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Microstorie da Shakespeare: un nuovo Tim Crouch per l’Accademia degli Artefatti

Recensione a Banquo e Fiordipisello – di Accademia degli Artefatti

Enrico Campanati in "Banquo" - foto di Michele Tomaiuoli

Enrico Campanati in “Banquo” – foto di Michele Tomaiuoli

Tutti conosciamo Amleto, Giulio Cesare, Romeo e il monologo della rosa, la follia di Riccardo III e quella di Re Lear. Ma chi si è accorto della balia di Giulietta, di Polonio, delle fatine che popolano il mondo incantato di Sogno di una notte di mezza estate? O di cosa ne pensavano personaggi non poi tanto secondari, ma non certo protagonisti, come il Fool di Lear, Banquo, Mercuzio o Calibano? Queste sono storie minori, tagliate, a volte di servizio; ma non per questo meno importanti, senza dover per forza scomodare quel mugnaio Menocchio che ha portato l’italiana microstoria di Ginzburg e Levi alla ribalta del dibattito internazionale.

C’ha pensato Tim Crouch, autore-attore di punta della scena britannica contemporanea, a dare voce a chi, nell’opera shakespeariana, non ce l’ha avuta: nella pentalogia – forse destinata a crescere – I, Shakespeare i protagonisti sono proprio quelli che mai avremmo immaginato di seguire, dal mostro della Tempesta al poeta Cinna, da Malvolio a Banquo, irriducibile compagno di Macbeth, a Fiordipisello, uno dei magici servi di Titania, la regina del Sogno. Quell’I, “io”, del titolo, davanti al nome del personaggio, suona infatti quasi come una rivendicazione, per un minore o comprimario che per la prima volta nella storia sale sul palco a dire la sua, una propria versione dei fatti. È un taglio stimolante rispetto alla grande tradizione delle riscritture shakespeariane – sulla scia di grandi apripista come Tom Stoppard e Greenaway, ma anche, restando più nei paraggi, nei confronti dell’approccio spesso dimenticato del grandattore italiano, per cui Il mercante di Venezia, nella versione di Ermete Novelli, diventava semplicemente Shylock – e diventa particolarmente interessante in quest’anno di forti riallestimenti, da Bob Wilson a Barberio Corsetti, da De Rosa alla Compagnia della Fortezza di Armando Punzo (che proprio negli ultimi anni sta lavorando sui personaggi minori del Bardo), fino alla prossima Biennale Teatro di Àlex Rigola, che riunirà a Venezia dall’1 all’11 agosto, tanti maestri della scena internazionale sotto il segno di Shakespeare. Punti di vista quantomeno insoliti, in certi passaggi inaspettati o addirittura illuminanti, che riescono ad avvicinare la grande opera shakespeariana anche a chi ne sa poco o nulla.

Come? Ognuno a suo modo, com’è possibile vedere dalle varie tonalità che assumono i diversi esiti – due per il momento: Banquo e una prima lettura di Fiordipisello, mentre Calibano sarà presentato in forma di studio proprio alla Biennale di Venezia – del progetto scenico messo in opera dall’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri sui testi di Crouch: Banquo (Enrico Campanati), ormai fantasma dopo l’assassinio per mano del suo migliore amico, torna a fare i conti con la profezia che apre il Macbeth, e dunque coi rapporti fra realtà e fantasia, con il potere dell’immaginazione; solo in una scena bianchissima, accompagnato dal tecnico che all’occasione assume le vesti del figlio Fleance (Matteo Selis), ripercorre tutta la storia fin dall’inizio, illuminando qua e là i passaggi ulteriori di uno sprofondamento sempre più irresistibile verso la concretizzazione dei desideri più oscuri e imbrattando di sangue visibilmente finto tutto il candore del palcoscenico. Fiordipisello (Matteo Angius), invece, si risveglia, con vistosi postumi, dopo le triple nozze dei protagonisti che coronano il finale e ributta sul palco il labirinto di vicende del Sogno, per frammenti, analogie, ricordi, senza ordine né sequenza, accompagnato in scena dal regista stesso, nelle veci di un tecnico a vista. La grande storia e il mito che vi si è creato intorno vengono restituiti all’interno di un proprio, seppure immaginario, contesto, rivisti in un approccio che ne umanizza tempi, modi e protagonisti: «non ci sono, non devo sapere le battute e sono un folletto: questo non è il mio spettacolo», ricorda Fiordipisello.

