Recensione a Woyzeck ou l’Ébauche du vertige – di Josef Nadj
Si percepisce dall’applauso che fatica a partire – anche se poi si fa calorosissimo; dalla curiosità negli occhi degli spettatori che, terminato lo spettacolo, possono finalmente avvicinarsi al palcoscenico per osservare quegli oggetti che, come reperti o macerie di una tragedia, segnano la scena del Woyzeck di Josef Nadj: si è appena stati coinvolti in una magia e il riemergere da questo stato richiede una lenta ripresa di consapevolezza, come l’atto di oggettivare quegli elementi che si sono manifestati finora come apparizioni. Il lavoro del coreografo franco-ungherese – ora al CCNO di Orléans – è come una stupefacente macchina scenografica che opera nel piccolo spazio deputato all’azione. Nadj riprende l’opera incompiuta di Georg Büchner in tutte le sue sfaccettature; il manoscritto lasciato dall’autore si compone infatti di quattro versioni – o ébauches, bozze, da qui il sottotitolo – e il coreografo sembra non fare una scelta, ma presentare le diverse parti secondo una precisa formula di composizione che, per sovrapposizioni e ripetizioni, tende ad accennare più che dichiarare. Una struttura che se in parte nega allo spettatore una lettura lineare in cui rintracciare i punti cardine dell’opera, dall’altra lascia che la scenografia, con le sue variazioni, prenda il sopravvento e vada a comporre una drammaturgia visiva più affascinante della storia in sé. Nel Woyzeck di Nadj si ritrova il giovane soldato protagonista dell’opera, così come Marie, la sua compagna, ma il tradimento di questa viene presentato come violenza; non può esservi consenso perché la donna è una marionetta, il suo corpo viene passato di uomo in uomo e lei viene uccisa una, due, tre volte… O forse mai, essendo già morta. Il volto di Marie – così come quello degli altri danzatori – è stato infatti privato del colore rosato della pelle; i lineamenti sono stati coperti con uno strato di argilla a negare identità e vita.
La danza di Nadj è fortemente espressiva e a tratti caratterizzata da gestualità dal sapore circense; il movimento si fa esagerato là dove è raccontato lo scontro tra Woyzeck e i suoi antagonisti ma anche dettato da scelte artistiche, come dichiarato dalla presenza di costumi imbottiti che si contrappongono alla fisicità convenzionale del ballerino. Ma la partitura coreografica è ricca di sfumature e il gesto poetico e tragico si origina dalla povertà della scena: nella miseria di una vecchia e polverosa stanza, i sette danzatori occupano lo spazio insieme a qualche sedia, un tavolo e delle porte appoggiate alla parete-fondale; sfruttano gli oggetti scenografici – fatti di legno, terra, paglia e sabbia – per consegnare agli spettatori immagini di grande bellezza. La miseria che Nadj porta in scena varca la composizione büchneriana per approdare direttamente ai conflitti della ex-Jugoslavia – il Woyzeck ha debuttato infatti nel 1994 – con uomini che si proteggono dagli attacchi nemici dietro a dei massi (resi in scena con delle piccole pietre) e che allo stesso tempo, con un lieve movimento oscillatorio, assegnano a questo riparo la condizione di dimora stabile lontana dalla precarietà bellica. E poi c’è la fame provocata dalla guerra: il rumore di ceci crudi in una scodella di latta, le uova e le mele che non possono essere mangiate perché custodi di tesori come degli scrigni.
E come non c’è cibo, non c’è neppure acqua: bellissima l’allusione alla presenza-assenza di quest’ultima nella simulazione di una doccia, sequenza in cui, nuovamente, la scenografia ideata da Nadj genera stupore per la capacità del coreografo di lasciare emergere da elementi primari, o dalla loro stessa mancanza, quell’aspetto magico in cui l’eco della poetica di Kantor, ma anche del coetaneo Nekrosius, non tarda a manifestarsi.
Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia
Elena Conti