Primavera dei Teatri 2010

Intervista a Teatro Sotterraneo

Intervista a Daniele Villa a cura di Camilla Toso

foto di Angelo Maggio

Teatro Sotterraneo ha aperto Primavera dei Teatri con Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie, spettacolo che ha riscosso grande successo anche qui a Castrovillari, dove ogni anno si ripete il miracolo di questo incredibile Festival, che dopo undici anni di lavoro e costanza ha creato un pubblico affezionato e assiduo. Abbiamo incontrato Daniele Villa dramaturg e portavoce del gruppo per approfondire alcune tematiche del lavoro della compagnia fiorentina.

In questa breve intervista alcune riflessioni intorno ai punti cardine della poetica della compagnia, dai riferimenti bibliografici al processo creativo collettivo insieme a un parere sul senso di appartenenza alla cosiddetta “Generazione T”.

Il vostro nuovo lavoro ruota intorno all’origine della specie mentre quello precedente era basato sulla sua fine. Da dove siete partiti per questo lavoro su tematiche così opposte e complementari?

Queste due tematiche sono collegatissime, sia a livello nominale, che distributivo, che di linguaggi, sono un dittico a tutti gli effetti. Lo definiamo “Dittico sulla specie”: la prima parte era sull’estinzione, sull’esaurimento, quindi Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie; la seconda, invece, sull’origine della specie. L’Origine delle specie_da Charles Darwin è un lavoro basato sull’opera più importante di Darwin – l’opera che ha fondato il darwinismo nel mondo – e su tutte le problematiche e i conflitti che ne conseguono. Un lavoro che si allarga al concetto di origine in senso più ampio, saccheggiando la scienza: dall’immaginario del laboratorio scientifico alle sperimentazioni sul subatomico, sul big-bang, fino ad una riflessione più poetica. Quello che ci interessava molto con Dies Irae, era di interrogarci sulla scomparsa, quindi di lavorare teatralmente facendo un discorso di tipo archeologico. Mentre cominciavamo a lavorare a Dies Irae abbiamo preso un accordo di collaborazione con il Metastasio – lo Stabile della Toscana – con il quale abbiamo scelto di lavorare su un’opera, e di confrontarci con un testo letterario o di altro tipo. Abbiamo scelto immediatamente l’origine delle specie di Darwin che ci permetteva di confrontarci e di fare un discorso ciclico creando quindi un dittico.

Oltre a Darwin quali sono i vostri riferimenti bibliografici?

I riferimenti sono sempre una domanda molto complessa specialmente per Dies Irae, composto da cinque episodi: nel primo episodio ci sono riferimenti all’arte visiva, mentre nel secondo il riferimento è chiaramente radiofonico, quindi a tutta una serie di progetti cui abbiamo partecipato, il terzo episodio riguarda la fotografia, quindi abbiamo per esempio analizzato Walter Benjamin.

Si tratta di una mappatura molto complessa. Per l‘Origine delle specie abbiamo saccheggiato tutta l’opera di Darwin con qualche deviazione in campo scientifico, con grande cautela, – insomma non siamo degli studiosi di fisica quantistica – però volevamo interrogarci sul big-bang come concetto di origine e sul rapporto con il cosmo e l’extraterrestre. Questo è stato uno degli spunti che abbiamo trovato nel campo scientifico con particolare riferimento a Darwin. Per Dies Irae, invece, abbiamo indagato tutta una serie di campi inerenti ai cinque episodi che ci sembravano parlare della fine, dell’esaurimento, della scomparsa. Quindi della specie umana come reperto archeologico e non come specie vivente.

Certamente la tematica scientifica è una delle centrali in questo periodo. Non solo per le giovani compagnie come voi ma anche per registi più affermati. Sono molti i lavori che esplorano il confine tra scienza ed arte…

È sicuramente una tensione con cui un artista è chiamato a confrontarsi. Ci sono due livelli: uno per il quale la scienza sta superando i limiti noti e riconoscibili della creatività umana – nel senso che ci si sta avvicinando veramente a creare la vita – questa è un tipo di tensione generatrice. L’altro livello riguarda le nostre ossessioni: siamo ossessionati nella scienza – ancor di più nell’immaginario collettivo – dall’idea dell’auto-annientamento. Questi sono due poli nei quali ci si muove continuamente, evidentemente gli artisti sentono il bisogno di confrontarcisi, attraverso la propria poetica e le proprie ossessioni. Il nostro gruppo ha sempre avuto una particolare predilezione per la morte e l’estinzione, evidentemente è uno dei punti di incontro dei cinque componenti della compagnia.