Matteo Angius in "Fiordipisello" - foto di Michele Tomaiuoli

Matteo Angius in “Fiordipisello” – foto di Michele Tomaiuoli

Ma se, nella scrittura di Crouch, l’opportunità è quella, attraverso un punto di vista alternativo, di decostruire e ricomporre le storie seguendo altri fili, nel rapporto ormai pluriennale che vi ha instaurato il lavoro degli Artefatti, l’esito è anche quello della decostruzione del teatro e del lavoro dell’attore. I semi drammaturgici sono quelli che abbiamo imparato a conoscere fin dal suo primo testo, My arm – pezzo forte della compagnia romana che, nei suoi ormai sei anni di vita, ha battuto i palcoscenici di tutta Italia e non a caso è stato posto a inaugurazione di Tim Crouch a pezzi, rassegna nella rassegna al Teatro Belli di Roma per Trend di Rodolfo di Giammarco all’interno di cui sono stati presentati entrambi i lavori –, dal mescolamento di alto e basso al gusto per la parodia e l’ironia, dal racconto per frammenti al recupero del soggetto – tutti elementi ormai tradizionali della cultura postmoderna, in teatro ribattezzata “postdrammatica” da Hans-Thies Lehmann –, fino alla predilezione per un punto di vista insolito e alla centralità della presenza del pubblico. Insomma, l’interrogazione dei limiti consueti fra realtà e finzione, della tradizionale sospensione dell’incredulità e dei processi di immedesimazione. In breve, dello statuto attuale della rappresentazione. Ma, come vedremo, l’intervento autoriale di Fabrizio Arcuri e dei suoi attori permette di intravvedere un passo ulteriore, che sposta ancora più in là l’ormai consolidato canone delle relazioni fra finzione e realtà (la finzione è realtà, e viceversa) che ci provengono in eredità dritti dal cuore della società dello spettacolo.

In Banquo e Fiordipisello tutto questo è portato all’estremo: la prospettiva alternativa si esercita sui canoni stessi della cultura occidentale – la scrittura shakespeariana, che, immaginiamo, in Gran Bretagna possa essere come Dante da noi –, mentre la presenza dello spettatore è sempre sottolineata, invocata, determinante. Infatti, se la storia è narrata da un punto di vista minore, è lecito chiedersi: che fine hanno fatto Macbeth e la sua Lady? E Titania, Oberon, Puck, con la loro selva di inganni? La risposta di Crouch è che stanno fra il pubblico, perché, in questo come in altri suoi pezzi, lo scopo è quello di attivarlo; non a caso anche Carlo Ginzburg ha sottolineato più volte che il suo approccio microstorico – una scrittura più romanzesca che analitica, volta a seguire le vicende minori, quotidiane, perdute – si incastonava in un più ampio progetto di attivazione del lettore.
Così, volta per volta, l’attore chiama e coinvolge gli spettatori, a identificare questo o l’altro protagonista – seminando il terrore, in grande coerenza con la pièce, nell’esplosione di sangue di Banquo, con maggior delicatezza nell’interpretazione di Fiordipisello.
L’approccio all’attore e alla messinscena che distingue il lavoro più che ventennale dell’Accademia degli Artefatti è capace di virare tutto questo materiale drammaturgico verso la scomposizione del dispositivo teatrale stesso. Ne abbiamo visto gli esiti, in un lungo percorso di ricerca che si è mosso fra la nuova drammaturgia britannica e Pirandello, arrivando negli ultimi anni fino a Brecht, seguendo il fil rouge della legittimità stessa del teatro, della possibilità della rappresentazione al giorno d’oggi, dello status dell’attore in scena. Scoperchiando dispositivi scenici, scavando l’identità performativa fra attore, personaggio e persona, chiamando lo spettatore, ben al di là del discorso co-autoriale, a partecipare alla costruzione stessa della finzione. In quest’ultima linea progettuale legata a Tim Crouch, sembra possibile osservare un passo ulteriore – certo saldamente presente in nuce nei lavori precedenti – nella ricerca che la compagnia romana ha sviluppato, negli anni, intorno alla rappresentazione.

