Recensione a Die Nacht Kurz vor den Wäldern – di Antonio Latella
È una voce nell’oscurità quella che accoglie gli spettatori all’ingresso al Teatro Carignano di Torino, per l’inaugurazione della terza edizione del festival Prospettiva, che in onore dei 150 anni dell’Unità di Italia sottotitola “Stranieri in patria”. In scena, Clemens Schick – per la regia di Antonio Latella – interpreta il testo del francese Bernard-Marie Koltès Die Nacht Kurz vor den Wäldern (traduzione dal francese di Simon Werle). Un testo forte, in cui le parole sanno trafiggere e trapassare nonostante l’estraneità della lingua: la drammaturgia penetra per la forza della recitazione dell’attore tedesco, che usa la propria lingua madre, creando un distacco tra sè e il pubblico che assume connotazioni interessanti se si considerano i flussi migratori che caratterizzano la nostra epoca. La bravura di Latella risiede proprio nel saper gestire questo incontro polilinguistico e, di conseguenza, culturale, in modo da creare un impasto che sappia restituire il senso di un’indignazione forte e potente che coinvolge donne e uomini di ogni nazione, stato ed etnia. Ne siamo stati testimoni durante il fine settimana passato con le manifestazioni che si sono tenute in tutta Europa, e che in Italia hanno segnato un ulteriore passaggio di una storia che, ogni giorno, si fa più dolorosa. Le battaglie si inaspriscono perché le persone perdono fiducia: si sente il bisogno di saper ritrovare quel senso di appartenenza che sta svanendo sotto la spinta di classi politiche e categorie economiche egoiste e disinteressate nei confronti dei popoli di cui si trovano alla guida o di cui amministrano i beni. In questo senso (e in questo momento storico) è difficile analizzare la messa in scena della nuova compagnia di Antonio Latella senza tenere in considerazione il clima sociopolitico attuale, considerato nelle sue declinazioni più emotive. Il sentimento sociale sembra infatti coincidere sempre di più con lo stato d’animo del protagonista, che ricorre ad un linguaggio talvolta scurrile e crudo per riferirsi alla condizione in cui si ritrova ingabbiato a causa del suo essere “straniero” (basti pensare a quando afferma che «quelli che ce lo mettono in culo» sono ovunque, anche tra i politici, i poliziotti e i ministeri).
Il testo scelto da Antonio Latella ben esprime questo disagio, che non è più solo il malessere di una nazione isolata, ma di molte persone, legate le une alle altre dalla necessità di far sentire la propria voce e dalla speranza che questa venga raccolta ed ascoltata. Non importa da chi, basta uno sconosciuto. Ed è infatti ad un passante che parla il protagonista del testo di Koltès: uno straniero come tanti, dall’abbigliamento dismesso nel suo completo grigio indossato sopra un petto nudo. Il movimento continuo e la corsa sul posto a cui l’attore è costretto per quasi tutta la durata dello spettacolo, mettono alla prova fisicamente l’interprete tedesco che si ritrova a vomitare il proprio disagio politico, interiore ed emotivo. Una scelta dolorosa, ma che grazie all’interpretazione di Schick sa penetrare nel pubblico, lasciandosi alle spalle le differenze linguistiche: sono corpo e voce che, attraverso inclinazioni minime e millimetriche, riescono a scatenare quel senso di affanno che si prova quando tutto ciò che rimane è la speranza (unica prospettiva che si apre in un momento di disperazione, in seguito ad episodi di violenza e di delusioni). Attraverso le parole del protagonista – purtroppo filtrate da sopratitoli che non riescono a dare atto della complessità del testo, restituito attraverso un’interpretazione veloce e tagliente – si scivola all’interno di una città avvolta dal buio, in grado di abbracciare quell’oscurità che si accumula nelle viscere di chi ha avuto una vita di soprusi e felicità mancate. Koltès/Latella ci parla di una politica senza nazione, eppure reale e concreta, di un’umanità degradata che richiama alla mente i soggetti di Kirchner e di Grosz, di una sensualità che nasconde il marcio di una società (come non pensare alle nostre veline-ministre-parlamentari-assessori?). Ed è la bravura tecnica di Schick che riesce a rendere il senso di uno sprofondamento che dalla denuncia sociale passa ad un’intimità segretamente corrosa, senza mai ricorrere a passaggi bruschi e artificiosi. Eppure la voce lontana che si ode ancora prima che la rappresentazione abbia inizio, altro non è che la voce di un Signor Nessuno: un suono soffocato, che a malapena si riconosce nel brusio di una società che pare essere insofferente al dolore altrui. Un lamento che può essere inghiottito in qualsiasi momento, come testimoniano le pause che scandiscono le fasi del monologo. Latella sceglie infatti di far scomparire il protagonista – e con lui le sue parole – non nell’oscurità, bensì in una luce accecante, abbagliando così il pubblico in sala che del protagonista non riesce che a scorgere la sagoma. Una scelta che rivela la potenza di una società in cui l’equilibrio instabile passa attraverso la gestione dei mezzi di comunicazione di massa: televisione e radio si pongono come strumenti di controllo del potere, come ai tempi delle propagande dei vari nazismi e fascismi europei, ma non solo. Ed è infatti in questo clima che oscilla tra la situazione politica attuale e i tempi delle grandi dittature che si inseriscono le scelte registiche di Antonio Latella. L’intelligenza dell’interpretazione del testo si incarna proprio nell’abilità non solo di muoversi tra gli slittamenti emotivi e semantici legati agli episodi narrati, ma soprattutto di creare quell’incertezza temporale in grado di far vacillare la percezione dello spettatore: alternativamente ci si riconosce nelle parole del protagonista e, con la stessa intensità, nell’indifferenza di quel passante senza volto che è necessario rincorrere per trovare l’ascolto di cui si sente il bisogno nei momenti di sconforto.
Nonostante gli ostacoli imposti dalla fruizione di uno spettacolo in una lingua sconosciuta – che ben si adatta alla durezza del testo – Antonio Latella riesce a calibrare con precisione alchemica le giuste dosi di critica sociale e sconforto personale: la messa in scena lascia attanagliato lo spettatore in una morsa mista di dolore, desolazione e sconforto, senza mai far cadere Clemens Schick nel patetismo di una recitazione caricaturale dei diversi stati d’animo. Complici la drammaturgia di Catherine Schumann, le musiche di Franco Visioli, le luci di Simone De Angelis, i costumi di Graziella Pepe, i movimenti di Francesco Manetti e la traduzione italiana dei sopratitoli di Luca Scarlini. A fine rappresentazione, si rimane sconvolti dalla familiarità con cui si è stati in grado di seguire la vicenda di un tedesco (di dove? di quale nazione? e dove si trova?) che per una notte intera ha percorso l’oscurità, per poi scomparire urlante e tremante in quella luce che anziché portare chiarezza scatena quesiti che rimangono senza risposta, sulle note di un pianoforte che accompagnano la dissolvenza finale.
Visto al Teatro Carignano, Torino (Prospettiva 150)
Giulia Tirelli