Le vostre creazioni sono sempre firmate come “produzione collettiva”. Come funziona quindi il vostro processo creativo, come si sviluppa il lavoro?

Il processo creativo funziona secondo un metodo. A noi non piace molto sederci su un metodo fisso, per cui abbiamo costruito negli anni un modo di lavorare insieme che viene messo in discussione e di cui cerchiamo di forzare i bordi. Noi selezioniamo un campo di indagine: in Dies Irae era la fine della specie in termini archeologici e non apocalittici. Una volta selezionato attuiamo una serie di pratiche che sono l’improvvisazione, la ripresa con il video, la documentazione teorica, l’ideazione a tavolino che poi viene verificata in sala. Questo produce nei mesi, nell’anno di lavorazione, una serie di materiali che poi vengono selezionati. Quando sono pronti i materiali ci si chiude in residenza, quindici-trenta giorni, anzi due tre residenze di quindici giorni di fila, ci si chiude in sala e si fa una messa a punto.

Ma non c’è mai qualcuno che dirige le improvvisazioni, che sceglie…

C’è sempre un dato individuale, nel senso che c’è una proposta che arriva dal singolo e che viene messa in condivisione e a cui si arriva tutti insieme. Però è un discorso decisamente instabile, difficilmente uno dirige gli altri: piuttosto uno ha un’intuizione che fa chiarezza su uno specifico obiettivo e magari rappresenta due minuti di spettacolo su sessanta. Altre volte invece uno pensa di  essere sulla giusta strada e viene contestato dagli altri quattro. È un processo poco direttivo e molto orizzontale. È un lavoro lento e doloroso: spesso devi difendere le tue ragioni da attacchi forti e, spesso, cose in cui tu credevi magari non arrivano a sopravvivere. È un processo di selezione naturale, perciò si presume che sopravvivano le cose più adatte all’habitat in cui si muovono. Quindi quello che va in scena è ciò che più aderisce al gruppo, rappresenta e incarna il sentire del gruppo.

Tu stesso dici che a volte il processo produttivo può essere lento. È possibile far convivere il tempo creativo con i ritmi di produzione – che in questo periodo mi sembrano accelerati in maniera inverosimile soprattutto per le giovani compagnie?

Noi ci prendiamo il giusto tempo. Fa parte della professionalità e della capacità artigianale di un gruppo sapersi confrontare con le scadenze, sapersi muovere all’interno di meccanismi più grandi di noi, che riguardano anche altri gruppi in residenza insieme a noi, o i meccanismi delle direzioni dei festival che hanno una progettualità annuale e quindi devono far quadrare i conti e i tempi. Quindi, di solito, ci prendiamo il tempo che ci serve. Ad esempio il “dittico” nel suo complesso ha preso quasi due anni di lavoro. Abbiamo cominciato a lavorare a Dies Irae dandoci un anno e mezzo, poi è entrato in cantiere anche il progetto dell’Origine delle specie e abbiamo capito come far stare entrambi i prodotti nell’arco di due anni di tempo. Quindi siamo rientrati in quella scadenza ed era il tempo che reputavamo necessario.

Cinque episodi per cinque festival… Una scelta premeditata?

È stata una scelta a priori, noi volevamo lavorare sulla serialità. È una cosa che ci ossessiona molto perché è una delle qualità che ha adottato la specie umana per raccontarsi, già in tempi antichi. Noi non lavoriamo sulla narrazione, quindi scomporre è anche più facile. Restituire un immaginario per pezzi fa compiere allo spettatore un atto interpretativo importante nel momento in cui cerca un senso comune per i vari pezzi, in cui cerca un quadro di senso per rendere unitaria l’opera. Ovviamente è responsabilità nostra dare degli strumenti, degli elementi che diano un senso di unità. Il fatto che l’opera sia scomposta e “serializzabile” – sia attraversabile con linguaggi diversi, con poetiche e oggetti diversi – ci interessa moltissimo. Quindi è stata una scelta fatta a priori: volevamo un’opera che fosse divisa in cinque parti, prima ancora di sapere che cos’era ogni singola parte, noi sapevamo che erano cinque.