Tradizionalmente, l’immissione di frammenti di realtà all’interno della scena – un trucco svelato, un cambio a vista, un personaggio che si “scopre” attore – si svolge nei termini di un’incrinatura dell’universo fictional creato sul palcoscenico. Niente di nuovo: è una strategia dialettica del teatrale che va dal coro greco alla body art, passando per il meta-teatro e lo straniamento brechtiano, ma anche per la nebulosa del cabaret e dell’avanspettacolo, vivaio e laboratorio della lunga tradizione dell’attore-autore italiano che ha formato artisti come Petrolini, Totò e Dario Fo. E poi lo svelamento della realtà della finzione ha rappresentato la chiave di volta della grande rivolta delle neoavanguardie, ripreso a canone del pensiero e dell’estetica postmoderne. Ma che succede se, parallelamente, si cominciano a innestare semi di finzione nella realtà? L’approccio dell’Accademia degli Artefatti sembra oggi carezzare questa doppia strada; non solo quella dello svelamento della realtà al di sotto dei dispositivi di rappresentazione: il cortocircuito fra reale e immaginario, fra interpretazione e immedesimazione qui va ben oltre le colonne d’Ercole della performatività come l’abbiamo sperimentata finora.
Facciamo un esempio. In entrambi gli spettacoli – a maggior ragione Fiordipisello, che è una prima lettura scenica – coesistono sul palco l’attore e il personaggio cui dà voce. Non crediamo – nessuno l’ha mai creduto, neanche negli allestimenti più mimetici e naturalistici – che Macbeth uccida davvero Banquo o che Bottom si trasformi in un asino, così come che Matteo Angius sia un folletto o Enrico Campanati un fantasma; eppure in parte lo sono, in virtù di quel sottile e prezioso legame che intreccia persona, attore e personaggio. Sono tutt’e tre le cose contemporaneamente, l’Accademia degli Artefatti ce l’ha dimostrato più volte. Ma è un meccanismo che, spesso, resta incorniciato dal proscenio, rischiando di incepparsi e rivelarsi come ultimo ricostituito confine del fictional, soltanto spostato un poco più in là; che succede, invece, quando un dispositivo del genere si applica anche allo spettatore? È ovvio che, una volta chiamati da Fiordipisello-Angius a vestire i panni di Titania, la spettatrice in questione non crederà mai di essere la regina delle fate o Lady Macbeth, se additata da Campanati; eppure il “terrore” seminato in platea in Banquo è palpabile, autentico, così come la possibilità di diventare, seppure per un momento, il folle re shakespeariano; ovvero di esperire la seduzione del potere e la potenza dell’immaginazione, che – è Shakespeare a dirlo, in fondo – può riguardare l’uomo qualunque, ognuno di noi. E non solo in teatro, è chiaro.

Quello che pare emergere – paradossalmente, attraverso una rivalorizzazione del fictional, anche con un’evidenziazione senza scrupoli degli elementi di scena, come il sangue finto o le alucce luccicanti da folletto – è il doppio filo che tiene insieme immedesimazione e straniamento, realtà e rappresentazione, come due facce irriducibili della stessa medaglia, ovvero la molteplicità dei flussi che si muovono e qui sono tenuti assieme fra l’uno e l’altro polo del teatro. E, a questo punto è il caso di dirlo, della realtà.

