Recensione a Emerald City – Fanny & Alexander
La duplicità ha sempre giocato un ruolo molto importante nel lavoro teatrale della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Una coppia, la drammaturga Chiara Lagani e il regista-scenografo Luigi de Angelis, che firma insieme l’ideazione di ogni percorso progettuale lungo e complesso: un viaggio dentro un’opera letterale che viene totalmente sviscerata, analizzata e amplificata in tutte le sue infinite possibilità.
Ricomponendo e scomponendo attraverso diverse tappe Il meraviglioso mago di Oz – storia fantastica scritta da Frank Baum all’inizio del secolo scorso e resa ancor più celebre con il film di Victor Fleming – Fanny & Alexander offre la possibilità al pubblico veneziano di giungere a Emerald City, la città utopica abitata da colui che dà il nome al romanzo. La duplicità si presenta sin da subito: gli spettatori non sono semplici osservatori di ciò che succede, ma artefici stessi – forse inconsapevoli – della situazione che si viene a creare; seduti sul palco sono loro stessi un’opera, loro stessi gli artisti e soprattutto diventano gli abitanti della ingannevole città di smeraldo. Ingannevole perché immediatamente il gioco dei rimandi si complica: il mago di Oz, a cui nel romanzo i personaggi rivolgono i loro desideri, trova la sua personificazione in una delle immagini simbolo del potere, niente di meno che Hitler. Posto davanti a uno sfondo spaziale che richiama i quadri/vuoti materici e illusionistici di James Turrell, la geniale coppia romagnola alza la posta in gioco decidendo di mostrare il dittatore, di fronte agli spettatori, in ginocchio: l’interprete Marco Cavalcoli ricorda volutamente l’installazione dell’artista Maurizio Cattelan.
Immobile e bonario, Hitler rimane in ascolto, diventando una specie di confessore: un tappeto sonoro fatto di voci, preghiere, emozioni e racconti privati in diverse lingue lo avvolge, mentre gli spettatori possono sentire la stessa “sinfonia” – come la definisce Chiara Lagani – tramite delle cuffie che rendono le confessioni ancora più intime. L’attore-dittatore assorbe ciò che gli viene detto riflettendo tutte le emozioni umane attraverso una mimica facciale più comprensibile del linguaggio verbale composto da suoni stranieri, suoni che girano attorno ai concetti di “cuore, cervello e coraggio”, tre virtù dell’uomo. Questa nenia di desideri umani crea Oz, quel grande vuoto a cui i personaggi del romanzo danno una forma differente, secondo il proprio volere. E infatti se nella prima parte il dittatore è più uomo e meno mostro, nella seconda parte di Emerald City l’attore Cavalcoli scompare, lasciando il posto a una proiezione 3D: invitando a mettere degli occhialini verdi – occhiali per la visione in 3D forniti al pubblico all’ingresso del teatro – l’immagine silenziosa di Hitler e alcune scritte proiettate alla parete spingono gli abitanti della sua città color smeraldo a seguirlo. E gli abitanti-spettatori – vinti dalla tecnologia accattivante e dalle fascinose possibilità del video – seguono, come fossero sotto incantesimo, gli ordini di Hitler in tutto e per tutto. Potrebbero riecheggiare qui le parole della famosa canzone The sound of silence di un’altra coppia, Simon & Garfunkel: “e la gente si inchinava e pregava/ al Dio neon che aveva creato. E l’insegna proiettò il suo avvertimento/ tra le parole che stava delineando. E l’insegna disse: ‘le parole dei profeti/sono scritte sui muri delle metropolitane/e sui muri delle case popolari’.”
Fanny & Alexander mostrano il potere dell’arte della persuasione, la pericolosità di immagini e oggetti che attraggono e mandano a casa lo spettatore solo a posteriori conscio di aver partecipato, anche solo per gioco, alla follia di Hitler. Si rabbrividisce al solo pensiero: essere omologato e seguire un dittatore nei suoi folli capricci non è né così improbabile o impensabile né poi così lontano dalla nostra quotidianità come si crede.
Visto al Teatro Universitario Giovanni Poli, Venezia
Carlotta Tringali