È stata una scelta che ha dato un risultato interessante a livello distributivo, perché abbiamo fatto un episodio in ogni festival, che equivale a un debutto in ogni festival. La gente veniva perché c’era un episodio, uno studio che non aveva visto. A noi piace presentare studi perché abbiamo un certo tipo di rapporto con il pubblico e facciamo anche un tipo di lavoro in cui è essenziale verificare quello che si sta facendo. Non li definiamo studi perché ti protegge o tutela o perché non è un lavoro finito. In realtà il primo episodio finisce, poi il secondo, poi il terzo… Quindi è più un pensiero sulla serialità e sulla distribuzione geografica della serialità. È un pensiero anche sui festival e sul fatto di appartenere ad un circuito di proposte e di progetti.

Come gruppo vi sentite appartenere alla cosiddetta “Generazione T”?

Ci sono dei segnali che danno l’idea di un movimento che si sta verificando, non in termini politologici, per cui un movimento coeso di valori e di obiettivi condivisi in cui tutti ci si muove, con gli stessi tempi e le stesse modalità, verso obiettivi condivisi. Per movimento intendo un movimento tellurico, cioè qualcosa che sta accadendo. Secondo me noi apparteniamo ad un tempo, e il tempo è fatto di accelerazioni e rallentamenti ed è un dato di fatto abbastanza riscontrabile che ci sia stata un’accelerazione negli ultimi anni, che alcuni attribuiscono ad un’iniezione di economie, che è stata temporanea e ridotta, ma che sicuramente ha contribuito. Però è anche un’accelerazione data da una serie di proposte, quei dieci/quindici gruppi che oggi puoi incontrare in Italia, non c’erano sette/otto anni fa. Ci sono state più accelerazioni che hanno dato vita ad un fenomeno. Ecco, noi apparteniamo a questo tempo e siamo dentro a questo fenomeno che si sta verificando.

Saverio La Ruina presenta La Borto


Saverio La Ruina presenta La Borto il suo ultimo spettacolo, basato intorno alla figura di Vittoria, una donna che racconta la storia di molte donne, una tragedia tutta al femminile. La drammaturgia elaborata dall’interprete ruota intorno al linguaggio e alla parlata calabra-lucana, la lingua diventa motore centrale per un monologo profondamente toccante.

La Violenza – Carro di Tespi

30.05.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo La Violenza di Carro dei Tespi

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Dies Irae – Teatro Sotterraneo

30.05.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Dies Irae_Cinque episodi sulla fine della specie di Teatro Sotterraneo

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Luciano Pensabene presenta La Violenza

Ad aprire l’undicesima edizione di Primavera dei Teatri, dopo Teatro Sotterraneo, sarà il turno di Carro di Tespi con La Violenza: un omaggio all’eroico giornalista e drammaturgo Giuseppe Fava, trucidato per la sua attività “scomoda” il 5 Gennaio 1984 in Sicilia. Luciano Pensabene ha adattato il testo del graffiante scrittore, ne ha curato la regia e, in questo video, racconta come è nato il gruppo e il progetto che ha portato alla messa in scena del progetto portato a Castrovillari.

L’alba del nuovo millennio

da 2001 Odiessea nello spazio

da 2001 odissea nello spazio

La constatazione dalla quale prende inizio l’intera riflessione proposta dal critico Renato Palazzi per Linus è sicuramente lapalissiana, ma non per questo scontata: da ben due lustri, ormai, quel secolo complesso che è stato il ‘900 si è concluso. Cento anni di grandi rivoluzioni, cambiamenti, crisi economiche, globalizzazione e genocidi, minacce e tragiche follie nucleari. Un secolo di emancipazioni e nuove schiavitù, di viaggi sempre più veloci, migrazioni, scoperte e sperimentazioni che hanno segnato non solo la scienza, la tecnologia e le comunicazioni, ma anche l’arte, la musica, il teatro. Ma, appunto, da ormai dieci anni siamo scivolati nel 2000: non solo un nuovo secolo, ma addirittura un nuovo millennio. Dieci anni che bastano, forse, a prendere la giusta distanza dal periodo precedente per poter dare, approfittando della via indicata da Palazzi, alcune definizioni di “novecentesco”, e con esse iniziare a delineare le tendenze odierne e future. Vedendo, però, nella categorizzazione chiusa una forma assolutamente “novecentesca” di strutturazione del pensiero, si procederà più liberamente e senza sentenze definitive. Non potendo, in questa sede, elaborare una sintesi esaustiva di un argomento così ampio, si prediligerà, anzi, della riflessione suggerita dall’illustre critico, l’aspetto più ludico – che è forse quello di cui si sente più il bisogno in questo nuovo millennio iniziato non certo nel migliore dei modi – limitando il discorso al mondo teatrale.

