Intervista a Dario De Luca / Scena Verticale – a cura di Silvia Gatto e Camilla Toso.
Lo spettacolo che avete presentato al Festival Teatri delle Mura, si intitola U Tingiutu. Un Aiace di Calabria; qual è il rapporto con il mito in questo Aiace che diventa altro?
Il rapporto nasce innanzi tutto dalla lettura: i miti sono sempre fonte di grande ispirazione. Rileggendo l’Aiace, in particolare, mi è sembrato di essere in Calabria: i dialoghi tra i guerrieri sul corpo di Aiace, la diatriba tra “Era un uomo di onore, o non lo era. Facciamolo sparire, il suo corpo non merita sepoltura”. Mi sono venuti in mente tutti i morti per lupara bianca, di cui non si sa che fine abbiano fatto. Il senso dell’onore, poi, mi raccontava un nostro modo, che è anche della buona Calabria, perché noi nasciamo con una grande attenzione all’onore e alla famiglia. Il crinale per passare dall’altra parte, nell’estremizzazione di questo concetto, è veramente sottile.
La strage di innocenti che compie Aiace perché non gli hanno dato le armi di Achille mi ha ricordato tante stragi di innocenti, fatte in Calabria, per regolamenti di conti, o per errori. A Duisburg, per esempio, qualcuno era semplicemente lì per caso, ed è stato ammazzato. È stato facile quindi pensare alla Calabria, provare a capire come attualizzare la tragedia greca, cioè come darle la stessa forza, forse anche catartica, che aveva nel quinto secolo avanti Cristo. Come poter fare il tragico oggi.
È la prima volta che ti rapporti con il mito Classico?
Sì, con i miti antichi è la prima volta, anche se, con una trilogia Calabro-Shakespeariana, abbiamo già affrontato dei classici, riscrivendoli completamente. È capitato nel 2000 con Hardore di Otello, Amleto ovvero cara mammina, e un secondo Amleto che era Kitsch Hamlet. Questi testi diventano funzionali per raccontare la nostra Calabria attraverso un discorso più vasto.
L’Aiace, inoltre, offriva una struttura drammaturgica particolare. Nella scrittura sofoclea del mito, per la prima volta rispetto alle tragedie pervenute, Aiace ha dei monologhi reali, da solo. Nelle tragedie grecahe anche i lunghi monologhi sono sempre supportati dal coro – Medea, per esempio, è comunque sostenuta dal coro, che commenta e giudica. In Aiace, invece, non c’è nessuno in scena: decide di stare in un luogo da solo dopo aver capito il suo errore; non c’è il coro dei marinai – sono tutti in cerca di lui. Questo è stato, per me, un elemento fondamentale, che offriva un motivo vero, coerente, per creare questa forma monologante. Il mio Aiace, infatti, è distanziato dagli altri, è praticamente da solo, perché, pur torturando Ulisse, non gli dà la possibilità di parlare. Mi sembrava quindi attinente dargli questa forma di monologo.
In questa vostra tragedia moderna quello che manca, rispetto a quella antica, è la figura eroica…
Certo, non ci sono più eroi. E forse non lo erano nemmeno loro; sono entrati nell’immaginario comune per le generazioni a venire come degli eroi, come dei miti. Sono come personaggi di riferimento di qualcosa, ma in realtà facevano la guerra: erano comunque portatori di morte, come lo sono i nostri boss di oggi. Quindi questo abbassamento alla terra, renderli più grassi, meschini, cinici, arroganti e violenti, racconta una nostra mala società. Ma non penso che i mitici guerrieri greci fossero esattamente lontani da come li abbiamo dipinti noi.
Partendo dall’Aiace, come si è poi sviluppato il testo, la reinvenzione del mito e la costruzione drammaturgica?
La struttura è nata per una mia scelta, determinata da un dato di fatto: l’Aiace sanno tutti come va a finire, con la morte del protagonista. Allora mi sono domandato come spiazzare il pubblico, e la risposta che ho trovato è stata: smontiamo lo spettacolo. Spezziamo la storia come tante tessere di puzzle, le buttiamo sul tavolo e poi ognuno le ricompone a suo piacimento. Da questo processo è nata, quasi subito, una riflessione sul cinema, con la ricostruzione a quadri che vanno avanti e indietro nel tempo. La scena iniziale è la scena finale: i primi 18 minuti dello spettacolo sono, in realtà, l’ultima scena. Iniziamo con la fine, per poi proseguire con un continuo sbalzo temporale. Stabilito ciò, tutto è stato pensato come al cinema, con un po’ di iper realismo – le pistole, il tipo di recitazione. Anche la musica è stata commissionata e composta come la colonna sonora di un film, con tappeti sonori spesso costanti sotto il nostro parlato. Ho chiesto ai musicisti di pensare a dei temi, quello del guerriero, quello della tortura, che ritornano più volte. Proprio come nei film.
Anche le tapparelle, che calano dopo la prima scena, diventano un filtro, uno schermo cinematografico, ma non solo. In realtà il concetto iniziale era creare la quarta parete per scagliare un piccolo atto d’accusa nei confronti dello spettatore che vede la ‘ndrangheta ma fa finta di niente – la vediamo, ma attraverso le tapparelle, e facciamo finta che non ci appartenga.
Da quando calano le tapparelle ha inizio la tragedia, c’è un cambio di cifra stilistica nello spettacolo.
A proposito di tragedia, per l’anteprima calabra è stata catartica questa messa in scena? Come i tuoi corregionali hanno accolto questo lavoro?
Credo di sì. Naturalmente ci sono maggiori deterrenti in Calabria; c’è paura che quello che stai raccontando sia duro, e faccia male. Abbiamo avuto una bellissima accoglienza calorosa, ma sentivamo che c’era un irrigidirsi del pubblico, un desiderio di sottolineare che “non siamo tutti così. Non è solo questa la Calabria”. Qualcuno dice che c’è una Calabria produttiva – ed è verissimo; Scena Verticale fa parte di questa Calabria – ma non si può nascondere la testa sotto la sabbia. Quando abiti in quella terra inizi ad avere delle urgenze, ti nasce il bisogno di non stare sempre con la bocca chiusa; provi a dire una cosa e la dici. Forse hai il diritto di dirla proprio perché abiti in quei luoghi, non sei l’artista andato a vivere altrove. Noi abbiano sede a Castrovillari, per cui il nostro è anche un bisogno di dire per cambiare perché questa realtà la viviamo, con le nostre famiglie, quotidianamente.