04.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo la Borto di Saverio La Ruina / Scena Verticale
In occasione della sua messa in scena a Castrovillari, riproponiamo la recensione uscita qualche mese fa su La Borto a conferma che la nostra opinione non è cambiata ma anzi si è stata riconfermata nel tempo da questo fantastico autore, appena insignito del Premio Hystrio per la Drammaturgia.
Recensione a la Borto – di e con Saverio La Ruina, Scena Verticale
Madre e donna non sono sinonimi: una distorsione semantica che sembra quasi impossibile estirpare, ma che è causa di millenni di soprusi, abusi e svilimenti. In nome della continuazione della specie la donna è stata da sempre prima di tutto un involucro fertile da riempire – meglio se con figli maschi dice il proverbio. Prima ancora di avere uno statuto, una dignità, dei diritti in qualità di essere umano – e qui di nuovo i termini, apparentemente neutri, racchiudono in sé i pregiudizi più ancestrali. Perché la storia dell’umanità è quella dell’Uomo: se è di sesso femminile va specificato.
foto di A.Maggio
Quella che racconta Saverio La Ruina come autore e interprete de la Borto –ultima produzione di Scena Verticale– è, invece, la storia della Donna, di una donna, Vittoria, alla quale è stato negato di esserlo, perché da ragazzina di 13 anni è divenuta subito moglie e immediatamente madre. Senza tregua: per sette anni ha avuto un figlio al seno e un altro che già scalciava in grembo; il passare degli anni, per lei, non era scandito da dodici mesi, ma da nove. In un’atmosfera onirica ma carica di tutta la concretezza di una donna di un paese del Sud, Vittoria racconta la sua vita a Gesù: senza inibizioni o paure verso il suo interlocutore, la donna si difende dalla sottile accusa di tradimento che gli viene mossa. L’aborto entra così nella storia come atto estremo di una disperazione che abbraccia tante donne del suo paese: snaturate e svilite da troppe gravidanze non desiderate – perché i figli vanno sfamati e cresciuti, e gli uomini rispondono “arrangiati”. Un atto di atroce violenza – e a quei tempi illegale, e quindi rabberciato con metodi precari e rischiosi – che le donne si infliggono come inevitabile conseguenza di una situazione che non hanno scelto. Ma anche dopo l’approvazione della legge 194 non molto è cambiato: la giovane nipote di Vittoria, che vuole interrompere la sua gravidanza, si ritrova a dover lottare contro la cattiveria e l’incomprensione di tutti coloro che sono sempre pronti a sputare sentenze, a salire su quel pulpito sul quale lo stesso Gesù non si permette di salire dopo aver ascoltato le parole della donna. Un Gesù umanissimo e capace di quella compassione che ha predicato e che forse abbiamo dimenticato.
Grande assente di tutti i drammi narrati è l’uomo (inteso come maschio): il nero che avvolge la protagonista racconta proprio di questa solitudine totale e sofferta. Ma in scena vi è lui, La Ruina, un uomo: la forza dell’operazione sta proprio nel coraggio e nell’intelligenza di farsi voce e corpo di un’accusa mossa ai suoi simili. Con una prova attoriale soppesata nei minimi dettagli, lo straordinario interprete riesce a restituire la vigorosa fragilità della femminilità: delicata e fiera, coraggiosa e remissiva, ironica e affranta. Anche grazie all’uso del dialetto, di quella parlata viscerale e poetica della sua Calabria che rende il racconto ancora più intimo e sincero, La Ruina compone uno spartito di parole che, insieme alle esili, eclettiche ed efficaci musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco – di schiena al pubblico e al suo compagno di palco proprio per non scardinare la solitudine del racconto – cullano con dolcezza il pubblico trafiggendogli il cuore. la Borto diviene così una denuncia sommessa e potentissima di una società incancrenita da pregiudizi fomentati da sermoni distorti e medievali convinzioni, che riducono le donne a un’appendice degli uomini, ad un ruolo marginale e perennemente violentato della loro stessa esistenza. Un esame di coscienza che La Ruina, in quanto uomo e quindi potenziale carnefice, delinea vestendo con umiltà ed onestà i panni di una donna, alla ricerca di un’umanità che, trasalendo le distinzioni di genere, sia finalmente degna di questo nome.