Roberta Ferraresi

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Gli Orazi e Curiazi secondo l’Accademia degli Artefatti

Recensione a Orazi e Curiazi – di Accademia degli Artefatti

foto di Futura Tittaferrante

Macerie, tracce più o meno riconoscibili, frantumi. Questa è l’immagine con cui si conclude Orazi e Curiazi, ultimo lavoro dell’Accademia degli Artefatti per la regia di Fabrizio Arcuri – un’istantanea residuale di dichiarata incidenza, destinata sia a tirare materialmente le somme di tutto ciò che è accaduto fino a quel momento, sia a rilanciarne i sensi, attraverso l’intuizione di nuovi e non previsti rapporti fra gli oggetti stessi o quel che ne resta. Sedie rovesciate e scheletri, banconote stropicciate e spaghetti in bianco; coriandoli che erano una tempesta di neve, tante tante bandiere, fiori finti e panna calpestata; foglie secche e vestiti, ingarbugli di cavi e megafoni… Elementi che vanno dalla calcata asetticità della scena inaugurale, in cui uomini in tuta anti-radiazioni perlustrano con tanto di contatore geiger quella che potrebbe essere una qualche sede del partito comunista in totale abbandono, al plastico della scena finale, una miniatura del campo di battaglia che vuole riepilogare l’accaduto assieme agli attori radunati sui banchi di scuola. Dal crollo del muro di Berlino a quello delle Torri Gemelle, facendo un salto di prospettiva a richiamare scansioni sociali, storiche e politiche ormai assorbite, perché proprio quel sopralluogo iniziale, fra l’archeologico e l’apocalittico, vuole forse andare subito a segnare la profonda cesura che separa la creazione di Brecht dal mondo post-ideologico in cui il suo testo è oggi messo in scena.
Apice del caos che si è progressivamente impadronito del palcoscenico nell’ora e mezza di spettacolo, quest’immagine così sovraccarica può essere collocata a emblema di un percorso che lavora proprio sulla “confusione”: una messinscena che auspica l’incontro di livelli semantici differenti e la proliferazione continua di sensi, fino a rischiare di frantumarsi nella molteplicità di informazioni che dominano la scena e nell’abbondante libertà delegata allo spettatore. In Orazi e Curiazi coesistono – si confrontano e si intrecciano – tanto l’estetica pop contemporanea che l’intervento politico, così come il proposito soggettivo e la negoziazione della prospettiva collettiva, filosofia post-strutturalista, rimpasti di sonorità new wave e feste di compleanno. Basti pensare alla guerra, in cui entra tanto l’attualità della politica nazionale, fra arbitri corrotti e schieramenti che si scambiano di ruolo in continuazione, quanto l’immaginario ludico dei giochi di ruolo e quello del tifo da stadio. O a «molte cose sono in una cosa sola», slogan straripetuto in cui si avverte tutto un dispositivo di comunicazione che va dalla tradizione retorica al motto della saggezza popolare, fino a No logo di Naomi Klein; o, ancora, al guerriero che auto-riprende in video la propria battaglia, una vertigine percettiva e concettuale che intreccia l’autorialità fai-da-te di youTube ai film di Rambo.

E se dunque i materiali, i registri, le fonti, sono troppi per poter essere ognuno inseguito in un percorso fruitivo lineare, può essere interessante osservarli nella dimensione in cui tutti si incontrano e si esprimono: ovvero quella performativa. Perché viene da chiedersi come mai una compagnia di ricerca nota prima per una cifra fortemente performativa e poi per un lavoro sulla nuova drammaturgia internazionale, vada a scegliere proprio un dramma didattico – Brecht diceva che servivano solo come esercizio per gli attori – e, per altro, neanche uno dei più celebri. Così, non a caso, sul palco viene dedicato in pratica più tempo all’esposizione e alla demistificazione dei dispositivi scenici che alla rappresentazione vera e propria, fino a rischiare che il gioco attoriale si riveli talmente denso da chiudersi al pubblico, invece che coinvolgerlo. L’indicazione è chiara, l’occasione curiosa: lo statuto dell’attore-performer è (può essere) il centro autentico della messinscena diretta da Fabrizio Arcuri (leggi l’intervista). Così Orazi e Curiazi potrebbe essere un momento per fare i conti con il percorso compiuto finora dagli Artefatti che si risolve, in coincidenza a una svolta etica ed estetica decisiva, nella messa a punto di quell’atteggiamento attoriale che ormai è la cifra distintiva dei lavori della compagnia: il testo di Brecht non è stato toccato (se non per l’aggiunta dell’epilogo), i canoni epici applicati fin nel dettaglio e ogni attore è comunque presente allo stesso tempo come persona e come performer, impastando le parole che deve pronunciare con una precisa contestualizzazione individuale fatta di intonazioni e sfumature, qualità differenti di presenza e di adesione rispetto a quel che fa e a ciò che accade in scena. Se il V-Effekt brechtiano prevedeva una distanza critica da parte dell’attore nei confronti di quello che diceva, ora, in epoca post-ideologica, l’individualità del soggetto è nuovamente chiamata in causa in un intreccio consapevolmente indistricabile di immedesimazione e distacco, tanto che si potrebbe parlare di straniamento nell’epoca dell’iper-reale.

