Recensione a Come uno scarafaggio sul marciapiede – regia di Antonino Varvarà
È luogo comune ormai pensare che sia il malessere più che il benessere a rendere l’uomo creativo, che sia la necessità o l’assenza di qualcosa a smuovere l’intelletto e a stimolare la produzione di forme artistiche che siano allo stesso tempo espressione e catarsi. Forse è per lo stesso motivo che da qualche tempo gli artisti vengono percepiti dalla società come gli eterni scontenti, ancor più di recente la parola “crisi” ha fatto irruzione nel nostro vocabolario quotidiano e il disagio, la disillusione hanno ricominciato a battere alla porta.
È proprio da questi fermenti che nasce il nuovo spettacolo scritto e messo in scena da Antonino Varvarà: Come uno scarafaggio sul marciapiede. Il male in ogni sua declinazione aveva aperto la stagione del Teatro Aurora – il tema lanciato da Giovani a Teatro come fil rouge della sezione Esperienze – e ha letteralmente contagiato le iniziative del vicino teatro gestito da Questa nave: la nuova produzione ne è l’ultimo esempio.
Nonostante il titolo decisamente insolito, non vi è alcun rimando a Kafka: il testo scritto dallo stesso Varvarà è piuttosto un dialogo interiore che si incrocia tra i pensieri del protagonista.
Una scena vuota, un uomo, con cappello e cappotto, in mano una valigia. Qualcosa di impercettibile fa intuire che se ne sta andando; ad accompagnare i suoi passi le musiche di Sigur Ross e una voce fuori campo, il suo pensiero interiore. Lentamente la scena si popola: tre figure, tre donne, vestite in bianco, grigio e nero occupano altrettante sedie rosse.
Le scelte cromatiche, estremamente semplici, acquistano, con lo scorrere del tempo, sempre più valore. Lo spazio, dapprima assolutamente privo di connotazione, pian piano assume un ruolo fondamentale. È il testo a creare l’immagine, un affondo tagliente e doloroso negli angoli più bui dell’animo umano, tutto quel che si vorrebbe dire e non si è mai detto; una poesia dolce carica di rinuncia e disillusione. È attraverso le parole che i pensieri prendono forma, ecco allora che la scena sembra essere un parallelo della mente dell’uomo, che rivanga il passato: tutte le sue scelte, i suoi incubi, i suoi ricordi migliori. Le tre donne altro non sono che tre momenti della sua vita, o – volendo astrarre ancor più – tre “pensieri” quasi una scala cromatica delle sfumature dei sentimenti dell’uomo. Le chiavi di lettura sono molteplici, il testo lascia aperte diverse interpretazioni, ma è sempre la parola ad avere il sopravvento.
Lo spettacolo infatti si regge principalmente sulla poesia e sulla verità scatenate dalle parole scritte dal regista, non vi è una storia, vi è un susseguirsi di scene fini a se stesse. L’integrità della performance è frammentata da bui continui e forse non sempre indispensabili. Sebbene le parole siano forti, gli attori della giovane compagnia Trepunti, nonostante il forte slancio poetico, stentano a sostenere i ruoli, forse la mancanza di veri e propri personaggi non li aiuta a reggere la scena e la presenza si indebolisce, facendo perdere il filo del discorso e la potenza delle parole. Un testo valido ma una messa in scena ancora fragile, sicuramente l’esperienza aiuterà la compagnia di attori a trovare una propria strada interpretativa e una sicurezza in più.
Visto al Teatro Aurora, Marghera
Camilla Toso