Le Buone Pratiche di ateatro, a cura di Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina, arrivano al Teatro Rasi di Ravenna: uno dei numerosi incontri preparatori e collaterali dell’appuntamento annuale (nel 2013 a Firenze, il 9 febbraio), che ha scelto proprio questa città, che da tempo sta lavorando intensamente per la propria candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019, per parlare di Europa. Un pomeriggio denso quello al Rasi, in cui artisti e operatori si avvicendano con interventi che parlano di Italia e di dimensione internazionale, di progettualità indipendente e di relazioni, di esperienze fatte, di vittorie, fallimenti e di pensieri futuri.
Quello che ne esce è un vivace spaccato dell’operatività emiliano-romagnola: a partire dall’appassionato intervento di Alberto Cassani e Lorenzo Donati (rispettivamente coordinatore e componente del comitato artistico) sulle attività fatte e che si faranno in vista della candidatura di Ravenna 2019, un lungo impegno che parte fin dal 2007 e arriva a oggi, fra rapporti città-territori, trasversalità culturale e istituzionale, coinvolgimento diretto dei cittadini. Ma la storia europea dell’Emilia Romagna non si ferma qui: anzi, dagli interventi e dai contributi, emerge un autoritratto preciso di una comunità varia e molteplice di artisti che ha scelto la propria identità europea da tempo – contesto all’interno del quale la candidatura di Ravenna è l’esito più attuale.
La cultura italiana in Europa: qualche dritta per il futuro
Cominciamo questo tentativo di avvicinamento e di sintesi a partire dal futuro: con Giovanni Sabelli Fioretti di Perypezye Urbane – cui è affidato un intervento sulle nuove politiche culturali dell’Unione, ora in fase di discussione e messa a punto – si parla dei prossimi bandi, di opportunità e di obiettivi, di analisi di ciò che è stato fatto e di proposte (fra cui non poche “buone pratiche”) per gli anni a venire. Buone notizie per un budget che, proprio in tempi di crisi, si propone (ancora non è confermato) addirittura oggetto di un aumento del 37%: tante novità ancora in fase di ultimazione, che però si annunciano già interessanti, con un particolare accento sui processi formativi, finanziari (l’idea è quella di una creazione di rete di istituti bancari disponibili ad agevolare gli investimenti in cultura) e non solo. Sul crinale della terza generazione di una politica culturale condivisa, quella che andrà dal 2014 al 2020, l’Europa ha individuato 4 punti cruciali da affrontare: digital shift, accesso ai finanziamenti, frammentazione e diversità linguistica, settorializzazione – un nodo, quest’ultimo, ripetutamente sollevato anche dalle Buone Pratiche stesse nelle passate edizioni.
L’altro elemento che merita indubbiamente attenzione è quello dell’audience development, ovvero del lavoro sul pubblico. Secondo l’Europa, non solo è importante avviare interventi che permettano di incrementare i numeri dei fruitori di cultura, ma quello che è fondamentale è che questi non siano più soltanto “consumatori”: lo spettatore, nella visione europea, non può più essere soltanto considerato un elemento passivo, ma deve essere direttamente e attivamente coinvolto tanto nelle dinamiche della progettazione culturale, che in quelle della creazione artistica.
Cosa si fa di europeo in Emilia Romagna
Un buon punto di partenza, oltre che una preziosa occasione di incontro e approfondimento, è la folta e densa carrellata di quello che si fa già di “europeo” in Emilia Romagna: una dimensione di lavoro e di stimolo radicata ben oltre e ben in precedenza rispetto alla candidatura di Ravenna a Capitale Europea della Cultura 2019. È una lunga storia di bandi, programmi ed esperienze quella portata da Micaela Casalboni del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena (BO), di approfondimenti sempre ulteriori delle realtà africane quella di Franco Masotti del Ravenna Festival, di quartieri cosmopoliti che entrano in reciproca relazione quella di Laura Gambi del ravennate CISIM.
Ma rispetto al discorso dell’audience development – che nell’ottica europea già ricopre un ruolo-chiave in termini di partecipazione e cittadinanza attiva e, come abbiamo visto, sarà sempre più al centro dell’attenzione – un discorso a parte va fatto per Il ratto d’Europa, progetto ideato e diretto da Claudio Longhi che sarebbe ridotto definire “teatrale”: non solo uno spettacolo (ma anche: l’allestimento è previsto per la primavera 2013), quanto piuttosto un lungo percorso in forma di atelier, realizzato assieme a numerosi collaboratori, che mira a ricostruire un’archeologia dei saperi comunitari, come recita il sottotitolo. Come? Andando a cercare i termini e la storia dell’identità europea con i cittadini, all’interno di una fitta costellazione di eventi (letture, laboratori, concerti…) e di un processo drammaturgico che intende sperimentare nuove modalità di relazione fra la pratica scenica e la sua comunità di riferimento, con il coinvolgimento di associazioni e scuole, gruppi e istituzioni culturali fra Modena e Roma.
Facciamo un passo indietro: 2011. In coincidenza all’esplosione del «caso spread», il regista – anche docente al Dams di Bologna – saggia le reazioni dei propri studenti: la dimensione della cittadinanza e dell’identità europee scarseggiano. Quello che lo ha colpito è lo «scarto enorme» che, a quell’altezza, era possibile osservare fra l’incidenza di una condizione non solo finanziaria che metteva a rischio addirittura la sovranità nazionale e il senso comune e diffuso di (poca) appartenenza alla realtà dell’Unione. E proprio da qui si potrebbe far partire l’urgenza con cui si è proposta e si sta sviluppando l’articolata progettualità del Ratto, un percorso polifonico e multilivellare che fa delle potenzialità del teatro uno strumento per stimolare proprio la cittadinanza attiva e la partecipazione, i processi identitari e di condivisione.