Visto e rivisto a Santarcangelo 41 e a Teatri di Vita di Bologna

Roberta Ferraresi

Da TeatrInScatola: MyArm raccontato da Simone Nebbia

Dal 21 ottobre al 27 novembre, la quinta edizione di TeatrInScatola si articola in un doppio appuntamento settimanale: la serata del venerdì è dedicata agli adulti mentre la domenica pomeriggio l’attenzione si sposta sui bambini. Il cartellone è indicativo dello sguardo curioso, e allo stesso tempo critico, che Straligut Teatro rivolge al teatro contemporaneo italiano. A seguire le rappresentazioni del venerdì torna lo spazio dedicato all’incontro e al confronto con gli artisti, che si arricchisce quest’anno della presenza, oltre quella ormai consueta della critica, degli operatori teatrali. TeatrInScatola 2011 ospita le redazioni di Teatro e Critica e de Il Tamburo di Kattrin mentre tra gli operatori saranno presenti Luca Ricci, Edoardo Favetti, Simone Martini, Roberta Nicolai, Andrea Nanni ed Elvira Frosini.

Il 28 ottobre è andata in scena Accademia degli Artefatti che ha presentato My Arm di Tim Crouch diretto da Fabrizio Arcuri con in scena Matteo Angius ed Emiliano Duncan Barbieri; a discutere con loro dopo lo spettacolo: Simone Martini e Simone Nebbia di Teatro e Critica, il cui approfondimento è pubblicato qui sotto.

Ri-vedendo My Arm a Siena: portiamo i Teatri fuori dalla Scatola
di Simone Nebbia

TeatrInScatola. Sala Lia Lapini. Il programma che l’anno scorso era dentro una scatolina di cartone riciclato stavolta arriva dentro una boccettina di plastica, riciclata anch’essa, con il messaggio dentro. Certe piccole resistenze artistiche, mi dico, arrivano come trasportate dalle onde degli oceani, certi di una sponda – approdo – che diventi terra. La propria. Ormai l’autunno conta la tappa senese con una cadenza di estrema puntualità: segno delle buone iniziative è la loro affermazione nei progetti e nella memoria di chi le frequenta. Così anche in questo folle autunno Siena schiude la sua bellezza oltre le Porte dell’accoglienza monumentale: mai fu più dolce, entrare in un fortino. La rassegna, che aveva aperto venerdì 21 ottobre 2011 con Western di Massimo Schuster e andrà avanti fino al 27 novembre 2011, invita al secondo appuntamento uno spettacolo non “nuovo” – e questo ci sarà molto utile per l’analisi – di Accademia degli Artefatti: My Arm di Tim Crouch, con la regia di Fabrizio Arcuri e con in scena Matteo Angius ed Emiliano Duncan Barbieri. Questo invito è piuttosto comodo per introdurre l’altro, sequenziale, che coinvolge critici e operatori ad incontrarsi proprio sul tema larghissimo di cosa desideriamo intendere per “novità” in ambiti artistici e in generale sulla difficoltà di sistema nella gestione di produzione e circolazione delle opere. Il progetto, che si appoggia alla nostra ormai consueta Situazione Critica, chiama un diverso critico di una delle due webzine ogni volta all’incontro con un diverso operatore, dopo lo spettacolo.

