva essere uno spaccato sull’Italia degli anni Sessanta. Voleva parlare di una tematica difficile, quella del boom economico e di tutte quelle storie di uomini che dal Sud Italia salgono al Nord per lavoro, e voleva farlo in modo leggero.
Poche battute pronunciate in un materano quasi incomprensibile raccontano la storia di Roberto, un pastore, che dopo aver perso il suo gregge va a Torino per lavorare alla Grande Fabbrica. Una scena vuota su fondale bianco fa da scatola agli elementi – sedie, tavolo, macchinine, pecore che di volta in volta popolano il palco. Gli attori si muovono nello spazio comunicando con brevi scambi di battute, il vero dialogo è quello dei corpi che si spostano in scena precisi disegnando un immaginario del Sud contadino in cui fanno irruzione intermezzi danzati vicini al musical. Un contrasto continuo tra la realtà popolare e la modernità che avanza. L’immagine è curata, fin nei minimi particolari: i costumi di stampo naturalistico trasportano lo spettatore in pieni anni Sessanta. La scrittura scenica è minimale e a volte prevedibile: qualche battuta, coreografie anni Quaranta su musiche evergreen e poi buio, e così via. Nella sua semplicità lo spettacolo scorre lentamente, ottanta minuti ad un ritmo costante e scandito dai cambi di scena che risulta essere ripetitivo. Nonostante tutto c’è da riconoscere che parte del pubblico è rimasta affascinata dalle atmosfere, divertita dalle coreografie hollywoodiane, forse colpita da una tematica che la tocca nel profondo.
Di tutt’altro stampo L’Italia s’è desta. Scritto da Stefano Massini e interpretato dal Teatro delle Donne, il testo-indagine tratto direttamente dalla cronaca italiana, è un catalogo sull’Italia del 2010. Se sfogliassimo le pagine dei giornali ritroveremmo, uno per uno, tutti i fatti di cui testimonia questo intensissimo spettacolo che, diviso in 21 capitoli — uno per regione — ripercorre i più crudi, cruenti, sconcertanti e assolutamente veri fatti di cronaca locale. Dai cinesi in affitto nelle fogne di Milano, agli effetti delle onde di radio vaticana, agli operai tritati nei mattatoi tecnologici.
Il testo, pronunciato con ritmo serrato dai tre attori seduti al tavolo in stile telegiornale, arriva alle orecchie del pubblico diretto e implacabile; impossibile soffermarsi sui particolari, l’importante è la notizia trasmessa con ironico sarcasmo che non lascia via di scampo. Bravi gli attori nel sostenere un testo così concentrato, forse un po’ lungo per un pubblico che arriva alla fine decisamente provato ma contento e soddisfatto. Un lavoro importante che getta la coscienza dello spettatore in pasto alle contraddizioni del proprio Paese. Fin dove ci si può e vuole riconoscere come italiani, e quanto si può amare il proprio Paese a queste condizioni? Domande che sorgono spontanee ogni volta che tra un capitolo e l’altro viene mandato l’inno d’Italia nelle sue mille versioni. Un quadro, quello dipinto da Massini che non ha pietà per nessuno ma, come recitano le note di regia «il pozzo è autentico», è tutto vero. Se solitamente si è abituati a cambiare canale quando si ascolta l’infinita lista della cronaca nera, quest’opera costringe lo spettatore di fronte alla cruda e tragicomica realtà. Dopo un fiume di parole l’Italia trova la sua estrema rappresentazione in tre maiali con la maglietta della nazionale.
Visto al Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari
Recensione a Variazioni sul modello di Kraepelin – Quellicherestano
Variazioni sul modello di Kraepelin
Dimenticare chi si è, cancellare dalla mente le persone con cui si è condivisa una vita, non ricordare più nessuna delle vicende accadute durante l’arco di un’esistenza, ma avvicinarsi ogni giorno sempre più al vuoto, al nulla, all’oblio. Con Variazioni sul modello di Kraepelin l’autore Davide Carnevali consegna alla scena un testo che mette in luce una malattia molto diffusa, soprattutto tra gli anziani, a cui non c’è cura: il morbo di Alzheimer, una demenza che trascina a una lenta morte, a uno spegnimento del cervello che non riesce più a trattenere alcuna informazione, alcun ricordo. Senza alcuna pateticità la compagnia Quellicherestano, diretta da Fabrizio Parenti, presenta con accuratezza e con grande efficacia un testo denso, in cui la verità sfugge non solo al protagonista affetto dalla terribile patologia, ma anche al figlio che lo assiste e allo stesso dottore Kräpelin che segue il progredire della malattia. Non c’è alcuna certezza sulle vicende accadute in un passato che va svanendo, ma solo continui spostamenti di ricordi: l’ammalato, interpretato da un impeccabile Alberto Astorri, cambia identità appropriandosi ogni volta di un particolare differente e mettendo sempre in discussione il rapporto con il figlio, un bravo Walter Leonardi, che diventa per le diverse situazioni sergente, padre o ragazzo. Fabrizio Parenti, oltre essere il regista di questo accurato ed emozionante spettacolo, veste i panni di un dottore particolare, Kräpelin: se nella storia è stato uno dei più grandi psichiatri tedeschi, collega di Alzheimer, qui diventa un medico con metodi di cura in continua variazione, da adottare di fronte a una persona che va annullandosi.
Variazioni sul modello di Kraepelin
In scena frammenti di vite in cui la verità, invocata nei momenti di lucidità del protagonista, continua a scivolare, tra una memoria e un’immaginazione che si confondono creando una realtà altra, forse vera o forse solamente sognata. Non c’è alcuna tragicità dichiarata in questo dramma, di fronte a una persona che «dorme in piedi e che muore nel sonno», ma un forte straniamento, complice anche un’atmosfera surreale che ritorna nei diversi momenti dello spettacolo: una partita a carte che si trasforma in una disperata scena dove i tre attori cantano urlando e contorcendosi, o una persona vestita da coniglio che corre verso l’ammalato in abiti da donna. Come se all’improvviso lo spettatore piombasse nella mente malata di chi si appropria di frammenti di vita appartenuti ad altre persone pur di avere dei ricordi: fondamentali affinché un uomo abbia un’identità e sappia chi sia. In fondo la propria esistenza è la somma di quello che si è fatto; senza ricordi non si è più nessuno.