Parlando di collaborazioni: reti? Piuttosto relazioni, persone, condivisione
È Silvia Bottiroli, direttrice del Festival di Santarcangelo, a introdurre, in concreto, di cosa si tratti oggi quando si parla di collaborazioni internazionali, in un intervento densissimo di spunti e di domande. Si parte da «cos’è e che ruolo può avere un festival in questo momento?», per rivendicare la necessità di una linea di ricerca curatoriale, capace di porsi continuamente interrogativi sull’arte (ma anche e soprattutto sul mondo), di creare contesti, con tempi (lunghi) e spazi (articolati) di confronto reale. È, del resto, quello che abbiamo visto succedere alle rigenerate ultime edizioni del festival romagnolo: una intensa operatività annuale costruita da percorsi di creazione, confronto tanto col territorio che con la dimensione internazionale, incontri, in cui «ciò che accade intorno agli spettacoli è fondamentale per creare un terreno in cui poi possa succedere qualcosa». In questo senso, si ripresenta la dimensione del lavoro internazionale secondo un’ottica e un approccio diversi: Santarcangelo non fa parte dei network più celebri, ma sceglie di volta in volta i propri interlocutori, «alcuni punti» da approfondire (pare che un esito di tale curiosità sarà presente, con uno sguardo sulla Lettonia, nell’edizione 2013) e «le relazioni con alcune persone», perché, più che appartenere a una rete a priori, è importante «riconoscersi», «scegliersi», «approfondire il proprio lavoro», per avviare «pratiche comuni» e processi di condivisione reali.
Europa per necessità…
«Si potrebbe raccontare la storia del teatro italiano – lo spunto è di Laura Mariani – dal punto di vista delle costrizioni economiche che l’hanno segnato, e di come queste siano sempre diventate basi per rilanciarlo». È vero, in questo caso, che nella condizione di progressiva incuria in cui vessano le arti (non solo performative) nostrane, tanti artisti si trovano davanti alla scelta obbligata della migrazione, seppure temporanea o intermittente. Scelgono le Americhe, il Nord Europa, il Belgio, alcuni l’Oriente, alla ricerca di un sostegno e di nuove opportunità, soprattutto di una situazione in cui il loro venga, a tutti gli effetti e livelli, considerato quel che è, cioè un lavoro. Così, fin dalla nascita del teatro professionista nel Cinquecento, gli artisti italiani eleggono altri luoghi, altre lingue, altri modi a proprio territorio d’adozione. Intanto, le cose cambiano e l’identità transnazionale la fa ovunque da padrona: se inizialmente le produzioni straniere erano relegate, con qualche punta di «curiosità anche esotica», in spazi e rassegne ad hoc, oggi esistono ampie zone di sensibilità comune che prescindono dalla provenienza. È così per Marco Cavalcoli di Fanny & Alexander che parla di «fasce linguistiche orizzontali», per Daniela Nicolò di Motus, per cui il punto di incontro si trova nell’urgenza delle tematiche trattate e nel loro assorbimento nei dispositivi drammaturgici. E, in molti casi, l’esperienza all’estero diventa stimolo irrinunciabile: ne parla Benedetta Briglia (Socìetas Raffaello Sanzio), fra l’individuazione di un aumento delle richieste di creazione site-specific e del singolare invito al riallestimento di vecchie produzioni della compagnia, «un’operazione di disseminazione culturale che permette poi altre iniziative produttive», che, forse, altrimenti, non si riuscirebbe in tutto a sostenere.
…ma non solo: «i bandi non servono solo per vincerli»
Ma non sono solo la necessità, la difficoltà o l’istinto di sopravvivenza – pure sempre più pressanti – a portare gli artisti italiani a guardare (e lavorare) fuori dal proprio Paese. Lo dicono un po’ tutti: da Fiorenza Menni di Teatrino Clandestino, che racconta la propria esperienza presso una comunità rom in Macedonia come originata da una necessità di guardare un panorama sconosciuto, di andare lontano, di coltivare uno sguardo da fuori, per poter poi spiegare la propria scelta dell’arte in Italia, fino a chi considera la progettualità europea – si abbia o meno vinto il bando in questione – un’opportunità per crescere, conoscere, cambiare. Andare in Europa non è solo un’urgenza, «un discorso di mercato e produzione»: a sottolinearlo è Daniela Nicolò di Motus, che, attraverso la propria esperienza, ha trovato altrove innanzitutto grandi opportunità di ascolto. Si parla di persone e di incontri, di vicinanza e condivisione, via via, fino alla – non è esagerato definirla “capitale” – esperienza del Teatro delle Albe con Eresia della felicità a Santarcangelo 2011, creazione a cielo aperto allo Sferisterio cui hanno preso parte le tantissime non-scuole che Marco Martinelli e le sue guide hanno attivato negli anni. Non volendo attingere ai fondi del festival, racconta Marcella Nonni, si è tentata la partecipazione a un bando europeo per finanziare l’iniziativa; quando quest’ultimo non è andato a buon fine, sono state coinvolte le singole città – dalla piccola Seneghe in Sardegna alla belga Mons, da Rio de Janeiro al Senegal a Scampia –, che si sono attivate nella messa in campo di mezzi e opportunità.
Ancora relazioni vive, concrete, innanzitutto umane e biunivoche, per artisti e cittadini che l’Europa, pezzo per pezzo, la stanno costruendo davvero.
Roberta Ferraresi