Recensione a Trattato dei manichini — Compagnia TeatroPersona
Davanti a un quadro la prima tentazione sarebbe quella di fermarsi e descriverlo: nelle luci, le forme, l’accuratezza del tratto e i colori. Strappare un po’ di poesia all’immagine e dargli forma nelle parole, significherebbe raccontare la propria poesia e proiettare in essa il proprio immaginario. Questo è esattamente il meccanismo che vuole stimolare Alessandro Serra, regista del Trattato dei manichini, con uno spettacolo che non è solamente pura visione, ma anzi è un continuo vuoto teso al coinvolgimento emotivo e immaginativo del pubblico. Un’ora di spettacolo, un rincorrersi di immagini senza alcuna parola; solo musica, suono e silenzio. Un immaginario onirico, un baratro aperto, una visione dell’infanzia profondamente inquietante. Una rilettura per immagini e atmosfere del racconto il Trattato dei Manichini tratto da Le Botteghe color cannella di Bruno Schulz: la visione di un’infanzia immersa in un sogno-incubo trasformato dagli occhi di un bambino ormai adulto. Un silenzio assordante percorre la scena attraversata da alte figure vestite di abiti dei primi del Novecento; un realismo che dona quell’alone bianco e nero del ricordo. Un susseguirsi di quadri scenici, costruiti con rigore – lo stesso che permette al regista di mettere in scena un attore di schiena per un tempo lunghissimo senza far cadere il ritmo. Una non-storia tracciata ad olio, solo accennata da simboli di riferimento chiari: il gioco, la paura, la madre. Bastano pochi appigli per costruire mille e una infanzie in cui perdersi. Unico punto di riferimento, perno intorno al quale ruota l’immaginazione dello spettatore, è una bambina, la piccola Silvia Malandra, che vive e ri-vive ogni sera in scena una storia-infanzia diversa. Ad accompagnarla tre straordinarie performer: Valentina Salerno, Chiara Cascinai, Alessandra Cristiani. Sono loro a creare e sconvolgere un impianto scenico profondamente codificato, sia nella partitura drammaturgica che nella scelte cromatiche. Il rosso, il nero, il bianco: tre colori che per la loro forza espressiva non rappresentano, ma sono vita morte e passione.
La stessa attenzione, la stessa cura è impressa nel lavoro sull’attore. Incredibile la presenza scenica, la potenza sprigionata dalle attrici – tutte di formazioni molto varie, dal Butoh alla Biomeccanica. Non a caso tra i riferimenti fondamentali della compagnia spiccano Mejerchol’d, Grotowski e il lavoro sul mimo con Yves Le Breton, allievo di Decroux. A partire da questi ideali Alessandro Serra costruisce una sua visione dell’attore come “attore-talismano” che egli stesso definisce come «l’attore che è semplicemente ciò che esprime e non rap-presenta». Una concezione secondo cui la recitazione si trasforma in emanazione, affidata alla presenza scenica costruita sulla tecnica e sul montaggio dell’azione. «L’uomo muove e se ne va, come il regista, è in sua assenza che si crea il movimento»: facendo riferimento alla tecnica dello stop-motion Serra racconta il suo lavoro di regista, un processo per accumulo, che dura spesso molto tempo.
La compagnia TeatroPersona lavora a Civitavecchia, dove ha una sala grazie alla quale può spendere la maggior parte del tempo nella ricerca teatrale, senza dover stare al passo con i tempi produttivi folli delle residenze e dei festival, ma dando all’arte il giusto tempo per maturare. Una compagnia giovane e insolita che vediamo poco girare nelle sale italiane, ma che – in qualche modo – dà un respiro diverso a quello che oggi chiamiamo “teatro di ricerca”.
Realizzato per la manifestazione Living Things — Harold Pinter organizzata e prodotta dal CSS Teatro Stabile di Innovazione di Udine, La Stanza, prima fatica drammaturgica del Premio Nobel 2005 per la Letteratura, nell’allestimento di Teatrino Giullare diviene ancora più claustrofobica e spiazzante. Con una scelta registica forte e coraggiosa, che, prendendo alla lettera il testo di Pinter, lo estremizza, la compagnia emiliana rinchiude la storia in una scatola-stanza, riducendo, per così dire, il boccascena a un’unica piccola finestra attraverso la quale il pubblico può spiare, intuire, immaginare gli eventi e i personaggi. Sei personaggi, per due bravissimi attori: Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti, con incredibile versatilità, danno voce e corpo alle figure che abitano La Stanza costruendo un’impeccabile e minuziosamente studiata partitura gestuale e vocale che ricorda la magia del teatro di marionette. Grazie all’uso di maschere e al sottile, ironico gioco metateatrale con la quale vengono talvolta deformate, svelandone la posticcità, Teatrino Giullare gioca con il testo pinteriano muovendosi lungo un crinale tra favola e realtà, surrealismo tragicomico e rapporti ambigui per restituire un’originale eppure fedelissima messa in scena dell’opera con la quale il grande scrittore ha debuttato.