Innanzitutto una riflessione cromatica: il total black o white è una convenzione – lungi dall’essere neutra –, e come tale non può non appartenere al secolo scorso. Dolcevita nere, piedi scalzi e pantaloni da tuta sono un residuato d’altri tempi che non sembrano smettere, però, di esercitare il loro fascino. D’altro canto anche la nudità – lungi ormai dall’essere una provocatoria novità – può rischiare di divenire desueta se usata a sproposito.
Si è decisamente perso il concetto di “costume” in senso, appunto, novecentesco, con la proliferazione, in scena, di felpe, jeans, t-shirt con enormi stampe e tutto quello che si può – a prima vista – facilmente reperire in un mercatino. Simile discorso si può fare per la scenografia: eliminati i grandi impianti scenici tipici del secolo scorso (e qui la parentesi è d’obbligo, essendo inevitabile chiedersi quanto le ristrettezze economiche abbiano influito su questa tendenza, in una sorta di “far di necessità virtù”), i teatri si sono messi anch’essi a nudo, dimostrando, grazie alla visionarietà di grandi artisti, di non aver bisogno d’altro che della fantasia del pubblico. Un nome per tutti, quello di Peter Brook, viene subito in mente: difficile definire il suo operato prettamente novecentesco. E se è appurato che l’epoca della grande regia sia ormai in declino, con il proliferare di nuove formule creative che fanno del collettivo e della non (totale) distinzione dei ruoli il loro punto di partenza e di forza, va anche riconosciuto il lavoro di quei grandi registi che, noncuranti dei necrologi che quotidianamente vengono dedicati alla loro professione, sfuggono a qualsiasi classificazione secolare, avendo segnato la storia del teatro anche per molti anni a venire.

La regia collettiva – congiuntamente alle nuove esigenze produttive che hanno fatto della residenza un proficuo punto fermo – ha cambiato anche il modo di presentare l’esito del proprio lavoro al pubblico, andando prima di tutto a mettere in discussione il concetto stesso di esito. Gli ultimi anni, infatti, sono stati contraddistinti da un proliferare di prove aperte, studi, presentazioni che hanno fatto dello spettacolo concluso un obiettivo non obbligatorio da raggiungere e sicuramente lontano, di cui si palesano le tappe ed il lungo processo creativo. Il risultato è una programmazione “seriale”, che si ritrova anche nella scelta di molti gruppi di dedicare diversi spettacoli allo stesso tema, sviscerandone tutti gli aspetti e proponendo una riflessione a puntate. Un’applicazione, nel duemila, al teatro di quella serialità che, per tutto il ‘900, ha fidelizzato e fatto crescere prima gli ascoltatori radiofonici e, in seguito, quelli televisivi, con format ormai storici come le telenovelas. E il pubblico sembra apprezzare molto questo sue essere partecipe del processo, dimostrando di sapersi affezionare a gruppi e a loro lavori seguendoli per tutto lo stivale. Complici anche i nuovi mezzi comunicativi, che hanno sdoganato la promozione teatrale dai muri delle città e dai trafiletti dei giornali trovando nel web spazi e strumenti ben più agevoli, questa nuova generazione non sembra affatto soffrire della carenza di pubblico. Numerosi spettatori affollano i luoghi nei quali circuita il teatro del duemila – dai teatri di periferia ai festival che scandiscono l’estate italiana e non solo – dimostrandosi appassionati e curiosi, ma, forse, anche più accondiscendenti rispetto ai loro “antenati” dello scorso secolo: si ha spesso la sensazione di un diffuso eccesso di educazione del pubblico odierno, che non nega mai un applauso salvo poi esplodere in feroci critiche appena fuori dal teatro. Un pubblico, questo del duemila, eterogeneo ed entusiasta, ma un po’ timido nel manifestare le proprie sensazioni più immediate. O, forse, si prende semplicemente più tempo per riflettere, e nella società del nuovo millennio è un lusso che raramente ci si può permettere.