My Arm è un’ottima conferma del progetto culturale di Accademia degli Artefatti attorno alla figura umana calata in una realtà che non sa più cogliere, scegliendo non a caso di dedicarsi alla drammaturgia contemporanea anglosassone che meglio di tutte ha saputo interpretare la moltiplicazione dei piani di realtà e ne ha portato a fondo il carattere grottesco che di essa è ovvia conseguenza…

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Un coro sul riso tra forma e coscienza

Homo Ridens - locandina di Rojna Bagheri

Nell’ultimo fine settimana di Santarcangelo 41, in linea con il susseguirsi di cori che hanno costituito il programma del Festival (sotto la direzione artistica di Ermanna Montanari), una pluralità di voci apre ad una riflessione attorno al riso: dall’atto inteso come reazione del singolo tanto alla Storia quanto agli accadimenti politici, culturali e sociali dell’oggi, all’azione del ridere in sé, con le sue modificazioni tonali e facciali. Ad inaugurare questo momento – così in successione come visto – è stato Teatro Sotterraneo con Homo Ridens, la nuova produzione della compagnia fiorentina che ha debuttato lo scorso giugno a Castiglioncello. Il lavoro si presenta come creazione site-specific sul tema della risata: ogni tappa rinnova lo spettacolo interagendo e confrontandosi con il precedente. Homo Ridens è un test sul pubblico, sulla sua reazione di fronte a immagini e scene crudeli e violente: fotografie di un mondo arido e povero, tragedie che conosciamo solo perché trasmesse e rese note dalla televisione; realtà così distanti o non appartenenti a questa frazione di Terra tali da scontrarsi con il cinismo e l’indifferenza dell’uomo. I quattro performer in scena ricercano – e sembrano sollecitare – questa reazione, una risata incondizionata e superficiale che dovrebbe caratterizzare le nostre vite. La provocazione lanciata da Teatro Sotterraneo è intelligente ed efficace nella messa in discussione del limite tra teatro e vita. Dal test che definisce gli spettatori come “obiettori di coscienza imperturbabili” alla sequenza in cui Sara Bonaventura sperimenta molteplici modi per morire o essere uccisa, la scena si struttura nel continuo altalenare tra ciò che potrebbe essere la realtà e ciò che invece è finzione, stiamo assistendo solo ad una rappresentazione. Ma a fare quasi da contraltare, il lavoro presenta soluzioni più semplici che fanno uso di luoghi comuni o stilemi popolari come la barzelletta sul bunga bunga (intenzionalmente non divertente!); elementi che affievoliscono la struttura drammaturgica e limitano il linguaggio poetico del gruppo pur considerando l’aspetto performativo di Homo Ridens. In questo momento storico si fa sempre più necessario lo sviluppo di un pensiero che sostituisca all’alternativa una possibilità non più circoscritta in quanto contraria ad altro ma aperta anche nella più modesta constatazione di un fatto, smettendo così di alimentare un sistema che procede secondo i concetti di giusto e sbagliato.