Esistenze umili in una giornata qualunque fatta di solitudine, chiacchiere vane e impercettibili ossessioni, scorrono aldilà della finestra in un crescendo di relazioni che diventano lentamente ma inesorabilmente enigmatiche e sinistre. E più il senso di minaccia cresce, più i personaggi divengono pure sagome: la signora Rose Hudd, inquilina della stanza che teme diperdere, chiude le tende della finestra nel momento in cui l’ordinaria tranquillità viene dapprima incrinata dall’arrivo di una coppia interessata proprio a quella stanza, per poi essere totalmente sconvolta dall’apparizione di un uomo di colore, cieco, che conosce segreti e passato di Rose. La situazione precipita, così, in un finale tragico e fulmineo, che lascia molti interrogativi destinati a restare irrisolti.
Un testo sicuramente ostico, complicato, per una messa in scena rischiosa — perché un’ora di spettacolo tutto nascosto dietro una piccola finestra poteva facilmente divenire noioso — ma che dimostra di saper sfruttare un’idea originale al meglio. Calibrando bene ironia e inquietudine, Teatrino Giullare riesce a mantenere viva l’attenzione del pubblico, riaccendendone contemporaneamente sia l’infantile ricordo del teatro di figura che l’inevitabile e inconscio voyerismo.
Recensione a Perché il cane si mangia le ossa – Deriva Film / Teatri del Sud
Carlo Marrapodi e Emilia Brandi - foto di Angelo Maggio
Il tempo scorre senza sosta e spesso ci si dimentica abbastanza precocemente delle persone che si sono conosciute anche solo pochi anni prima, o di tragedie passate, di coloro che hanno perso la vita in incidenti che potevano essere previsti. Francesco Suriano, autore del testo Perché il cane si mangia le ossa sfiora una tragedia che ha risvegliato nell’Italia del 2007 le coscienze di politici, e non solo, facendoli interrogare sulle morti sul lavoro: l’incidente della Thyssen Krupp di Torino. Oggi, a distanza di tre anni, gli operai bruciati vivi mentre si guadagnavano da vivere sembrano essere un ricordo lontano, dato che il momento di riflessione sulla sicurezza a lavoro è già passata in secondo piano e ancora di morti bianche si possono sentire notizie veloci al telegiornale. Il testo di Suriano nasce da un incontro con l’attore Carlo Marrapodi, attore sì, ma anche ex metalmeccanico della Thyssen Krupp, dove ha passato sette anni della sua vita a lavorare. Curioso come i lavori si intrecciano sul palcoscenico ma nella stessa vita della persona-personaggio: Carlo Marrapodi si appropria in scena di un’altra identità, quella di Rocco Fuoco, uomo del sud che ritorna in quel nord dove ha lavorato per anni ma dove nessuno sembra riconoscerlo. Il suo è un viaggio delirante, fatto di numerosi incontri con personaggi particolari, oserei dire assurdi, nonostante si possano riconoscere veramente nella realtà: dalla donna fatale di nome Vita Tormentata all’Arrobbafumu fino ai ragazzini teppisti che lo picchiano senza motivo, solo per puro razzismo. Divertenti i personaggi restituiti non solo da Marrapodi, ma anche da Emilia Brandi che riesce ad atteggiarsi diversamente a seconda delle situazioni. Fa sorridere questo quasi surreale viaggio in cui il protagonista viene scambiato per nord africano, immigrato clandestino e mai per chi ha contribuito in qualche modo ad aumentare la produzione lavorativa in una città dove spesso chi lavora in fabbrica è un emigrato del sud.
In dialetto calabro l’attore racconta la sua avventura rendendola ancora più vera e ancora più diretta. Esprime anche una metafora significativa, che continua a dividere le diverse categorie di lavoratori: «u cane si mangia l’ossa pecchi’ a carne s’ha pijata u patrune» e il cane continua a stare in piedi nonostante tutto. Continua a stare in piedi ma non se lo si fa lavorare in condizioni ignobili e non in sicurezza. Tolti i panni di Rocco Fuoco, Carlo Marrapodi è se stesso e racconta come nell’ultimo giorno di lavoro alla Thyssen si sia accorto che il pericolo era in agguato. Ma lui il giorno dopo quel maledetto dicembre 2007 è riuscito a svegliarsi e continuare a vivere, non come alcuni suoi compagni che non hanno avuto la stessa fortuna. Momento toccante per uno spettacolo che affronta problemi che non andrebbero mai dimenticati, anzi ricordati senza bisogno di doverli leggere.
Enrico Deotti, fondatore insieme a Giulia dall’Ongaro della compagnia Teatrino Giullare, presenta lo spettacolo La Stanza di Pinter in cui i due attori-fondatori del gruppo interpretano i vari personaggi che si succedono all’interno di un palazzo di cui allo spettatore è dato vedere solo un piccolo scorcio da una finestra.
03.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo La Stanza di Pinter, messa in scena da Teatrino Giullare
03.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo Perché il cane si mangia le osse di Teatri del Sud/ Deriva film