Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie
Un piano che scivola continuamente tra finzione e realtà, tra sincerità e rappresentazione: colpisce per il carattere diretto e coinvolgente Il mare in tasca, spettacolo diretto e interpretato dall’argentino César Brie, andato in scena al Centro Culturale Candiani di Mestre. Tre personaggi, che trovano un senso nel singolo corpo del regista naturalizzato italiano, si alternano continuamente intorno a piccoli e semplici oggetti caricati di una simbologia multipla. Brie mette in atto l’espediente del metateatro, interpretando un attore che una mattina si risveglia vestito da prete, per volontà di un Dio severo che lo costringe a rappresentarne la parte. Tutto assume intelligentemente una duplice valenza: le fragili e minuscole bamboline sedute di spalle su una piccola panca diventano i credenti presenti alla delirante funzione religiosa del prete-attore; ma allo stesso tempo sono una proiezione del pubblico in sala che assiste a uno spettacolo. Palese è la voluta coincidenza della rappresentazione liturgica con la messa in scena teatrale: il regista e fondatore del Teatro boliviano de los Andes presenta la religione come qualcosa di esistente solo nel momento in cui ci si crede. Proprio come accade in teatro: lo spettatore accetta la verità della finzione, che ha senso di essere solo con la complicità del pubblico, a sua volta testimone di un sacramento. Brie crea così, in maniera irriverente e ironica, la storia di un uomo che non crede in Dio ma che è costretto a conversarci: quello descritto è un Signore troppo assente per un mondo in decadenza, ma troppo presente per piccole vicende quotidiane, che sembrano inutili, proprio come quella di un attore. Camuffato da prete, il personaggio dà vita a un divertente monologo, molto apprezzato dal pubblico, con battute che irridono il sacramento della confessione ribaltandolo e caratterizzandolo tramite laicismo: Brie assolve non solo le sue marionette da insignificanti peccati, ma anche il pubblico per l’aver fischiato Maradona o per confondere la Bolivia col Venezuela.
Come se avesse un rosario, il regista tira fuori dalla sua tasca un piccolo nastro blu, simbolo di un mare che qui si trasforma in un oggetto sacro: alludendo a una immensa distesa d’acqua, la striscia di stoffa separa l’uomo fisicamente dalla terra; una separazione spirituale che dovrebbe avvenire mentre si prega, tenendo tra le dita il piccolo strumento religioso che ricorda una collana. È un gioco che si basa continuamente su una duplice interpretazione e che lo spinge ad osare di più: si porta il nastro alla bocca, imbavagliandosi, come se quel nastro diventasse un impedimento a vivere la propria vita rimanendo attaccati alla terra e magari all’effimero.
A metà dello spettacolo, quando si è convinti di trovarsi di fronte a un teatro che parla di religione, Brie spiazza lo spettatore annunciandogli che in realtà il tema è l’amore. Convince poco questo cambio improvviso che sembra rimanga solamente una formalità: la religione continua a essere presente con l’esempio dell’affetto incondizionato che coincide con l’eutanasia, “portando il proprio amore a morire” come dice lo stesso attore. È un tema questo che nell’immaginario non può separarsi dalla religione. Proprio come la tunica da prete che il regista si toglie, ma da cui sotto ne esce fuori un’altra identica, Brie prova a camuffare la propria pièce, facendole indossare l’abito amoroso, quando sotto è sempre presente quello religioso. L’amore presente nel finale sembra però sposarsi benissimo con quel mare in tasca perché come dice il regista argentino a proposito dello spettacolo “Ognuno può vederci il proprio dolore d’amore, i resti di un naufragio. E il porto non c’ è, a meno che quest’ultimo non sia negli sguardi degli spettatori”. Sguardo che osserva l’attore-prete-uomo con affetto.
Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre
Carlotta Tringali