Magari, poi, la riflessione risulta vana, di fronte a lavori talvolta di pura estetica e profondamente concettuali, sintomatici di un teatro del nuovo millennio che sta ancora cercando il suo statuto, la sua ragione d’essere. Perché, se la grande rivoluzione del teatro nel Novecento, ricorda De Marinis, è stata quella di divenire «un luogo nel quale dare voce (e, se possibile, soddisfazione) a bisogni ed esigenze cui mai fino ad allora (salvo isolate eccezioni) si era cercato di rispondere mediante gli strumenti del teatro: istanze etiche, pedagogiche, politiche, conoscitive, spirituali», conclusosi il secolo delle grandi ideologie la ricerca è ancora aperta. La sfida è di trovare, quindi, non solo nuovi linguaggi, ma sopratutto nuovi stati di necessità per un teatro vivo, sincero ed attuale.

Silvia Gatto

Videointervista a Teatro Sotterraneo

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Ad aprire Primavera dei Teatri domani sera Teatro Sotterraneo. Riproponiamo l’intervista a Daniele Villa, dramaturg del gruppo fiorentino, condotta a Modena in occasione del debutto dell’ultimo episodio di Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie.

Kattrin a Primavera dei Teatri

L’aria della laguna in questi giorni si fa sempre più calda e umida. La primavera, oramai diventata direttamente estate afosa, richiede qualcosa di stuzzicante per rendersi più movimentata: che c’è di meglio di una bella uscita verso il Sud del nostro Bel Paese? Più precisamente verso la Calabria: la città di Castrovillari dal 30 maggio al 5 giugno accende infatti i propri riflettori su di un Festival che apre agli amanti del teatro contemporaneo una finestra, per far cambiare aria a un’atmosfera, in questo periodo, stantia dopo la chiusura della maggior parte delle stagioni invernali. E così Il Tamburo di Kattrin si trasferisce dove la temperatura è più alta sì, ma dove sicuramente durante queste giornate il caldo sarà causato più che altro dalla grande concentrazione di spettacoli che affollano il programma del Festival, dato che le compagnie presenti sono tra le realtà giovanili più interessanti del territorio italiano, con particolare attenzione alla drammaturgia emergente e al Meridione. Il Festival Primavera dei Teatri, organizzato dalla compagnia Scena Verticale ha infatti vinto proprio quest’anno il Premio Ubu Speciale per « un festival ormai storico, dedito alla scoperta e alla valorizzazione di giovani gruppi teatrali con speciale attenzione a quanto accade nel Meridione, diretto e guidato con amore da Scena Verticale a Castrovillari, con un’ingorda partecipazione del pubblico cittadino di ogni ceto, come raramente si verifica per queste manifestazioni».

La discesa verso Sud di Kattrin cercherà di sposare il “piccante” programma della rassegna – ormai arrivata alla sua undicesima edizione, diretta e organizzata da Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano – attraverso delle rubriche rinominate per l’occasione: Primizie di Stagione segnalerà gli eventi del festival, Sotto la Buccia si occuperà di recensioni, Capsicum in Musa sarà lo spazio dedicato agli approfondimenti mentre Vita-mine Vaganti quello per le interviste video agli artisti. Per restituire l’atmosfera di Primavera dei Teatri in toto, il sito darà la parola anche a chi tra il pubblico vorrà rilasciare dei commenti a caldo una volta uscito da uno spettacolo: la categoria Commenti Piccanti accoglierà le pungenti riflessioni di chi a teatro ha sempre l’ultima parola. Tra le novità anche un sondaggio apparirà per la prima volta tra le pagine web de Il Tamburo, accompagnando l’intera settimana del Festival: prendendo spunto da un articolo che Renato Palazzi ha scritto per i lettori di Linus, si chiederà agli artisti presenti a Castrovillari che cosa sia esclusivamente Novecentesco – e quindi definito D.O.C. – e cosa invece appartenere al 2000 – e quindi O.G.M.

Il Tamburo di Kattrin sarà un punto di riferimento e di contatto virtuale tra tutti i partecipanti al Festival, ma anche per coloro che non potranno seguire Primavera dei Teatri “fisicamente”: restituendo una documentazione puntuale di tutti gli eventi e dando uno sguardo di più ampio respiro cercheremo di trasmettere l’atmosfera magica di Castrovillari.

Carlotta Tringali