Ridere - foto di ©Marc Domage

Lontanissimo dal linguaggio di Teatro Sotterraneo è il lavoro dell’artista Antonia Baehr. Ridere è il titolo dello spettacolo che la coreografa e filmmaker tedesca ha presentato a Santarcangelo, portando nuovamente noi spettatori a indagare la materia “riso”. Baehr adotta un approccio totalmente tecnico, ripensa all’atto in sé liberandolo da ogni accezione relazionale e slegandolo da meccanismi di causa-effetto. Sulla scena in abito e posa da concertista, l’artista esegue una serie di partiture sulla risata (scritte per lei da suoi conoscenti) concependo questa esternazione unicamente come suono e forma. La creazione, di grande virtuosismo vocale e attoriale, può divertire l’osservatore, ma lo stimolo è involontario, non finalizzato e la performance si inserisce nel programma del Festival come a fornire un’ampia gamma di possibilità dell’atto puramente materiale, una dichiarazione poetica incisiva e a tratti ironica anche se percettivamente limitata dall’operazione di autoriflessione.
Molteplici modi per approcciarsi al riso, ai fattori che lo hanno generato e a ciò che comporta quest’espressione. Eresia della felicità è un lavoro che non tocca direttamente la tematica ma in qualche modo la possiede intrinsecamente. Una creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij (come recita il sottotitolo) guidata da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che, con il Teatro delle Albe, hanno chiamato a raccolta a Santarcangelo 200 dei giovani che hanno preso precedentemente parte a laboratori della non-scuola nei diversi paesi d’Italia e non solo (da Scampia a Mazara del Vallo, da Diol Kadd in Senegal a Rio de Janeiro in Brasile). Eresia della felicità è energia pura e semplice che non genera grasse risate ma sorrisi che il corpo non riesce a trattenere di fronte alla manifestazione di un’emozione. Eresia è incontro e confronto di culture, è amore e apertura verso l’altro: ce lo dicono le grida sincere dei ragazzi quando reclamano Caffè, un adolescente brasiliano, quale propria guida nella sequenza del Diluvio (tratta dalla scena I del Mistero Buffo di Majakovskij) in cui il rumore della pioggia viene simulato con il solo, e poetico,  movimento corale di mani e piedi, in un crescendo che porta il gesto a trasformarsi in danza; così come  il candore della voce di Egle mentre ripete «Risplendi sole nel buio, ardete stelle di notte, ghiaccio sotto di noi spezzati». Caffè, Egle, Franceschino, sono solo alcuni dei nomi dei partecipanti; Martinelli lascia che ognuno di loro si presenti al pubblico riunito – o capitato – allo Sferisterio; una scelta che a prima istanza risulta quasi eccessiva, ma che nel suo svilupparsi consente di cogliere la stratificazione culturale dell’incontro e la distanza che intercorre tra i vari ragazzi fino a rendere evidente quanto la cultura mediatica del nostro Paese influenzi la gestualità e le parole della “tribù” italiana.

Eresia della felicità - foto di Claire Pasquier

Giunti al decimo giorno di lavoro (pubblico) su Eresia, Martinelli coordina le azioni conservando tutta la freschezza di quegli adolescenti in calzoni neri e blusa gialla – come recitano i versi di Majakovskij ripetuti dai ragazzi. A noi, che finora ci siamo sentiti osservatori, viene chiesto di avvicinarci allo spazio in cui si sviluppa l’azione (come a evidenziare l’insita volontà dell’uomo a mantenere una certa distanza),  i loro occhi si rivolgono direttamente ai noi, le parole  penetrano i nostri corpi. Diveniamo testimoni di una creazione, acquisiamo un ruolo e veniamo infine chiamati a partecipare, a unirci a loro «per essere tanti, ma tanti».

Contenitore esplosivo dei temi finora affrontati è Orazi e Curiazi dell’Accademia degli Artefatti. Il dramma didattico di Bertolt Brecht recupera, con la regia di Fabrizio Arcuri, uno stato di necessità di messinscena; la battaglia tra i due gruppi è fatta di parole e racconti come a rifuggire da una violenza dalla quale siamo mediaticamente anestetizzati, è uno scontro in cui si procede grazie alla corruzione e all’astuzia, lasciando risuonare ininterrottamente un sottofondo sullo stato di azzeramento di ideologia (di sinistra) che domina a questi tempi e alla quale sappiamo rispondere unicamente con una risata. Ma che cosa c’è da ridere? A battaglia chiusa una voce fuoricampo spezza il divertimento, interrompe la nostra fuga verso una vittoria, un correre che non può portare da alcuna parte. «La vita, la morte, tutto senza motivo…  E si ride. Perché abbiamo così paura di stare seri? Stiamo seri, guardiamoci in faccia. Basta ridere».

Visto a Santarcangelo 41, Festival Internazionale del Teatro in Piazza

Elena Conti

Storia che viene. Storia che va

foto di Andrea Cravotta

La grottesca giostra della Storia continua a porre in luce conflitti di una civiltà  che contrappone buoni a cattivi, libertà a sottomissione, trovando nella guerra l’accentuazione di tale opposizione. Il teatro risponde a questo attacco continuando a parlarne. Parla di guerre l’Accademia degli Artefatti, diretta da Fabrizio Arcuri, e lo fa partendo da  Shoot/Get Treasure/Repeat di Mark Ravenhill. L’origine di quest’opera, ormai nota e mitizzata, vide, nel 2007, il drammaturgo inglese comporre 17 pièces revisionando in chiave contemporanea alcuni testi classici sul tema della guerra, da Omero a Euripide, da Dostoevskij a Brecht. La saga teatrale viene ripresa da Arcuri. Dieci sono i frammenti che l’Accademia degli Artefatti mette in scena. Appare abbastanza complesso tutto il meccanismo e per non mandarlo in tilt, il Teatro Metastasio Stabile della Toscana ha proposto una kermesse di due giorni nella quale presentare consecutivamente le dieci pièces di Spara, Trova il tesoro e ripeti.

Il secondo ciclo si è aperto con la rappresentazione di Delitto e castigo seguito da Paradiso Perduto, Nascita di una nazione, Terrore e miseria per chiudersi con l’Odissea. Gli episodi si sviluppano in un susseguirsi fluido di contrasti umani. La pazzia della guerra prende le mosse da situazioni specifiche come nella prima pièce. Delitto e castigo racconta di un interrogatorio di guerra che nel suo evolversi sprofonda nella psiche umana, nella crudeltà dell’invasore che, giustificato dalla sua missione di aver portato libertà e democrazia in un Paese, pretende che gli venga riconosciuto il diritto di appropriarsi di ciò che ha

foto di Andrea Cravotta

liberato. Ma la vittima, sembra dirci il regista, non è solo colui che si trova in territori occupati.  Come in un processo dai labili confini, vittima diviene anche il soldato sottoposto a decisioni a lui superiori, decisioni incontestabili che gli faranno perdere ogni contatto con la vita. L’ipocrita logica dei portatori di pace, la messa in scena di un’ipotetica giustizia sfumata di razzismo e repressione, si fa dettaglio per addentrarsi nelle frustrazioni della vita di una famiglia borghese con Terrore e miseria. Se un ingannevole spiraglio di salvezza viene dichiarato in Nascita di una nazione nell’appellarsi dell’uomo all’arte come ultima via d’uscita,  Arcuri non tarderà, con Odissea, a riportare in auge domande quali Chi porta la libertà a chi? Chi ha così tanta democrazia da poterne regalare un po’? Con lo sguardo rivolto sempre verso lo spettatore, gli attori  sembrano voler rendere ogni soggetto consapevole delle proprie colpe e della propria inerzia. Il regista ci lascia al di qua della scatola scenica che si fa “specchio” del pubblico, come in Delitto e castigo, ma allo stesso tempo ne definisce il limite del suo intervento. Illusorio coinvolgimento è ciò che emerge da ogni pièce. Gli attori si muovono tra le gradinate del teatro, consegnano carta e penna agli spettatori (Nascita di una nazione), lasciano che questi si sentano chiamati in gioco, responsabilizzati, per poi annullarne ogni valenza, tornare alla messa in scena, alla distanza e passività dello spettatore. Nella drammaturgia frammentata le parole si fanno portatrici delle più varie sfaccettature anche se non viene mai meno la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un conflitto tra Occidente e Oriente raccontato dalla posizione di un occidentale. Come in una battaglia navale, la kermesse ha visto un dileguarsi di persone nel susseguirsi delle rappresentazioni, come a volerci ricordare il limite di accettazione delle nostre responsabilità o sopportazioni.

Visto al Teatro Fabbricone di Prato il 31 gennaio 2010

Elena Conti